Il caso di Francesca Barracciu me lo ricordo bene. Ricordo anche una lettera aperta in cui si chiedeva all’allora europarlamentare un passo indietro nonostante fosse uscita vittoriosa dalle primarie. Nella lettera si chiedeva un segnale per azzerare tutto, sedersi al tavolo e ricominciare. L’obiettivo, si scriveva nella lettera «è di avere una squadra di Governo nuova, esperta, capace, non compromessa e riconosciuta come di alto valore anche sul piano etico. Alla guida della quale non può che essere candidato chi questi requisti non solo li possiede, ma soprattutto gli sono riconosciuti dal popolo elettore. (...) Pensiamo, anche se ciò provoca in noi un profondo disagio personale, che vada tracciata una linea netta tra le vicende che hanno screditato il Parlamento dei sardi e il futuro dell’istituzione autonomistica». Anche questa bella lettera contribuì a bloccare la candidatura della Barracciu e spianare la strada a Francesco Pigliaru che poi avrebbe vinto le elezioni. Ritengo fu una cosa eticamente valida nonostante la Barracciu – lo ricordo ancora – è tuttora solo indagata, accusata di peculato per uso improprio per i fondi destinati all’attività dei gruppi consiliari della Regione Sardegna. Va tutto bene allora? Certo. Benissimo. Peccato che uno dei firmatari di questa lettera pubblicata dai quotidiani nel dicembre 2013 fosse il senatore di Rifondazione Luciano Uras, oggi indagato per lo stesso reato e anche lui dovrà giustificare la spesa di 70 mila euro. Perché nessuno ricorda questo passaggio? L’etica ha un diverso peso nella sinistra? Non credo e non lo spero. Mi auguro, invece, che l’Onorevole Uras riesca brillantemente a spiegare come abbia speso 70.000 euro, così come argomenterà anche Francesca Barracciu. Il problema però è un altro: ma l’onorevole Uras, a dicembre 2013, quando scrisse la lettera insieme a Cappelli non ricordava di aver usato anche lui fondi destinati all’attività dei gruppi? Non sapeva che, prima o poi sarebbe accaduto anche a lui dover giustificare? Se la storia fosse accaduta prima delle votazioni al Parlamento avrebbe fatto il giusto e sacrosanto passo indietro? E adesso? Adesso non ci rimane che provare a scrivere la morale di questa favola per niente a lieto fine: “Su boe narat corrudu a s’ainu”.
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Avevo un compagno, alle scuole elementari, che non scambiava mai le sue figurine, non divideva i pastelli e a pallone voleva solo vincere. Aveva un bel sorriso da smorfioso e sapeva fare l’occhiolino con entrambi gli occhi, cosa che a me non riusciva. La maestra diceva sempre: “in fondo, è simpatico.” Anche alle scuole medie un mio compagno di classe voleva primeggiare. Era uno più “ricco” di noi: portava i pantaloni lunghi a zampa di elefante e tirava le trecce alle ragazzine. Qualcuna la palpeggiava. Si beccava qualche rimbrotto ma ricordo che una mia “fiamma”, alla quale scrivevo frasi mielose e stupide, al tocco del mio compagno diceva: “è maleducato ma, in fondo, è simpatico”. Così sono cresciuto e ho visto alle scuole superiori altri ragazzi che non studiavano, copiavano i compiti ma non li passavano, sorridevano e inventavano scuse. In fondo, erano simpatici. Nel mondo dei grandi però ho cominciato a diffidare di questa strana locuzione. Dipingevano come simpatico, per esempio Giulio Andreotti quando faceva le battute sagaci, era simpatico Pinochet, Videla, era molto simpatico Gheddafi con quel suo strano modo di presentarsi, un po’ cafone. Era simpatico Nixon che giocava a ping-pong con Mao Tse Tung – lui un po’ meno simpatico, a dire il vero - . Poi divenne simpatico Bossi perché portava la canottiera in costa Smeralda, Borghezio con le sue battute tanto ma tanto simpatiche che riuscì a scatenare una guerriglia per una maglietta contro i musulmani esibita in pubblico. Poi, ad un certo punto, nel magnifico mondo della simpatia il più simpatico, autoproclamatosi da subito e osannato per anni, fu Silvio Berlusconi. Con lui divennero “in fondo simpatici” moltissimi personaggi: Putin tra tutti; Scajola, Fitto, Toti, Previti (che con quel ghigno farlo passare per simpatico ce ne voleva). Ma anche il simpatico show era sull’orlo del tramonto. “Vuoi vedere”, ho pensato, “che si comincia a rivalutare quelli che, magari non sono simpatici e hanno qualcosa di sostanzioso da raccontare?”. Ed invece, Grillo, non propriamente “in fondo simpatico”, ci ha raccontato che anche Nigel Farage ha il senso dell’humour e dell’ironia. Le dichiarazioni di questo “simpatico signore” vanno da: “I lavoratori europei stanno rubando i posti di lavoro agli inglesi” a “Le donne con i figli valgono meno ed è giusto che ne lavoro abbiano una riduzione di paga”. Un simpaticone. Il movimento cinque stelle ha deciso di allearsi costituendo un gruppo unico nel parlamento europeo, con questo “simpatico” signore. Per carità, tutto è possibile, ma non ci raccontate poi che tutto questo non conta, perchè Beppe è oltre le ideologie, oltre Hitler. Ecco, sarò all’antica ma a me, questo mondo “troppo simpatico” sinceramente non piace. Qual è il colore vero del buio? Una volta, un detenuto mi rispose: l’ergastolo è il giusto orizzonte al buio infinito, all’impossibilità di esistere. Probabilmente aveva ragione. Dunque, se fosse davvero così noi quel colore non lo conosciamo, lo possiamo soltanto immaginare. C’è poi un altra strada difficile e impervia, probabilmente ancora più buia: quella del 41 bis, quella del carcere duro, durissimo. Lentissimo. Gli attimi dentro quel budello non esistono e, a volte, non esistono neppure le ore, i giorni, gli anni. Sono solo supposizioni. Deve averla pensata in questo modo anche Antonio Iovine che da qualche giorno prova a collaborare con gli inquirenti, prova a camminare un po’ a tentoni in una strada ancora senza uscita. Non so cosa stia raccontando e non è questo il punto della mia riflessione: voglio solo provare a capire il colore del buio. Io quelle sezioni le conosco. Quelle di Fornelli, all’Asinara, oggi consegnate al parco e alla gente. Io le conosco bene perché ci ho lavorato in quel budello quando il sangue si raffermò, nel 1992, quando i pensieri furono solidi e gli occhi liquidi. Quando si cominciò a prevedere per chi si era reso protagonista delle varie mattanze il carcere duro, vero. Il buio. Quell’assenza di possibilità, quell’abbraccio asfissiante che toglie il respiro e prova a ridisegnare, in peggio, le esistenze di chi ha ucciso uomini, donne e bambini. Di chi ha calpestato la dignità di migliaia di persone. Loro il vero colore del buio lo hanno conosciuto. Li osservavo senza regalare parole. Capivo che per loro rappresentavo lo Stato, quello che avevano sfidato. Lo sapevo e capivo la difficoltà a stringere una mano, a dare una risposta, a dire, semplicemente: “me ne occupo”. Eppure lo facevo. Perchè credevo e credo che il colore del buio sia terribile. Occorre provare a segnare una strada diversa. Dopo quel non-colore, quell’orribile discesa nell’inferno dei vivi, dopo che i pensieri ti logorano negli anni, dopo i silenzi e gli sguardi che osservano solo una cella, provi a sederti sull’orlo della vita insieme alla tua coscienza e ti chiedi: che cosa c’è oltre il buio? Ecco, in quel momento è possibile provare a ripartire, bussare timidamente la porta di quello Stato che un giorno hai colpito barbaramente. Antonio Iovine ha cominciato questo percorso. Il 41 bis è dunque servito. Perché chi conosce il vero colore del buio non può dipingere il proprio futuro. Il gioco del pallone è la metafora della vita. Queste sono cose che si imparano da grandi. Quando sei piccolo ti devi schierare e devi “tifare”. La scelta cade sul calciatore che più ti attrae più che su una squadra. Ai miei tempi, poi, era semplicissimo: il calciatore giocava quasi sempre con la stessa squadra. A cambiare “maglia” erano solo quelli con meno luce “addosso” non erano i fuoriclasse. Ai miei tempi però c’era da effettuare una scelta radicale e a quell’età fu importante e segnò il futuro calcistico (niente di serio, per carità) di tante generazioni: molti cominciarono a tifare il Cagliari. Non i giocatori di quella squadra ma il Cagliari che rappresentava, almeno allora, la Sardegna. Lo era anche per i sassaresi, gli olbiesi, gli algheresi. I campanili, a quei tempi non esistevano. A dieci anni, poi, il calcio era solo uno splendido gioco dove la passione e la voglia di esultare era la felicità di un bambino. Di Rovelli e di Moratti i bambini non sapevano nulla, ma di Gigi Riva e di Sandro Mazzola conoscevano praticamente tutto. Erano figurine, icone di quel periodo. Arrivò lo scudetto e scesero sull’isola giornalisti seri, importanti, tutti a raccontare, a provare a capire cosa fosse successo di antropologicamente importante. Qualcuno scrisse che lo scudetto rappresentava un riscatto per l’isola. Io, sempre dentro i miei dieci anni, contavo i giocatori del Cagliari nella Nazionale del Messico, quella che arrivò seconda al mondiale vinto da Pelè. Quella con Nicolai in mondovisione (la bellissima battuta è del compianto Manlio Scopigno). Poi, dopo quello scudetto, piccoli sussulti, cambi di presidenza, scoperta di non avere più imprenditori in grado di gestire il giocattolo, discese in serie minori sino a quando Massimo Cellino, nel 1992, acquisto il Cagliari: un ragazzo con la faccia da simpatico gaglioffo; un po’ rocker e un po’ spaccone, un giocatore di poker sempre sorridente che portò il Cagliari nell’inferno della serie B per riportarlo poi in A. Che cambiò decine di allenatori, che usò la scaramanzia come assoluta religione che finì, come Napoleone, due volte sulla polvere (due parentesi nel carcere di Buoncammino) e qualche volta sull’altare. Adesso molla. Vende tutto, dopo la fuga personale a Miami e dopo aver acquistato una squadra inglese, il Cagliari Calcio passa la mano. Arrivano gli americani. Chissà. Magari sarà la svolta, magari sarà un fallimento. Ma non ci sono più le figurine, i Pizzaballa, i Nicolai, i Boninsegna e i Carmignani di una volta. Non ci sono più quei bambini che urlavano festanti intorno ad un gioco bellissimo, metafora della vita. E se tutto questo non c’è più è perché un po’ non c’è più Gigi Riva e un po’ perché al posto suo, nel 1992, è entrato in questo strano mondo uno come Cellino. E tutto ha preso un’altra piega. La prima volta che ho visto dal vivo Beppe Grillo era il 2010. Era un incontro semi – improvvisato alla Galleria Umberto I a Napoli. Niente palco, solo un microfono, forse nemmeno un centinaio di persone; l’ultima volta che l’ ho visto in tv, è stato nel salotto di Vespa, pochi giorni fa. Ieri poi, in piazza San Giovanni, con un numero di persone quantomeno considerevole. Sono andata lì, a dire il vero, con l’idea di assistere ad uno spettacolo. Uno spettacolo costruito da lui e incentrato tutto su di lui, sul leader. Iniziano invece tre comici urlatori, tremendi, che introducono due rapper stile Rocco Hunt – ma perché, perché? – e rime tipo cuore/amore. Dopo è addirittura la volta di un trio tutto al femminile. Ballano tentando invano di muoversi in sincronia, come facevano le Spice Girls. Una delle loro canzoni si chiama “Legalizzala” e a giudicare dall’entusiasmo spropositato della vocalist, che cozza con le facce perplesse di molta gente, di quella robetta non legalizzata deve esserne girata un po’ dietro le quinte. Il pezzo grosso della parentesi musicale, a quanto pare, è Fabrizio Moro, uno di qualche Sanremo fa. Me lo ricordavo vagamente, ma come tipetto piuttosto tranquillo. Oggi è gasato quanto Jimi Hendrix a Monterey nel ’67, solo che questa invece sembra una delle edizioni più tristi del Festivalbar. Non dà fuoco a nulla, lui, ma ci dà dentro in altro modo: “ Siamo tutti qui, oggi, contro tutti sti figli di puttana!”; “Facciamoci sentire da tutti sti figli di mignotta!”. Prego che qualcuno lo fermi, perché sto rimpiangendo Bersani che canta “La mia signorina” con Neffa. Grillina a fianco a me e prima teoria del complotto: “ Hai visto, abbiamo anche Fabrizio Moro con noi!Infatti tu Fabrizio Moro l’hai più visto? Lo senti in radio?Io no”. Il perché della sparizione di Fabrizio per me sarebbe un altro, ma vabbè. Sarà pure un Movimento a 5 Stelle, ma come intrattenimento la stella che dò è una sola. Non è che l’idea di tutto questo ha a che fare con Rocco Casalino? In quel caso qualche ragione me la farei. No, che se proprio cercavano artisti impegnati, bastava anche un po’ di musica registrata, che so, un po’ di Clash e si va sul sicuro, almeno. Ci sono anche i cronisti 5 stelle e due dei fan di Fabrizio Moro chiedono di farsi intervistare. “ Dopodomani vinciamo noi!” Seconda teoria del complotto: “ Se non vinciamo, te giuro, è ppei brogli”; “ Beh, no, non si sa, ma abbiamo già vinto lo stesso, che siamo in tantissimi oggi!”. Un po’ di prudenza, che è meglio. Questo, per scherzare. Arriva lui, Beppe, e la gente si fa più attenta. Mi aspetto imprecazioni e urla, un monologo infinito. E invece no. Grida meno del solito e mi pare più vicino allo stile tenuto durante la diretta su Rai Uno.La frase “Non abbiamo bisogno di frigoriferi, ma di freddo”, non la capisco, ma, a parte questa, stavolta sento meno cose insensate. Anzi, lui parla anche poco e lascia spazio ad altri. Di Battista, Di Maio, che tanto male stasera, non sono, a parte quella costante pretesa di essere senza macchia e senza peccato. Non è male nemmeno la gente che mi sta attorno. Ci sono tamarri esagitati fermi ai vaffanculo a caso, ma non solo. E decido che parecchi meritano rispetto. Lo meritano perché iniziano a gridare “Onestà, onestà!”. Spontaneamente, senza che nessuno dal palco lo ordini; lo meritano perché applaudono prima il cassaintegrato di Pomigliano, poi Falcone e poi Borsellino; lo meritano perché quando per due volte viene nominato Berlinguer, si scaldano e si commuovono. E questo, quelli del PD dovrebbero e potrebbero considerarlo, senza l’arroganza che ultimamente non risparmia nemmeno loro. Casaleggio non sembra nemmeno il santone catastrofista che viene dipinto solitamente. Tattica elettorale? Può darsi. Non so se Grillo e il Movimento siano la soluzione del nostro disastro. Forse non lo sono. Ma non ditemi nemmeno che sono la causa. Pensavo di scroccare solo delle risate e invece mi è stato strappato qualche applauso. Quindi, per le prossime volte: meno supponenza, meno adorazione della stramaledetta rete, meno parolacce gratuite. E niente musica. La mia classe è fatta di molti bambini dove ci sono anche io. Io sono al terzo banco e la maestra mi ha messo con Gianluca. Non sono molto contento di questo Gianluca perché tifa la Juve e a me gli juventini non mi piacciono perché sono barrosi e si vantano che vincono sempre. Poi quando perdono, anche se perdono poco ma buscano da quelle squadre estere che sono più forti Gianluca si mette in silenzio tutto il giorno e non presta più niente. Dietro di noi ci sono due femmine che sono Manuela e Silvana. Sono abbastanza simpatiche ma quando ridono non si possono vedere perché non hanno denti dritti e portano la macchinetta quella che si mischia con il pane e loro non lo mangiano. Degli altri ne parlo poco perché siamo amici ma non troppo. Voglio parlare di Mirko e della sua mamma, una signora bionda con la macchina gialla molto grande. La mamma di Mirko sta sempre parlando e dice sempre che ha molte cose da fare e gira parecchio il mondo con gli aerei e porta molti regali a Mirko. Mirko con altri sette bambini che non metto i nomi perché sennò la maestra mi dice che allungo il brodo, a pranzo quando c’è la mensa si siedono tutti in un bancone vicino alla cucina. A loro dopo che tutti finiamo prima il primo e dopo il secondo gli tocca il dolce. A noi seduti di fronte no. La mamma di Mirko che parla sempre ha detto : ” quanto mi dispiace poverini “ ma lei non può fare nulla perché il dolce si paga e mica può pagarlo a tutti. Mia mamma quando ho detto questa cosa a casa non ha parlato molto e ha detto che lo diceva a mio padre. La sera dopo la cena mio babbo mi ha detto che io sono fortunato perché lui ha combattuto per me per salvarmi da una malattia brutta che ti fa venire una pancia grande e non puoi giocare più a pallone. Questa malattia mi ha detto mio babbo viene a chi mangia il dolce nella mensa della scuola perché quella tortina contiene una cosa tipo grasso che si attacca alla pelle e non si stacca più. Io guardo tutti i giorni Mirko e gli altri sette ragazzi. A parte Valeria che era cicciotta dalla prima elementare gli altri mi sembrano uguali e continuano a giocare a pallone. Io però sono convinto di quello che mi dice babbo e aspetto che alla fine della scuola quelli che mangiano il dolce diventano palle di lardo e noi riusciamo a vincere a calcio o fuggiamo a acchiaperllo che non ci prendono mai. La mia classe mi piace molto anche se è divisa in due per colpa del dolce. Mia madre quando mio padre non c’era mi ha detto che quando divento grande capirò. Che devo cominciare ad imparare dove sedermi che mi serve più avanti. Mi ha anche detto che anche i grandi vivono in tante classi diverse ma senza maestre e che ci sono uomini che hanno il dolce e altri uomini no. Ho capito che forse quella cosa di babbo non era molto vera, ma io lo perdono perché ha il nervoso che ha perso il lavoro e i dolci non gli sono mai piaciuti. Devo finire dicendo che il dolce non piace neanche a me. Come gli juventini barrosi. Luca. Quinta B. Dedicato a tutti i bambini delle scuole elementari di Pomezia che, grazie ad una decisione della giunta (sindaco cinque stelle, ma è un caso, chiaramente) saranno divisi per merendine: i genitori che pagano 40 centesimi in più daranno la possibilità ai loro figli di poter avere, dopo il pranzo, una merendina. Gli altri bambini staranno a guardare. Ma questo non significa che non possano capire. Adesso, che il sole è tramontato è tempo di controllare le nostre ombre. Adesso, quando la polvere ha cominciato a sedimentare su quei corpi fermi, irrisoluti, inermi, è tempo di sedersi ed ascoltare il cuore. O quello che ne resta. Per quello che serve, per il futuro nebuloso e gonfio di lacrime nascoste, di pianti disperati. Adesso, con la coscienza ancora in disordine, possiamo sederci e provare a guardare. A razionalizzare tutte le fotografie mosse che ci hanno invaso in questi giorni gonfi di orrore. Siamo partiti da lontano, a dire il vero. Come sempre. Siamo partiti a disegnare ombre che non combaciavano con i nostri palazzi e le nostre storie. Mica si può aprire la porta, la nostra porta, all’orrore. Quello, di solito viene da lontano, sempre da lontana. Ed invece. Ecco. davanti a quelle bare mute, davanti agli occhi di tutti i tempiesi impotenti, davanti al Limbara, a quei monti scolpiti nel silenzio atavico dei millenni non riusciamo a dire, a sussurrare semplicemente: ed invece. Di questo si tratta. Le ombre erano i nostri alberi, le nostre radici e non sappiamo perché hanno potuto disarcionare le fondamenta della nostra casa. Tutto era perfetto, i sorrisi con le labbra giuste, i panorami sempre lucenti, le passeggiate a Rinaggiu, le risate in piazza Gallura. Ed invece. Provare a risalire sino alla sorgente di questo fiume perché è questo che dovremmo cominciare a fare. E non stare sempre seduti davanti alla larga foce, dove tutto passa e tutto si dipana. La sorgente è il punto di partenza. Ed invece si preferisce il delta, dove è difficile comprendere le molecole, dove tutto si mischia: dolce e salato. Noi speravamo di poter dire: questa strage non ci appartiene. Non è nostra. Ed invece. Questa storia dei comunisti non l’ho mai capita. Una volta mangiavano i bambini, poi mangiavano a sbafo, poi non avevano voglia di lavorare, poi ce l’avevano un po’ con tutti. Insomma: i comunisti non erano propriamente delle belle persone. E io, quando tornavo a casa ne soffrivo. Mi piazzavo sul mio vecchio Teac L60 il disco di Claudio Lolli “Io ti racconto” e piangevo. Poi, se volevo dare una svolta di allegria a quegli attimi facevo girare sul piatto “la locomotiva” di Guccini. Per far trionfare la giustizia proletaria. Io, questa storia dei comunisti l’ho vissuta intensamente. Ci ho provato a dire che non era solo ideologia, ma serietà e sacrifici. Studiare, imparare, ricordare, stare attenti, saper citare Gramsci, affermare che anche Berlinguer era una persona solare. Ci ho provato a dire che io, Magistrato per vocazione e per amore, ero anche profondamente comunista. Sinceramente comunista. Quando tutti gli altri si vestivano da John Travolta io ero un comunista che suonava la chitarra in spiaggia e strimpellava De Gregori, Dalla, De André e, seppure fossimo in numero dispari, rimanevo sempre solo: io e la mia chitarra. Gli altri a pomiciare. Io ad ascoltare il mare e le onde. Ero un comunista contemplativo. E coglione. Son passati gli anni e di comunisti, di quelli veri, non ce ne sono più. Gianvittorio, il mio carissimo e stronzo amico, dice che son rimasto solo io. A continuare a credere nella legalità, nell’etica, nella giustizia. Senza il proletariato. Anche lui ormai dissolto. Questa storia dei comunisti mica l’ho capita. Del processo mediatico grillino. Che durerà un anno e forse più: trionfi la giustizia cinquestelle. Continuo a fare il magistrato e provo a mettere ordine in un disordine catastrofico. Ho ancora i miei vecchi dischi e gli antichi libri. Ogni tanto suono la chitarra sul terrazzo davanti al mare. E mi sento un po’ coglione. Ma colpevole di essere comunista no. Quel piccolo vezzo mi è rimasto. E me ne vanto. (Claudio Marceddu, Magistrato inventato, protagonista di due libri e del prossimo, in uscita a settembre, sempre che Grillo sia d’accordo) C’è il giorno dello sgomento e quello dell’attesa. Ci sarà spazio anche per la pietà. Ma quello è un altro giorno. Il respiro corto delle ultime ore ci ha portato a scovare strane verità. Un triplice omicidio compiuto da una sola persona con un movente ancora tutto da spiegare e da comprendere. Non erano malvagi venuti dal mondo dei cattivi e non erano neri o verdi e neppure cinesi. Erano occhi abituati alle nostre montagne, alle nostre strade, occhi che si abbeveravano delle stesse nostre storie. A quanto pare. Già, perché di questo si tratta: comporre e ricomporre attimi di follia e di terrore, comporre e ricomporre pensieri spacchettati, stritolati dal furore del momento, incapaci di bloccarsi, di fermarsi, di provare ad entrare in qualche binario arrugginito della memoria e fermarsi. Non lo ha fatto. Oppure non lo hanno fatto. Ho imparato, per mestiere, che la verità è terribilmente diversa dalla verità processuale e, a volte, ci fa comodo quella stereotipata, quella semplice: vittima-assassino. Ci crea una sorta di tranquillità apparente, ci consente di continuare a camminare quasi con leggerezza. Certo, avremmo preferito il cinese, l’extracomunitario, il continentale, uno che venisse da altrove e non qualcuno che raccoglieva quotidianamente i sorrisi del paese. Uno dei nostri. Siamo solo all’inizio di un percorso terribile. Siamo solo davanti piccoli e frammentari fatti e qualcuno si è già preso la briga di spiegare, analizzare, provare a comprendere. Fosse così facile da spiegare questa enormità. Fosse così semplice parlare a sangue ancora caldo, a sangue della nostra stirpe. Ecco, personalmente attendo di provare a comprendere. C’è qualcosa che non torna in questa storia nera come la notte di novembre. Non torna quell’ apparente normalità, non torna quella terribile cattiveria, non torna la solitudine di un ragazzo giovane schiacciato da un peso enorme. Non tornano molte cose e vorrei tornassero. Ma comprendo che anche oggi è il giorno dello sgomento. Arriverà quello dell’attesa e della pietà. E proveremo a dipanare quella nebbia scura che ha macinato i nostri sorrisi. Arriverà quel momento per comprendere tutte le urla della Guernica che ci ha devastato l’anima, quella guerra fatta in casa, nella nostra casa. Quel fuoco probabilmente una volta amico. Poi dobbiamo riuscire a dare un senso alle cose. Solo che non è semplice quando ti trovi davanti gli occhi di un bambino di dodici anni, chiusi per sempre. Come quelli di sua madre e di suo padre. Morti. Trucidati a colpi di spranga. Come leggere un libro di Stephen King. Dall’altra parte del mondo. In America, dove le stragi sono abbastanza frequenti, dovute al logorio della vita frenetica, al dover concludere tutto subito. Ma non in Sardegna, a Tempio Pausania, dove l’acqua cammina tra le rocce e i silenzi, il sole intiepidisce i monti e tutto sembra scorrere con la dolce lentezza della normalità. Ha bussato l’orrore alla nostra porta, ha massacrato un uomo, una donna e un bambino. Quando si uccidono i cuccioli significa che si è andati oltre il baratro, oltre la possibilità di poter riuscire a ritornare indietro. Dovremmo provare ad analizzare e non è semplice. Non intendo gettarmi nelle indagini, quelle lasciamole agli organi competenti. Non mi interessa scoprire la verità, la nuda realtà, le varie condanne e la giusta punizione per chi ha commesso questo orribile gesto. Non mi interessa in questo momento, almeno. Voglio comprendere il perché, qual’ è stato l’attimo che ha annerito la vista, che ha permesso ad una persona magari apparentemente normale, di uccidere un bambino, un cucciolo. Dicono l’usura, la disperazione, la solitudine. Dicono. Come se fosse facile davanti a quel sangue rappreso riuscire ad argomentare. E non lo è. Ma domandiamoci almeno che strade stiamo percorrendo e con chi: se ha un senso concedere la libertà di esprimersi in questo modo orribile, perché anche noi siamo diventati la periferia dell’Oklahoma, del Kentucky, del Texas. Perché non siamo riusciti a prevenire, a comprendere chi ci stava accanto, a sentire i suoi silenzi a comprendere i suoi sguardi prima che potesse distruggere tutto con i suoi gesti. Di questo occorrerebbe parlare. E non è facile. Un po’ di SardegnaBlogger alla manifestazione all’ambasciata ucraina di Roma. ( Maria Dore)5/18/2014 Le manifestazioni con pochi aderenti hanno il loro vantaggio. Con poca gente si riesce a cogliere meglio le voci. Mentre mi aggiro discreta tra le persone, la prima frase interessante che sento è quella di un poliziotto che, guardandosi attorno, mormora tra i denti: “ Ma che cazz’é…?”. I suoi colleghi schierati in fila a pochi metri, senza che ce ne sia troppo bisogno, ci scrutano. Alcuni ridono. Altri, faccia dura e impassibile d’ordinanza. Che cosa sia questa manifestazione, il suo perché, al loro riflessivo collega, potrebbe spiegarlo una signora ucraina che mi sta a fianco e parla con un manifestante: “ Io sono della Crimea … lì per ordine di Kiev ci hanno tolto l’acqua. Un’ amica mi ha detto che la gente si affacciava alla finestra e sparavano contro. Perché la gente non vuole parlare di questo? Se Kiev vuole andare in Europa, che ci vada, ma noi no, non lo vogliamo.” Altro gruppetto, altra conversazione: “Ma c’è qualche giornalista italiano?” Risata e una parola: “Nessuno”. Tra le categorie non pervenute, quella dei politici di spicco, impegnati molto probabilmente nella propaganda per un’ Europa a cui la gente che è qui non crede più. Il corteo con in testa donne ucraine e russe che tengono in mano garofani rossi per le vittime di Odessa si avvicina ai poliziotti e chiede di poter avanzare di qualche metro, dopo che un funzionario sgattaiolato fuori dall’edificio dell’ambasciata ci urla: “ Viva l’Ucraina libera!”. Libera e nazista. Una serie di imprecazioni non gliele leva nessuno. Polizia irremovibile, fate il vostro minuto di silenzio e levate il disturbo, grazie. Inizia lo sgombero e un vecchierello attacca bottone col suo dialetto strettissimo. Mi invento che sia bergamasco perché mi ricorda la parlata degli attori de L’albero degli zoccoli di Olmi: “ Signorina, non siamo molti ma questo può essere un inizio ”. Gli sorrido: “Speriamo”. Due ragazzi passano in Smart e ci guardano con aria interrogativa. Vedono la bandiera rossa e il guidatore si lascia allora andare, con aria soddisfatta: “Viva Hitler”. Del resto siamo pur sempre ai Parioli. Il mare ha sempre colori diversi e contorni univoci: il mare ti abbraccia e ti avvolge. Ci sono però diversi “tipi” di mare e di “spiagge”. Non ho mai creduto ai concorsi del tipo: la spiaggia più bella del mondo, l’acqua più chiara, più pulita, il caraibi vicino a te. No, non ci ho mai creduto ma a leggere le “bandiere blu” appena consegnate per il 2014 qualche dubbio mi sovviene. Intanto, in Sardegna quattro bandiere blu. Solo quattro su 269 spiagge sparse per l’italia. Va bene, ci può stare, esulo dal sorridere nel vedere certe spiagge che ho visitato (Latina per tutte, dove il mare pareva un effimero ricordo e quell’acqua appariva dipinta con un indaco vischioso) ma a leggere le quattro bandiere blu della Sardegna rimango quasi senza parole: Quartu S.Elena, il poetto; Oristano, Torre grande; Santa Teresa di Gallura, la rena bianca e per l’Ogliastra Tortoli. Quattro spiagge due delle quali, per la verità molto affollate e amate dal gran pubblico domenicale: Torre grande e il Poetto di Quartu quello che, per fortuna, non è stato distrutto dal ripascimento dell’assessore che colpì solo quello cagliaritano. Belle spiagge, il Poetto lo frequento di tanto in tanto perchè è comodo, vicino alla città, ma da qui a dire che merita la bandiera blu ce ne vuole. Vorrei qualcuno passasse per Bugerru, cala pecora, per esempio, o Cala Cipolla verso Chia o, ancora Is Arenas, Scivu o le spiagge inarrivabili della mia Asinara. Ecco il mare ha sempre colori diversi e costruisce orizzonti fantastici: ma ci sono mari con onde più forti e acque docili da osservare. Potrei elencare moltissime spiagge della nostra isola e potreste farlo anche voi. Non credo a questo strano concorso. Hanno consegnato la bandiera blu a spiagge, in Italia, dove mi rifiuterei di appoggiare il dito del mio piede (abituato a ben altro). Però, come dire, me ne faccio una ragione e ricerco il mio mare non attraverso le bandiere blu ma solo attraverso il mio sguardo forte che sa riconoscere i veri sussurri del mare. Voglio raccontare una storia. Che non andrebbe raccontata. E neppure vissuta. Potrebbe essere nascosta tra le pieghe della fantasia se non fosse che, invece, parte da una notizia vera. Ve la voglio raccontare per provare a comprendere dove si annida la dignità, dove la giustizia e il futuro. Dentro questa storia non c’è neppure un vincitore. Tutti colpevoli. Dannatamente colpevoli. Anche chi questa storia ve la sta per raccontare. E’ la storia di Deborah, quarant’anni, di Sassari, una ragazza come tante, con qualche difficoltà, come tante, con dei figli da crescere, come tante e da qualche anno viveva in un alloggio popolare nel quartiere di Li Punti, a Sassari. Non trova lavoro Deborah ed è costretta a recarsi in Sicilia, dove qualcuno le ha promesso qualcosa. Starà via due mesi. Lascia la casa, la casa popolare ottenuta grazie alla graduatoria penosa e poco dignitosa, troppo lunga per poter accontentare tutti. Lascia la casa ad una conoscente, anche lei senza un lavoro e senza una casa. In difficoltà, come ce ne sono tanti. Quando ritorna, dopo qualche mese, Deborah non riesce più ad entrare nel proprio appartamento. Hanno cambiato la serratura e quella casa è occupata da altri. Quasi sicuramente la sua conoscente, senza una dignità ben delineata, ha “venduto” per poco, forse per niente, la casa ad altre persone che l’hanno occupata. perché anche loro sono in difficoltà e anche loro sono senza casa. Hanno gettato tutti i mobili, tutti i vestiti, tutti i ricordi di Deborah e le hanno chiuso, letteralmente, la porta in faccia. Deborah, allora, si rivolge alla Questura, ai carabinieri, inscena una protesta e si mette lì, davanti alla porta della sua casa ottenuta legalmente attraverso la graduatoria del comune. Comincerà lo sciopero della fame e decide di continuarlo fino alla morte se qualcuno non le restituisce la propria abitazione. Tutti vanno a sentire le ragioni ma è il Magistrato che deve prendere la decisione, denunciare chi si è impossessato abusivamente della casa e per fare questo ci vuole tempo. Adesso il comune di Sassari ha sistemato Deborah per qualche giorno in un albergo e spera di risolvere velocemente la questione. Probabilmente gli abusivi saranno denunciati, ci sarà la polizia che dovrà occuparsi della cosa e quelle dieci persone resteranno senza casa, in attesa, in sospensione. Sconfitti. E’ una storia terribile, angosciante, una storia da dimenticare, se fosse possibile. Ma non è plausibile girarsi sempre dall’altra parte. Dicevo che abbiamo perso tutti. Ed è vero: noi che facciamo finta di non vedere, noi che non riusciamo a fare un piano abitativo degno di questo nome, noi che non sappiamo più guardare le cose con una visione più normale, più vicino a queste terribili necessità. Perché dico noi? Perché siamo noi, tutti noi ad avere attuato questa politica: chi vota e chi governa. E anche chi non vota e se ne frega. E’ una storia che molti vorrebbero non raccontare, che dentro Facebook non ci fa una bella figura tra i cagnolini e i gattini e i vari “mi piace”. Ma andava raccontata. E ricordata. Chiedete conto, in questi giorni, soprattutto a Sassari a tutti i candidati che vi chiedono il voto: “Ma tu, a la conosci a Deborah?” Il mio nome tutto intero è Babakar. E per essere più precisi, io ero. Ero quel corpo incastrato sotto quelle due sagome bluastre che tutti, credo, avete visto morte e abbracciate. E dunque non mi avete visto perché ero sotto. Voi non lo sapete, ma mi avevate visto in televisione circa sei anni fa. Ero sul porto di Lampedusa, appena arrivato dalla Libia. Io non sono libico, cioè, non lo ero. Ero senegalese. Ma per arrivare in Italia mi è toccato passare per la Libia, che è la strada più breve e anche la più difficile. Almeno per quelli come me. Comunque, dovevo passare per forza, anche a costo di morire. Sembra una cosa bruttissima, invece è solo brutta. Se non fossi passato era sicuro che sarei morto, quindi anche solo la possibilità di non morire ancora, era già qualcosa. Insomma, sei anni fa ero in Italia. Ero sbarcato con altri sessanta da una barca piena di merda e senza vernice. Poi da Lampedusa ero riuscito a raggiungere la Sicilia, provincia di Palermo, dove c’erano dei ragazzi del mio villaggio. Mi avevano prestato dei soldi per andare fino a Torino, dove mi aspettavano altre persone. Sapevo che lì avrei trovato qualcosa da fare, e che piano piano avrei restituito i soldi agli amici in Sicilia e avrei potuto iniziare a spedirne un po’ in Senegal. Sembrava che le cose andassero bene. Per tre anni. Poi una sera, al telefono, mio fratello più piccolo mi ha avvisato che mia madre stava male. Sia il medico che una vecchia del villaggio avevano detto che poteva morire entro pochi giorni. Allora avevo chiesto altri soldi in prestito, questa volta meno perché avevo da parte qualcosa, ed ero partito. Mia madre era vissuta ancora due mesi, altro che pochi giorni. Era molto forte, lei. Però per due anni non ero più riuscito a ripartire. Il Senegal è il Senegal, il mio villaggio è il mio villaggio. E l’Africa… Ma non potevo restare a lungo. Mi toccava riprovarci, tornare in Europa, riprendere il vecchio percorso, riallacciare i fili con le opportunità, per lo stesso motivo della prima volta: non morire. Solo che ad arrivare in Libia, questa volta ci ho messo quasi tre anni. Come se il Deserto fosse diventato più denso e viscoso. Alla fine però, un bel giorno mi sono trovato nuovamente di fronte al vostro mare, pronto a imbarcarmi di nuovo. Il fatto che il clan di Gheddafi non comandasse più la Libia, che all’inizio mi era sembrato un bene, aveva reso tutto più difficile. La Libia è un paese dove la cattiveria nascosta con la forza per quarant’anni, ora spunta dalla sabbia come gas. Però alla fine c’ero tornato, davanti al Mediterraneo. Sembra l’oceano, ma non è l’oceano. È vero che quando arrivi sulla costa, guardi davanti a te e vedi solo acqua e cielo. Però non è la stessa cosa. L’oceano lo percepisci, percepisci quanto sia infinito. Il Mediterraneo è come se rimandasse sempre un po’ più in là. Come se dalla sponda opposta arrivasse qualcosa, niente che colpisca gli occhi e le orecchie, ma qualcosa. E poi una mattina siamo partiti. Acqua, poco cibo, molto carburante. E africani appiccicati uno all’altro. come i paesi da cui venivano, però mescolati. Il Senegal toccava la Nigeria, il Camerun strusciava sul Marocco a ogni onda, il Burundi e il Niger cercavano di parlare e di alzarsi per respirare bene, ogni tanto. Ci avevano detto di bere e mangiare bene il giorno prima; di bere, soprattutto. E io l’avevo fatto. E dopo due ore di viaggio mi stavo già pisciando addosso. Ero riuscito a spostarmi un po’ e a farla in mare. Ma sapevo che non mi sarebbe andata sempre così bene. C’era di peggio, però. Dopo sei ore il mare ha iniziato a gonfiarsi. Sbattevamo dentro la barca e uno sull’altro, sempre di più. Vomitare era la cosa migliore che potesse capitare. Il vento teneva abbastanza pulita l’aria sulla barca e ormai sapevo che avevo poco da pensare; c’era da aspettare e basta. Due giorni, ci avevano detto. C’era mare mosso, e il peschereccio era pieno da scoppiare; l’elica più di tanto non poteva spingerlo. Poi il vento è aumentato e i giorni sono diventati tre. Ma all’inizio del terzo, quando in molti non ci credevano più e piangevano, qualcuno è riuscito a vedere la terra e ha sparso la voce. Qualcun altro ha pensato che dovevamo farci vedere dai mezzi di soccorso. Ed ha acceso il fuoco. Il carburante stipato sulla barca ha preso fuoco a sua volta e molti, troppi, spaventati si sono spostati sullo stesso lato della barca. Io da quel momento non ricordo bene le cose. Ricordo che ho perso l’equilibrio, qualcuno mi è caduto addosso spezzandomi un dito e il mio collo è rimasto piegato per molti secondo sotto un peso che non vedevo e non riuscivo a spostare. Poi la faccia si è riempita d’acqua. All’inizio ho resistito, trattenendo il fiato per non bere. Poi ho iniziato a sentire freddo e a non vedere più tanta luce. Poi non ce l’ho fatta più, e visto che non riuscivo a liberarmi devo aver avuto bisogno di respirare, e l’ho fatto. Lo sapevo che non avrei dovuto. Lo sapevo bene. Eppure quando non ti resta più niente, ma sei ancora vivo, l’istinto prende il posto di tutto il resto e fa fare cose senza rimedio. Dopo pochi secondi sono morto. So che avete parlato di noi e vi siete commossi. Non tutti, perché qualcuno ha detto che era contento; so anche questo. Qualcun altro ha detto che ce lo siamo meritati. Pochi si sono chiesti, fino in fondo, se avessero qualche colpa o responsabilità. Per me ormai non fa differenza. Ma per voi, dico, sarebbe importante andarci fino in fondo, a questa domanda. Senza preoccuparvi per me. Perché io non sono mai esistito e sotto quei corpi abbracciati che avete visto in televisione, c’era solo il legno del peschereccio. Ma questa storia è vera. Scrivere è come avere “accesso ad un enorme edificio pieno di porte chiuse con l’autorizzazione ad aprirle a mio piacimento”. Lo dice Stephen King nel libro “autobiografia di un mestiere. Dal 12 al 17 giugno si apriranno, per 65 scrittori le porte di molti penitenziari italiani dove molti detenuti aspettano questo momento con curiosità. Non è la prima volta. Soprattutto in Sardegna dove addirittura lo scorso anno sono usciti due libri: evasioni d’inchiostro, scritto dai detenuti del carcere di alta sicurezza di Nuoro e La cella di Gaudì, scritto da dodici scrittori che hanno raccolto le storie di altrettanti detenuti dopo un’intera giornata passata in carcere con loro. Quest’ultimo libro, divenuto un piccolo caso letterario e unico, finora, in Italia, ha permesso a molti detenuti di uscire a presentare il libro insieme agli scrittori. Ho sempre detto, durante queste presentazioni nelle varie librerie e biblioteche dell’isola, che questo era il traguardo più bello che un libro potesse dare: regalare una porzione di libertà a chi libertà non aveva, almeno in quel momento. Sono molto contento di aver contribuito ad organizzare, in Sardegna, questo piccolo evento voluto fortemente dal Ministro Orlando sulle giornate di letteratura in carcere. Sono particolarmente contento anche perchè parteciperanno anche altri due redattori e scrittori di Sardegna Blogger: Fiorenzo Caterini e Emiliano Deiana. Fiorenzo andrà nel carcere di Badu e Carros di Nuoro per raccontare la scomparsa del bosco in Sardegna. A Tempio Pausania, carcere di alta sicurezza, saranno invece Gian Michele Lisai ed Emiliano Deiana a discutere con i detenuti del giallo e del nero, dei colori delle storie. Infine, ad Oristano, ci sarà Nicolò Migheli a raccontare le storie di cappa e spada della Sardegna del 1500, tratte dai suoi romanzi storici e Giulio Angioni nel carcere di Cagliari, Buoncammino per parlare delle sue fiamme di Toledo. Gli scrittori parleranno e per farlo useranno gli unici attrezzi del mestiere: le parole che navigano in un fiume molto affollato. Chi entra in carcere necessariamente si guarda intorno, cammina in quei lunghi corridoi gonfi di silenzio ottuso e cristallizzato. I detenuti hanno sempre in tasca molta curiosità e si avvicinano con attenzione alle storie e alle cose. Non dobbiamo avere paura di quel confronto. D’altronde, sempre per citare King “siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada”. E anche quando leggiamo sprigioniamo lo stesso fantastico senso di libertà. Buona lettura e buon ascolto a tutti. Ci vuole forza per provare a scavare nelle viscere dell’oscurità, in un buio inconsueto, che non ti aspetti. Ci vuole costanza nell’analizzare tutti i segmenti dell’apparente tranquillità, la misurazione naturale di una “normalità” che non ha, invece, sistemi esatti di comparazione. Ci flagelliamo nelle analisi sociologiche, tiriamo fuori dal nostro cilindro il meglio dei nostri studi, delle nostre ipotesi, delle nostre convinzioni, ma non serve assolutamente a niente. Non si può arare a nostro piacimento il terreno dell’incoscienza, delle passioni belle o terribili, delle pulsazioni inconsulte. Così non riusciamo a disegnare nessun tratto reale su quanto sia accaduto, davvero, quella sera, quella maledetta sera in cui un uomo, apparentemente uguale a tanti altri uomini, apparentemente gentile, premuroso, dolce, uno che saluta tutti togliendosi il cappello possa, con la stessa illogica “tranquillità”, assoldare una prostituta, seviziarla, ucciderla e tornare tranquillamente a casa. Dovremmo provare a trovare le parole, tentare di ricucire vestiti che non hanno orli, non hanno tasche, non hanno appigli. Ci vuole forza per definire il male, per riuscire a riconoscerlo. Ci vuole vigliaccheria ad essere il mostro della porta accanto, a tagliuzzare la memoria, le parole, a distruggere una vita e fuggire nel nero forte dell’oblìo. Ci vuole coraggio a osservare l’orizzonte con gli occhi verso i piedi e non dire nulla. Solo “ mi dispiace”. Ci vuole molta forza per raccogliere tutti i cassetti scompigliati di quest’uomo solitario e debole che ha varcato il buio della coscienza. Adesso è solo, davanti ad una porta terribilmente chiusa, profondamente chiusa, giustamente chiusa. Eppure dentro quel sottile angolo acuto dove i suoi delitti sono stati cacciati, ci sarà pure un modo per provare ad esplorare, capire e definire nuovi assetti affinché non si debba avere più paura della porta accanto. Sai Paola, qualche anno fa mi trovavo a Sassari in qualità di commissario esterno agli Esami di Stato e, durante la prima prova scritta, mentre i maturandi scrutavano con preoccupazione il loro foglio, chiacchieravo di alimentazione con una collega conosciuta lì. - Ma davvero? Anche tu sei vegetariana?? Che bello, anch’io! – mi aveva detto entusiasta. Dopo un paio d’ore avevamo ordinato i panini per il pranzo: - Per me con pomodoro e mozzarella – avevo affermato - Per me con prosciutto crudo e pomodoro – aveva detto lei Un po’ stupita le avevo chiesto: - ma non eri vegetariana? - - Eh, ma ogni tanto la carne la devo mangiare – aveva spiegato serafica. - Bellu cazzu 'e arréjnu! – Non gliel’avevo detto, ma lo avevo pensato. Quest’incipit, che sembra po’ astruso, alla fine avrà un senso. Ordunque Paola, ho seguito un po’ le tue ultime vicende e quando ieri, leggendo che recriminavi su quanto l’esibizione in bikini avesse centrato l’obiettivo di denunciare un sistema dell'informazione seriamente malato e di un paese profondamente sessista, ho pensato ancora una volta “Bellu cazzu 'e arréjnu!” Era necessario ricorrere a una foto in due pezzi, con punto focale sui glutei, per portare l’attenzione sulla lista Tsipras? Un po’ come se io andassi in classe e non facessi lezione o non assegnassi compiti per dimostrare che gli alunni sono svogliati. O un po’ come dire “certo che trombo, ma lo faccio in nome in nome della verginità”, no? - Bellu cazzu 'e arréjnu! – penseresti anche tu, ammettilo. Ovvio che non voglio paragonarti neanche lontanamente alla Minetti, ma per un attimo decontestualizziamo le singole azioni dalle rispettive, quanto diverse, vite e carriere: perché se l’igienista dentale si fa fotografare con addosso un ridottissimo costume è una poco di buono e se lo fai tu sei un’acuta e sottile provocatrice che ha raggiunto l’obiettivo? “Ho tentato in tutti i modi di guadagnare spazi mediatici per il nostro progetto politico, ma i media vengono agganciati solo da un bikini, perdendo completamente la testa. E' gravissimo.” Hai affermato indignata quando è scoppiato il polverone. Sai cosa io trovo sia gravissimo, invece Paola? Che una professionista come te, brava e competente come si dice in giro, soggiaccia alle dinamiche di una comunicazione malata e sessista che contestualmente denuncia. E la trovo anche cosa molto triste, a dire il vero. Paola, che un culo attirasse l’attenzione lo sapevamo già, era lapalissiano. E dopo un ventennio di Berlusconi, veline e Grande Fratello non avevamo certo bisogno di quest’ultima performance per verificare e confermare ancora i gusti dell’italiano medio. Ma se sei un’esperta, brava e competente come affermano, perché non hai frugato nel cilindro e tirato fuori una strategia ad effetto che non si adeguasse a quel codice mediatico che a parole disprezzi e che, invece, coi fatti assecondi e rafforzi? E’ evidente che disapprovo sentitamente gli insulti che ti hanno scagliato addosso, non hanno scusanti e ne prendo le distanze. Però continuo, parossisticamente, a leggere e rileggere le tue dichiarazioni sfiancandomi per trovare una motivazione un minimo razionale a giustificare ciò che hai fatto. E’ uno sforzo vano, Paola. - Bellu cazzu 'e arréjnu! – continuo a ripetermi scuotendo la testa. *Potevo accompagnare il mio post con una foto dei tuoi glutei, ma hai un bel viso e preferisco mostrarti così. E, contrariamente a quel che pensi, pazienza se mi perderò i lettori famelici di un culo. - Professore', quando inizia il caldo possiamo venire a scuola in pantaloncini? - - Assolutamente no! - - E perché? - - Perché in pantaloncini vai a Pittulongu, non in classe - - Ma se abbiamo caldo? - - Lo sopportate, c'è anche un abbigliamento da rispettare a seconda delle circostanze. Tu in chiesa andresti in pareo? - - Beh no! - - E allora perché in una chiesa sei rispettosa della forma e a scuola no?- - Ma gli altri prof. non ci dicono nulla se veniamo in pantaloncini. - - Dubito ve lo permettano e anche se fosse non è un problema mio: con me vi adeguate alle regole! - - E come facciamo? - - E' molto semplice: venite abbigliati come vi pare e in uno zainetto ci mettete il cambio per quando in orario c'è Romy 'a carogna! - Chissà perché il Signor Berlusconi riesce a costruire intorno a se attenzioni anche quando nessuno si dovrebbe occupare di un affidato in prova al servizio sociale , così come la legge sancisce. Come prevedono, d’altronde, le prescrizioni che lui stesso ha firmato. Ma davanti alla foto del Presidente della Repubblica italiana l’affidato sbotta e afferma che quell’uomo gli fa venire in mente un film: “Profondo rosso”, il capolavoro indiscusso di Dario Argento visto da me almeno otto volte. Un film che riesce sempre a sbalordirmi, soprattutto per quella scena finale dell’assassino nascosto tra i quadri e lo specchio. Ecco, anche Berlusconi mi ricorda, a volte, quel finale. Più che un caimano, un povero perseguitato che non riconosce le leggi della Repubblica italiana. Da affidato in prova (pongo l’accento sulla “prova”) dovrebbe tentare di “reinserirsi nel tessuto sociale” facendo un serio percorso di analisi del reato. E’ ormai un crescendo di violazioni palesi alle prescrizioni. Non riconosce la condanna, non riconosce il presidente della Repubblica, continua ad affermare che in Italia ci sono stati quattro colpi di Stato, rischia l’incidente diplomatico quotidianamente con l’universo mondo e ritiene che sia ridicolo rieducarlo affidandolo ai servizi sociale. L’istituto dell’affidamento in prova è una cosa dannatamente seria e permette, realmente, a molti detenuti un percorso fuori dal carcere. Tutti lavorano, si impegnano in lavori socialmente utili e riconoscono i propri reati e lo Stato italiano. Chi, durante la fruizione del beneficio non si comporta bene – come nel caso di specie - semplicemente gli viene revocato l’affidamento in prova al servizio sociale e rientra in carcere. Sono fallimenti dolorosi per gli operatori impegnati nell’opera di recupero. Ma, a quanto pare, l’affidato Berlusconi di stare alle regole proprio non ne vuole sapere. (diciamo che, sul punto, ha sempre avuto qualche difficoltà) Siamo allo sprofondo rosso. Il giudice di Sorveglianza di Milano provi a tirare fuori il cartellino rosso. Diretto. Lo faccia in nome di tutti gli affidati che quotidianamente (e sono oltre ventimila) stanno alle regole del gioco. Perché l’affidamento in prova al servizio sociale è una cosa seria. Serissima. E’ una Legge dello Stato. La parola di questi giorni è, indubbiamente, “trattativa”. Si è trattato con Genny ‘a carogna? E chi lo ha fatto? Con quale mandato politico? Tutto questo discutere e discettare mi ha portato indietro nel tempo: esattamente a trentasei anni fa. Proprio il 5 maggio del 1978 le trattative con le Brigate Rosse erano praticamente chiuse. Non ci credeva più nessuno. Probabilmente Craxi tentava di dialogare con frange estremiste di Potere Operaio e con Franco Piperno. Nulla più. Il comunicato numero nove, consegnato il cinque maggio 1978, parlava di “esecuzione della sentenza”. Eppure in quei cinquantacinque giorni si misurarono due grandissime scuole di pensiero: quelle favorevoli a trattare e quelle “conservatrici e irremovibili.” Non si tratta con il nemico e con gli assassini. Non si tratta con le brigate rosse. Questa visione ortodossa racchiudeva la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista italiano. Non tutti gli uomini di quei partiti a dire il vero. Per la trattativa, invece, c’erano quelli del “Manifesto” e molti socialisti. Eugenio Scalfari e la sua “Repubblica” erano assolutamente contro ogni possibilità di mediare e discutere con gli uomini delle brigate rosse. Io, nel 1978 avevo diciannove anni e, diciamolo, ero per la trattativa. Si parlava di salvare la vita di una persona e istintivamente avrei lottato per qualsiasi vita. Così come oggi. Facevo anche un ragionamento politico e, per quei tempi, squisitamente ideologico: avrei preferito Aldo Moro vivo. Sicuramente il corso degli eventi e della storia avrebbe intrapreso strade molto diverse. Oggi, però, la situazione è fondamentalmente diversa. Si doveva giocare una partita di calcio. Non c’erano vite da barattare, solo un pallone per provare a trascorrere un attimo di tranquillità. E poi, diciamocelo: Genny ‘a carogna non ha lo stesso peso politico delle brigate rosse. Nel senso di credibilità. le BR sono state sicuramente più feroci e, purtroppo, più coerenti. Questo ragazzo tatuato, gonfiato, abbronzato, con una maglietta oltraggiosa non era assolutamente credibile. Non si poteva trattare e non si doveva venire a patti per una partita di calcio. Invece, incredibilmente, “uomini degli apparati” (ma chi erano?) si sono avvicinati, hanno discusso, mediato, hanno trattato. Lui, dall’alto della sua posizione, fisicamente ma non intellettualmente apicale, ha speso poche parole e ha deciso che si, si poteva fare. Ha alzato il pollice in alto. “I like” e lo spettacolo è cominciato. E’ il segno dei tempi. Una volta si discuteva di trattare con uomini “assassini” e crudeli, uomini che avevano ingaggiato in nome di un popolo inesistente una battaglia contro lo Stato. Oggi si tratta con uomini “arroganti”, uomini che hanno come valore una battaglia contro se stessi e contro la loro terribile solitudine. Nel 1978, a diciannove anni ero per la trattativa, per salvare una vita umana. Oggi, davanti a Genny ‘a carogna, non riesco a trovare le giuste note su un pentagramma terribilmente stonato. Vorrei trattare per uno sport colorato, dove tutti siano avversari durante la competizione e incredibilmente uniti quando si sente il fischio finale. Vorrei poter dire che anche Genny, in fondo, ha le sue motivazioni. Che però non trovo. E che, sinceramente, non riesco a comprendere. Quanto è impenetrabile il muro dell’ascolto in questo strano paese? Come è possibile che delle persone gravemente ammalate di SLA debbano minacciare di autorottamarsi e lasciarsi morire prima che qualcuno senta quelle urla in uno smodato silenzio? Oggi, pare, il governo quelle voci ormai flebili e stanche le ha ascoltate. Mariangela Lamanna, vicepresidente del comitato 16 novembre sembra abbastanza soddisfatta. Hanno dovuto effettuare uno sciopero della fame e della sete per fare ascoltare le loro richieste. Hanno dovuto mettere in piazza i loro sguardi, i loro terribili silenzi, la loro voglia e la loro passione per provare a chiedere un diritto quasi elementare: quello alla vita e alla dignità. Hanno chiesto a tutti i governi, son dovuti andare come piccoli questuanti davanti alle stanze del potere per dei fondi utili alla realizzazione di un piano nazionale per la non autosufficienza finalizzato alla domiciliarità indiretta. Chiedono di poter essere curati, assistiti, abbracciati, ascoltati nelle loro case, tra i loro affetti. Per ottenerlo devono minacciare, provare a spiegare ogni volta, ad ogni governo, ad ogni Ministro, ad ogni Presidente della Regione, ad ogni Assessore le loro sacrosante richieste. Vogliono solo essere assistiti nel loro ambito familiare. Chiedono dei fondi già stanziati e affermano che se quei soldi venissero usati per l’assistenza domiciliare, oltre al risparmio ne guadagnerebbe l’umore. Ma perché è così difficile far comprendere cose così ovvie, così normali, così basilari. Ma perché nessuno, ma proprio nessuno, comincia a dire con forza, con estrema forza che queste sono le persone che hanno diritto ad un vitalizio, ad un accompagnamento, ad un’attenzione. I soldi ci sono. Sono i nostri, quelli delle nostre tasse, quelle che dovrebbero servire per dare un senso ai gesti, alla solidarietà. Quanto ci vuole per partire da queste piccole cose? Lo chiedo al presidente Pigliaru, lo chiedo a noi tutti: possiamo destinare il 5 per mille delle tasse della Regione Sardegna ai malati di Sla della nostra terra? Ditemi perchè non lo possiamo fare e non giustificatevi affermando che questa è solo demagogia. Dovrete spiegare a quelle persone, a quei gesti disperati, a quei silenzi pieni di parole i vostri gesti inconsulti, i vostri silenzi sconsiderati, le vostre parole vuote che girano intorno ad un mondo che non è il nostro. Provate, almeno per un attimo a considerare la vita dalla parte degli ultimi: quelli che vengono considerati ultimi. Provate, almeno per un attimo a dire: questo lo facciamo. Quegli occhi gonfi di speranza aspettano. Aspettano proprio noi. Non è demagogia e neppure buonismo. E’ solo buon senso. Gli uomini sono cassetti di opportunità. Tutti. E da rottamare c’è solo il silenzio ottuso di chi è convinto di poter essere dalla parte sana della vita. La malattia, purtroppo, è una parentesi che nessuno cerca. E nessuno vorrebbe. La malattia non si nasconde e non si ignora. La malattia si affronta con la dignità e la forza di Raffaele Pennacchio, malato di Sla, morto per un infarto lo scorso novembre dopo giorni di manifestazioni. Lui non voleva morire. Voleva vivere. Il muro del nostro ascolto è stato invalicabile. - Ciao mamma, tutto bene? - - Sì, dai, abbastanza. - - Chiedi a papà se ha ricevuto la mia mail. - Un attimo di silenzio - No, ha detto che ha controllato ma nel tablet non c'era nulla - - Com'è possibile? Gliel'ho mandata un'ora fa... - - Aspetta un momento... - Ancora silenzio - Ah ecco, ha detto di rimandargliela. Però nell'altro computer, non nel tablet! - - Romina, sei ancora lì?- - Sì! – - E perché stai ridendo? - Io non so se in tutte le professioni si registrino ingerenze esterne di persone che ti dicono ciò che dovresti fare, e come lo dovresti fare, quante se ne verificano nel mio lavoro di insegnante. Cioè, quando vado dal medico e lui mi prescrive antibiotici a base di amoxicillina, perché ritiene siano i più idonei per la mia patologia, non mi sogno nemmeno lontanamente di dirgli: - No, guardi, sarebbe preferibile la tetraciclina! - E stessa cosa vale per le consulenze dal meccanico, dall’avvocato, dal commercialista. Invece, provate a fare l’insegnante e una larga schiera di amici, genitori e conoscenti vi dispenserà suggerimenti su come dovreste operare in classe e di quali siano gli obiettivi da perseguire. Questo accade perché a scuola ci siamo andati tutti e tutti, sulla base della loro esperienza, si sentono di parlare con cognizione di causa. Spesso ignorando che la scuola attuale è assai diversa da quella frequentata da loro decine di anni prima. Entrate ora in una classe e mettevi a spiegare una lezione, asetticamente e sterilmente come si faceva allora. Probabilmente anche il più secchione e volenteroso degli alunni comincerà a giocare col cellulare. Vai a far capire a tutti i docenti "fai da te" che già varcando la porta dell’aula devi avere ben organizzata nella tua mente una marea di attività accattivanti che siano invitanti anche per i più svogliati. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che la tua platea avrà differenti modalità di apprendimento. Che ci sono gli uditivi, i visivi e i cinestetici. E che se tu parli e basta ti seguono solo i primi e ti perdi l’attenzione degli altri due gruppi. Che gli uditivi possono anche disegnare mentre tu spieghi e, anzi, ciò agevolerà l’ascolto. E, invece, c’è chi scioccamente dice: “smetti di scrivere e segui”, ignorando che quel ragazzino mentre scrive sta proprio assecondando la sua modalità di apprendimento. E se non accompagni la spiegazione con uno schema alla lavagna ti perdi tutta l’attenzione dei “Visivi” o prova a dire a un cinestesico “Stai composto” e quello lì troverà talmente faticoso dover sottostare ad una postura scomoda che ascoltare la lezione sarà l’ultimo suo pensiero. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che a Luigi e Francesco non puoi chiedere di leggere un brano dal libro perché sono dislessici ed hanno difficoltà insormontabili nella lettura. E non puoi umiliarli e dare in pasto i loro ostacoli al gruppo classe. E quando Giovanni ti dice - Professore’, fa leggere sempre me – devi trovare velocemente una scusa plausibile che giustifichi la tua scelta, senza intaccare la dignità degli altri. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che, dopo l’iniziale verifica delle competenze, devi trovare un compromesso tra i programmi ministeriali e le voragini di lacune emerse dalle prove di accertamento. E che sarebbe da kamikaze spiegare la Divina Commedia in una classe dove la metà degli alunni ha grosse difficoltà anche nella semplice comprensione di un testo narrativo. E tu ti chiedi, che faccio? Cerco prima di colmare le lacune e poi spero resti tempo per fare almeno un paio di canti dell’Inferno o azzardi e provi ad analizzare qualche canto cercando, contestualmente, di colmare le lacune? Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che ti scontrerai con dei casi umani che alle spalle non hanno famiglie, bensì macerie. Che ci sono quelli che hanno i genitori che si lanciano i piatti davanti a loro, quelli che vivono solo con la mamma e non vedono il padre da sempre, quelli che sono affidati ai Servizi Sociali perché la patria potestà è stata revocata ai genitori naturali. Che quelli lì, poverini, la voglia e la serenità per studiare non ce l’hanno. E spesso nemmeno quella per seguire la lezione. Che quelli lì, solitamente stanno in disparte e in silenzio e quando, finalmente, li vedi chiacchierare col compagno di banco durante la lezione, ti guardi bene dal dirgli “Stai attento!” e semmai benedici quel piccolo attimo di sfogo. Ma poi, quando Matteo ti dice: “Professore’, Maria sta chiacchierando e lei non la riprende, sgrida sempre me” tu devi anche frugare in tasca e cercare alla svelta giustificazione credibile, sebbene lontana anni luce da quella reale. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che quando spieghi un argomento nuovo ci sarà un ristretto gruppo che capirà e interiorizzerà immediatamente, ma un altro numeroso gruppo avrà bisogno di una spiegazione supplementare. E allora i primi, quelli che avevano capito al volo, si annoieranno e tu non puoi permettere che questo accada. E allora devi scovare in fretta e furia qualche esercizio di consolidamento per quelli lì, mentre tu prendi per mano quegli altri e li guidi con maggior cura dentro l’argomento. Trovando una metodologia diversa, peraltro, ché se glielo rispieghi alla stessa maniera è perfettamente inutile: non avevano capito prima, non capiranno nemmeno stavolta. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che non è necessario insegnare l’opera omnia di Dante per costruire degli adulti competenti, ché ad un test attitudinale per trovare un lavoro Dante non te lo chiederanno mai. E non ha una grande importanza sapere a memoria “Tanto gentile e tanto onesta pare”, quanto semmai conoscere la struttura e saper riconoscere metrica e figure retoriche. Ché se tu insegni le regole della guida, poi quelli lì avranno le competenze per guidare qualsiasi mezzo. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che tutte le nozioni relative alle diverse discipline devono essere infarcite di obiettivi educativi. Ché noi docenti, chi con più passione chi con meno, siamo consapevoli di operare con materiale umano e che, talvolta, è necessario rimandare l’insegnamento del congiuntivo e privilegiare quello del rispetto, dell’educazione al ragionamento, lo sviluppo dello spirito critico, del senso di responsabilità e di preparazione alla vita civica. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che questo è lo scenario all’interno del quale dovremmo insegnare I Promessi Sposi. Non è facile dividere i buoni dai cattivi. Non è come i colori. Anzi, neppure con i colori è facile. Perché bisogna tenere conto delle sfumature. Con gli uomini subentra la cultura, la storia, i momenti, i contesti, il punto di vista, le scelte ideologiche. Quello che una volta era considerato un buono diveniva ad un’analisi più attenta il cattivo da perseguitare. Interi popoli hanno subito l’onta della vendetta. Solo per il colore della pelle, per la religione, per le idee. Visto da Caifa Gesù era un pericoloso rivoluzionario che attentava alla religione di quel tempo. Difficile scegliere. Oggi siamo portati (sbagliando perché non si può semplificare in questo modo) a dividere i buoni dai cattivi in base alle categorie. E’ la moda quotidiana. Sei buono o cattivo in base all’appartenenza. Nascono, dunque, persone da condannare o da assolvere a tutti i costi. I magistrati, per esempio. Per alcuni sono antropologicamente malvagi e per altri rappresentano invece la salvezza dello Stato. Gli scrittori sono solitamente annoverati tra i buoni, ma quelli che scrivono libri contro una categoria diventano subito untorelli da eliminare. La categoria dei carabinieri è vista di buon grado da tutti. Rappresenta un vanto per lo Stato. I carabinieri sono seri, attenti, servitori dello Stato. Ed è vero. Ma non sempre. Così come i poliziotti. O i politici. Non possiamo dividere il mondo in base ad un mestiere o una presa di posizione o un fatto che commette qualcuno – e quindi assolutamente personale – e lo dividiamo equamente per tutti: i politici sono tutti ladri. Sappiamo che questo non è vero. Non conosciamo quanto siano i politici, quanti siano quelli condannati e quanti realmente rubino. Ma è facile dire tutti, ma proprio tutti sono ladri. Come tutti gli statali sono fannulloni e tutti i poliziotti picchiano. Non è vero. La verità è sempre molto complessa e non è necessariamente dalla propria parte: sono gli altri a rubare. Noi no. Peccato che se continuiamo ad usare la locuzione “i politici sono tutti ladri” comprendiamo nei ladri anche quelli “della nostra parte”. La polemica scaturita in questi giorni sulla polizia di stato ci deve far riflettere sul non dare giudizi affrettati riferibili alla categoria. Non è vero che i poliziotti sono tutti picchiatori, corrotti, senza nessun senso dello Stato. E’ una grandissima volgarità oltre che una penosa bugia. Il problema è legato ormai al nostro modo di ragionare e vedere le cose senza soffermarci. Non tutti i professori ce l’hanno con i nostri figli (semmai dovremmo cominciare ad analizzare meglio la vita dei nostri adolescenti) non tutti i politici rubano, i poliziotti massacrano, i dirigenti corrompono. Però ci sono professori, politici, giornalisti, carabinieri, poliziotti che commettono atti illeciti. Sono quelli iscritti alla categoria dei buoni ma che, in realtà sono cattivi. E la categoria non li può salvare. Impariamo a distinguere ed analizzare con più determinazione. Scopriremo, per esempio, che vi sono dei giornalisti che scrivono cose non vere ma ci sono giornalisti che sono stati uccisi dalla camorra e dalla mafia, così come i poliziotti morti per garantire la nostra sicurezza, magistrati massacrati ed altri corrotti da furbi avvocati. I buoni e i cattivi hanno molte sfumature. Si annidano da tutte le parti. Anche tra gli apostoli. Se provassimo a giudicare solo ed esclusivamente in base alle categorie scopriremmo che dietro le cortecce del populismo, dietro le frasi semplicistiche “sono tutti uguali” ci sono gli uomini, con le contraddizioni e gli errori propri dell’essere umano. Si tratta di non difenderli solo perché appartengono alla “nostra categoria” anche perché, ricordiamocelo, potrebbero abbandonare quel mestiere e quel partito, così come potremmo farlo anche noi e ci troveremmo, di colpo nella parte sbagliata della lavagna: quella dei cattivi, solo perché a chi segnava il nome gli stavamo antipatici. Abituiamoci a difendere o condannare gli uomini, non ciò che rappresentano. Ci furono altri che decisero di uccidere magistrati e politici o giornalisti perché rappresentavano un simbolo: erano le brigate rosse e, sinceramente, non mi sembra una bella storia. da condividere. |
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July 2014
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