A cercarle le parole magari le trovo pure, ma con custa basca a Buoncammino non è cosa. Ci ho ho buttato fuori a Mariolino che era dormito da ieri sera, incazzato perdiu perchè l’italia ha perso e ne è uscita dai mondiali. “O Mariolì “ l’appo nau, “a me la finisci che quelli solo per quel giorno hanno fatto i soldi che noi manco tutto l’anno”. E quindi a me m’indimportada pagu della sconfitta degli italiani. E poi, a dire il vero, noi siamo sardi e il Cagliari ai mondiali non c’è. Solo Ibarbo che gioca con la colombia e Antonello su biu tifa la colombia. Antonello si chiama su biu perchè è il cugino di antonello su mortu, che l’hanno preso a Olbia con un pacco di roba e lui, scimpru, non mette a manetta davanti agli sbirri e corre e non vede un palo e si ci sfracellada tottu. L’hanno raccolto che manco il cane antidroga capiva quale era lui e quale era la coca. Tutto perso e questo già è dispiaciuto un pochettino. Comunque, stamattina a mente tiepida, perchè freddo in galera non ce n’è manco a bastone, ci siamo trovati io Antonino su biu, Mariolino e Francesco sbrindellato, fissato con le moto e con Valentino Rossi, uno che di calcio non ne capisce niente tanto che quando Mariolino poco poco incazzato ha detto che Prandelli ha fatto male a lasciare Pepito Rossi in italia, Francesco ha subito detto che era d’accordo che Valentino era meglio di Balottelli. Unu maccu totalmente imbreagu. A me Balottelli non mi è mai piaciuto, manco quando giocava nell’Inter e mi che sono cagliaritano di nascita e interista di adozione, quando una mia pivella si era innamorata di Bergomi e mi avevo fatto crescere i baffi come lui e mi ero anche comprato la maglia. Poi, una sera mi dice: A ci andiamo al sant’elia che domenica l’inter gioca con il Cagliari? E io amico di tutti gli sconvolts a le potevo dire che non potevo andare nei distinti dalla parte degli ospiti? E lei allora mi ha detto che se l’accompagnavo a tifare Inter me la dava. Mi sono messo un cappello in testa e occhiali scuri e lei ridendo che quasi pioveva e itta cintrana gli occhiali , e io non ti preoccupare e intanto seduti alla gradinata cominciavo la tecnica del polpo ma lei a dire che me la dava solo se l’Inter vinceva. E non vince il Cagliari? Insomma, la pivella non me l’ha data ma sono rimasto interista perché aveva perso con il Cagliari. Comunque, tornando alla partita, e che cosa dobbiamo dire? Parlare ne abbiamo parlato, in galera, tanto, le parole già si sprecano che sembriamo tutti scrittori di romanzi. Adesso tutti a dire del morso a Chiellini, tranne quelli anti juventini che ce ne sono sia al destro che al sinistro contenti perché chiellini già non è molto simpatico. Ed è vero. La cosa più incredibile della partita che sembravano fermi come gli uomini del calcio balilla che abbiamo nella sala socialità. Adesso siamo tutti più tranquilli perché non c’è più l’Italia e possiamo tifare quello che ci piace come io che tifo più Cagliari dell’Inter perché tanto la mia nuova pivella non ne capisce di calcio e fuorigioco, come immobile, cognome che ieri gli stava come un capotto di alta moda. Insomma, io tifo Argentina, Mariolino ha detto che tifa gli olandesi che magari arrivano ancora in finale a perderla torna, Antonello su biu tifa Ibarbo e la Colombia e Francesco ha detto che tifa Germania in onore di Schumacher che è amico di valentino rossi. Boh boh, il sole a Buoncammino a volte scalda troppo le teste. Già vi faccio sapere come continua. Sempre se quelli di sardegna blogger mi danno l’incarico a scrivere.
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Adesso sta solo, all’interno della sua ombra nera senza nessuna stratificazione, nera come la notte nera, nera come il buio in cui si è avvolto l’anima. Seduto su una panchina solitaria tra il nulla e il troppo si agita e prova a ripassare gli occhi di chi lo ha visto per l’ultima volta. Perché di questo si tratta: Yara ha visto, Giulia ha visto, Cristina ha visto, Gabriele ha visto e anche a Tempio Giovanni ha visto, Giulia ha visto, Pietro ha visto quel buio torbido avanzare, quei movimenti senza speranze. Lui lo sa, certo, di avere scelto la linea sbagliata, di aver oltrepassato il verosimile, il razionale. Lo sa e prova a disegnare confini inaspettati, prova con pasticciata calma a riannodare la ragione. Ma è solo, terribilmente solo in un buio senza ombre e senza nessuna speranza. Non ha compreso le curve della vita, non le ha sapute prendere e non è riuscito a scalare nessuna marcia. Tutto in fretta, tutto molto in fretta nella discesa verso l’orrore, verso un cunicolo nero senza sogni, nero senza lacrime, nero senza vita. Lui lo sa, lui che ha visto gli occhi degli altri spegnersi, l’ultimo bagliore di bambini e donne e uomini lo sa quanto costa il suo gesto, sa quanto è cattivo il suo muoversi. Lo sa ma non comprende, non riesce a ritornare sull’altra riva. Lui ha deciso di rimuovere gli occhi, di eliminare tutti i colori di un quadro e passare con il suo atroce pennello sulle tracce della vita. Nero come la notte nera, nero come un grembiule senza fiocco, nero come un inferno senza fuoco. Adesso sta solo, all’interno delle sue parole che non riesce a macinare, farina senza mulino, acqua senza fontana. Lui lo sa di essere il più piccolo e il più fragile ma non trova più la strada. E noi con questi volti muti aspettiamo di trovare il varco per cercare uno spiraglio di luce nel nero che non cova speranze. Pallone a sbarre (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Sassari, Germania - Portogallo 4-0) Diario dei mondiali di calcio – sesta puntata Oggi in questa galera che sembra un deserto e quando penso a S.Sebastiano mi metto a piangere perchè conoscevo tutto anche i sorighi, abbiamo giocato una partita a calcetto nei passeggi. Sul cemento, che la bagassa loro se cadi finisci subito in infermeria. In ogni caso c’erano due squadre pronte a vincere a tutti i costi: La germania e il Portogallo. Io, Antonio lu tedesco, Mariolino millibrinchi, Francesco la tana e marcellino birretta eravamo la germania. I portoghesi erano invece tre stranieri che non ne conosco bene i nomi e li chiamiamo Alì, Alà e dalialà, Portez detto Cristoforo Colombo e un rumeno un bè fissato con Cristiano Ronaldo e, infatti l’abbiamo chiamato Lu setti. Abbiamo perso di brutto e Marcellino si è tirato a terra tutto incazzato. Non se ne voleva andare dall’aria. Ajò gli ho detto che devi cucinare e lavare i piatti che ti tocca e non fare come Inzaghi chi “candu lu sfiorani pari sempri murendi”. Io, poi ho detto a Cristoforo Colombo che stasera tifo Germania perchè a me i portoghesi mica mi piacciono. Ci siamo lasciati così. Ne abbiamo raccolto a birretta da terra e ci siamo messi in fila, tipo spogliatoio per tornarcene a casa. In cella. Stasera la partita è alle sei, giusto all’ora di sbobba. Perchè in galera, per chi non lo sapesse, è come l’ospedale dove ne hanno tolto il fegato a babbo: alle cinque e mezzo passa il carrello della cena e se ne vuoi bene se no ti arrangi. E noi ci arrangiamo. Cuciniamo per i fatti nostri. Oggi un bè di insalata così ci riempie la pancia e filetti di merluzzo fritti che Birretta li fa davvero un bè bene. Tra questo e le scommesse sulla partita ci siamo seduti. La squadra di calcetto non è la squadra della cella ma abbiamo chiesto la socialità e ce l’hanno data. Adesso ci ascoltano e ci fanno stare più larghi che rispetto a san sebastiano ci sembra di essere all’aeroporto e quasi ci perdiamo. A me i tedeschi mi fazini ischiffu, ma a calcio sono bravi e ho una mia teoria. Se vincono e passano il turno come primi e anche noi arriviamo primi poi, con loro, ci vediamo in semifinale e li castighiamo. Come nel 1970 e nel 2006. Solo che Antonio lu tedescu non li sopporta e lui si chiama così solo perchè è biondo e solo Mariolino millibrinchi mi da un po’ di ragione ma dice che sicuramente il Portogallo è più forte perché lo dice lu setti. “Ascò bello bè,”gli ho detto “mi chi un cristiano ronaldo non può giocare a la sola che non è Mandrake.” Mariolino sorride e dice: “e a te lo ricordi a Mandrake contro la Spagnola? Dezi a zero li ha fatto”. Tutti cominciano a ridere e gli diciamo di smetterla con la coca e le pasticche nascoste. Perché Mariolino è fatto così: tossico perso , si ciuccia le pastiglie davanti all’infermiere, ma solo un pò e poi le sputa e le fa asciugare alla finestra. Poi se ne mette insieme un cinque o sei e se le fa con la coca cola e dopo un pò si mette a letto e comincia a brincare che sembra una cavalletta. Ecco perchè lo chiamiamo millibrinchi. La partita comincia male. Rigore per la Germania e Mueller segna. “Cazzo Antò”, dice Birretta “ma chistu da quando c’era giggi riva continua a segnare”. “Mi che non è lo stesso mì, “ dico io e gli giro con uno schiaffo ai capelli e mi guarda male. Germania uno Portogallo zero. Sentiamo l’urlo di terrore di Lu setti dall’altra camera. Non gira dico io, la perdete. E girami li.... insomma ne buttano uno del Portogallo fuori e poi segna il due a zero la Germania. “Abà comincia la vendetta, “dice Birretta ma si capisce che lo dice così, giusto per parlare, così come in tribunale quando ci stavano condannando e sette anni. Lui si avvicina all’avvocato e dice e cosa facciamo avvocà? Ci prendiamo sette anni? E l’avvocato serio gli dice: “non ti preoccupare, ci vendichiamo in appello”. Nove anni ci hanno dato, la bagassa loro, in appello. Manco finito il pensiero che Mueller fa il tre a zero. Antonio comincia ad incazzarsi davvero: a me chistu Muller non mi piace molto. Alla fine del primo tempo passa l’assistente e ci dice se vogliamo andare alla sala socialità che c’è il televisore perché adesso hanno inventato questa cosa della socialità e che i detenuti devono stare bene. O appuntà, a casa nostra stiamo bene, a lo vuole capire? Birretta lava i piatti e noi ci fumiamo una sigaretta. La cosa che funziona in ogni carcere è la possibilità di fumare sempre e da tutte le parti. Ma secondo gli educatori questa cosa non dura che dobbiamo fare le cose come le fanno fuori. A me mica mi piace questa novità di fare gli educati. Il secondo tempo non ha molta storia e si capisce che i crucchi ne capiscono di calcio. Mi dispiace aver tifato la Germania ma sono davvero forti. Solo che non mi ricordo manco un nome tranne quello che solo a calcio poteva giocare e si chiama Kroos. Fanno subito il quattro a zero tripletta di Muller e tutti a casa. Io penso che ci troviamo in semifinale, Birretta dice che il portogallo già passa, Antonio risponde che a lui i tedeschi gli stanno sulle balle a prescindere e con noi perdono sempre, millibrinchi è stirrigato sul letto e russa alla grande. Adesso ci tocca il telegiornale e le cose della vita. Domani altra partita. Io ho deciso che dobbiamo giocare ai passeggi con quelli della cella sette e otto. Che sono sagome. magari con quelli vinciamo e ci portiamo a casa la stecca di ms. Che male non fa. Oggi in questa galera che sembra un deserto e quando penso a S.Sebastiano mi metto a piangere perchè conoscevo tutto anche i sorighi, abbiamo giocato una partita a calcetto nei passeggi. Sul cemento, che la bagassa loro se cadi finisci subito in infermeria. In ogni caso c’erano due squadre pronte a vincere a tutti i costi: La germania e il Portogallo. Io, Antonio lu tedesco, Mariolino millibrinchi, Francesco la tana e marcellino birretta eravamo la germania. I portoghesi erano invece tre stranieri che non ne conosco bene i nomi e li chiamiamo Alì, Alà e dalialà, Portez detto Cristoforo Colombo e un rumeno un bè fissato con Cristiano Ronaldo e, infatti l’abbiamo chiamato Lu setti. Abbiamo perso di brutto e Marcellino si è tirato a terra tutto incazzato. Non se ne voleva andare dall’aria. Ajò gli ho detto che devi cucinare e lavare i piatti che ti tocca e non fare come Inzaghi chi “candu lu sfiorani pari sempri murendi”. Io, poi ho detto a Cristoforo Colombo che stasera tifo Germania perchè a me i portoghesi mica mi piacciono. Ci siamo lasciati così. Ne abbiamo raccolto a birretta da terra e ci siamo messi in fila, tipo spogliatoio per tornarcene a casa. In cella. Stasera la partita è alle sei, giusto all’ora di sbobba. Perchè in galera, per chi non lo sapesse, è come l’ospedale dove ne hanno tolto il fegato a babbo: alle cinque e mezzo passa il carrello della cena e se ne vuoi bene se no ti arrangi. E noi ci arrangiamo. Cuciniamo per i fatti nostri. Oggi un bè di insalata così ci riempie la pancia e filetti di merluzzo fritti che Birretta li fa davvero un bè bene. Tra questo e le scommesse sulla partita ci siamo seduti. La squadra di calcetto non è la squadra della cella ma abbiamo chiesto la socialità e ce l’hanno data. Adesso ci ascoltano e ci fanno stare più larghi che rispetto a san sebastiano ci sembra di essere all’aeroporto e quasi ci perdiamo. A me i tedeschi mi fazini ischiffu, ma a calcio sono bravi e ho una mia teoria. Se vincono e passano il turno come primi e anche noi arriviamo primi poi, con loro, ci vediamo in semifinale e li castighiamo. Come nel 1970 e nel 2006. Solo che Antonio lu tedescu non li sopporta e lui si chiama così solo perchè è biondo e solo Mariolino millibrinchi mi da un po’ di ragione ma dice che sicuramente il Portogallo è più forte perché lo dice lu setti. “Ascò bello bè,”gli ho detto “mi chi un cristiano ronaldo non può giocare a la sola che non è Mandrake.” Mariolino sorride e dice: “e a te lo ricordi a Mandrake contro la Spagnola? Dezi a zero li ha fatto”. Tutti cominciano a ridere e gli diciamo di smetterla con la coca e le pasticche nascoste. Perché Mariolino è fatto così: tossico perso , si ciuccia le pastiglie davanti all’infermiere, ma solo un pò e poi le sputa e le fa asciugare alla finestra. Poi se ne mette insieme un cinque o sei e se le fa con la coca cola e dopo un pò si mette a letto e comincia a brincare che sembra una cavalletta. Ecco perchè lo chiamiamo millibrinchi. La partita comincia male. Rigore per la Germania e Mueller segna. “Cazzo Antò”, dice Birretta “ma chistu da quando c’era giggi riva continua a segnare”. “Mi che non è lo stesso mì, “ dico io e gli giro con uno schiaffo ai capelli e mi guarda male. Germania uno Portogallo zero. Sentiamo l’urlo di terrore di Lu setti dall’altra camera. Non gira dico io, la perdete. E girami li.... insomma ne buttano uno del Portogallo fuori e poi segna il due a zero la Germania. “Abà comincia la vendetta, “dice Birretta ma si capisce che lo dice così, giusto per parlare, così come in tribunale quando ci stavano condannando e sette anni. Lui si avvicina all’avvocato e dice e cosa facciamo avvocà? Ci prendiamo sette anni? E l’avvocato serio gli dice: “non ti preoccupare, ci vendichiamo in appello”. Nove anni ci hanno dato, la bagassa loro, in appello. Manco finito il pensiero che Mueller fa il tre a zero. Antonio comincia ad incazzarsi davvero: a me chistu Muller non mi piace molto. Alla fine del primo tempo passa l’assistente e ci dice se vogliamo andare alla sala socialità che c’è il televisore perché adesso hanno inventato questa cosa della socialità e che i detenuti devono stare bene. O appuntà, a casa nostra stiamo bene, a lo vuole capire? Birretta lava i piatti e noi ci fumiamo una sigaretta. La cosa che funziona in ogni carcere è la possibilità di fumare sempre e da tutte le parti. Ma secondo gli educatori questa cosa non dura che dobbiamo fare le cose come le fanno fuori. A me mica mi piace questa novità di fare gli educati. Il secondo tempo non ha molta storia e si capisce che i crucchi ne capiscono di calcio. Mi dispiace aver tifato la Germania ma sono davvero forti. Solo che non mi ricordo manco un nome tranne quello che solo a calcio poteva giocare e si chiama Kroos. Fanno subito il quattro a zero tripletta di Muller e tutti a casa. Io penso che ci troviamo in semifinale, Birretta dice che il portogallo già passa, Antonio risponde che a lui i tedeschi gli stanno sulle balle a prescindere e con noi perdono sempre, millibrinchi è stirrigato sul letto e russa alla grande. Adesso ci tocca il telegiornale e le cose della vita. Domani altra partita. Io ho deciso che dobbiamo giocare ai passeggi con quelli della cella sette e otto. Che sono sagome. magari con quelli vinciamo e ci portiamo a casa la stecca di ms. Che male non fa. Mi chiamo Pedro Celachè e sono honduregno. A Regina Coeli mi chiamano tutti coccodè perché mi hanno beccato a Fiumicino con una pancia piena di ovuli che ho dovuto espellere in questura prima di finire in carcere. Quindici anni. Mica pochi. Era la seconda volta che facevo il trasportatore. Ad Amsterdam mi era andata bene. Lavoro abbastanza semplice e ben remunerato. Insomma, qualcuno, ne sono convinto, mi ha venduto per far passare un altro con più ovuli. Non si spiega altrimenti l’attenzione spasmodica nei miei confronti da parte della polizia. Sono qui a guardare Francia Honduras con i miei compagni di cella. Dico subito che ho un tifo amico. I francesi non sono ben visti a Roma e in Italia in genere. Almeno a livello calcistico. Tutti ricordano la testata di Zidane e Materazzi in questa sezione è, pur essendo interista, una sorta di eroe. Nella mia cella siamo in tre: io, er carota detto così perché quando si arrabbia arrossisce tutto e il vikingo, capelli lunghi, barba bionda e terribilmente tifoso della magica. Che sta per la Roma. Il problema più grosso in questa sezione è la discussione tra laziali e romanisti. Ci sono ortodossi che fischiano ad ogni palla che tocca Candreva. Anche il vikingo non lo ama molto ma quando ha fatto il cross e Balotelli ha segnato ha esultato e ha detto: “an vedi sti negri e sti burini”. Comunque hanno deciso di tifare Honduras. Anche un altro, nella cella a fianco ha affermato di tifare gli honduregni. Lui è interista, mal visto da queste parti, ma siccome è sardo e ha la foto della Canalis che ha avuto una storia con Vieri, tutti lo rispettano. E’ di Sassari e dice anche che è parente lontano della Canalis. Non so se sia vero, non so neppure dove sia Sassari. So solo che la Canalis, quella del calendario, è messa abbastanza bene e potrebbe giocarsela con chiunque. La partita è vaporosa, non c’è l’enfasi di Italia-Inghilterra e noi facciamo la figura degli agnelli sacrificali. Dobbiamo perdere per forza. Il vikingo ha in mano una cipolla e prepara la cena. “A coccodè” mi dice “me sa che oggi piagnete” e mi mostra la cipolla. Purtroppo non c’è bisogno di surrogati. Quelli, i francesi, hanno Benzema e si capisce subito che è la sua serata. Infatti: rigore, gol quasi gol e poi autogol e gol di forza, di prepotenza. 3-0 e addio Honduras. Poco tifo, poche occasioni, qualche pacca sulle spalle da parte di Er carota che è rimasto bianco latte per tutta la partita a differenza di quella con l’Italia che pareva una fiamma incandescente più che una carota. Ci sediamo a cenare in una cella di dieci metri quadri. C’è poco spazio e dobbiamo spostarci uno per volta. I mondiali però fanno trascorrere il tempo abbastanza velocemente. Il vikingo mentre addenta una mela dice: “Ahò, se stavo fori me vedevo l’Argentina che a casa c’ho Sky. Sti morti de fame der gabbio stanno ancora con la rai”. Io sorrido e penso a Messi. Il mio giocatore preferito: la pulce. Questo vorrei essere per fuggire da queste sbarre. “A coccodè”, dice er carota “me sa che ve ne ite a casa”. Sorrido mentre comincio a lavare i piatti. E’ il mio turno. “pensa che fortuna”, rispondo “loro ritornano a casa. Io qui, ancora per tredici anni”. Er carota non risponde. I mondiali, in fondo, sono solo una parentesi colorata dentro una galera. (traduzione a cura della redazione di Sardegna blogger) Io l'ho detto subito che non sono sano. Ma quelli di sardegna blogger, che manco so cosa vuol dire, mi hanno detto scrivi, scrivi. E io devo raccontare di Italia Inghilterra dal carcere di Buoncammino. Siccome sono nato vicino allo stadio di Sant'Elia io di calcio ne capisco. Anche di scippi e droga. Tifo Cagliari, giusto per essere chiari con tutti i caghini che hanno un'altra squadra ma, quando gioca l'Italia non si discute. Infatti al sinistro tutti tifano Italia, anche quelli scoppiati parecchio tipo Antonello detto fiamma, perché si è bruciato la faccia con il fornellino e gigi lo storto che io l'ho sempre chiamato così perché mica è storto solo che gli vanno tutte storte le cose che fa ed è sempre in galera. Mica che a me mi vada meglio ma più fuori di lui sono stato. Insomma, vi parlo di questa partita che è già finita e tutti siamo contenti. All'inizio mica era così. Dico subito che gli inglesi mi stanno sulle p. (quelli del blogger mi hanno detto che non si scrivono parolacce e quindi per me è un casino, ma casino si può dire? Boh) perché io una volta sono finito anche in carcere a Londra per due etti di fumo. Posto di m. il carcere di Londra. Non è che puoi lavorare o fumare tranquillamente. Li lavori a gratis e le sigarette solo dieci al giorno, che manco in comunità. Dunque gli inglesi devono morire a prescindere. Minchiolino, quello si chiama così e non vi dico perché, prima di vedere la partita è andato dal dottore e gli ha detto che era più scoppiato del solito e vedeva cose strane e non poteva dormire e che voleva il tavor. Quello non so come gli ha dato una bella razione e alle undici era drommiu perdiu e gli abbiamo dato quattro schiaffi quando è cominciata la partita. Siamo in quattro in cella, io, minchiolino, antonello su nordista, che è di Olbia e quindi del nord, e Tonino pigadinni e anche questo non lo spiego sennò mica me lo pubblicano. Insomma tutti a tifare Italia e soprattutto Sirigu che noi lo chiamiamo siringa, perché ci ricorda i nostri bei tempi andati di eroina e coglionate ( e si può dire? boh). Insomma a me mi dispiace che non c'è Buffon ma Tonino mi dice subito ma pigadinni tu e Buffon che è uno scoppiato antico. Poi però lui tifa Inter e allora gli dico che di calcio non ne capisce niente e dimmi un nome di un interista in nazionale e mi dice nagatomo. Oh tonino, gli dico, ma pigadinni e cittudidda che non ne capisci di pallone. All'aria stamattina abbiamo deciso che al gol dell'Italia si devono sbattere le gavette ma poco, sennò ci fanno rapporto. Minchiolino, come sempre, da ragione a noi e a me che sono per anzianità il capo della cella e lui a volte mi fa anche il letto, ma solo perché è più bravo. Niente birra perché adesso in questa galera siamo diventati no vino, in inglese e non capisco cosa c'intrada sa birra ma solo fanta e coca cola. E vabbeh. Manco ci sistemiamo davanti alla televisione perché in cella anche se piccola ci sono sempre cose da fare, tipo lavare le pentole e pulire il cesso e scrivere alla pivella, che Marchisio ti tira un calcio che manco lui lo capisce e segna. Gavette a molla, urla e cori contro gli inglesi. Sentiamo anche il casino che fanno al destro e anche l'agente passando dice non fate troppo casino e si capisce che il troppo non è lo stesso troppo degli altri giorni. Poi manco finito il casino che quello scimpru di inglese prende e segna. Io, una cosa la voglio dire ma tra tanti italiani proprio l'argentino più cretino ci dovevamo portare ai mondiali? capisco se uno si porta a Maradona o a Messi e allora siamo messi bene, ma questo Paletta non vuole visto. La discussione dura molto, minchiolino lo difende ma lui ne capisce quanto il suo nome, tonino gli ha tirato una decina di pigadinni in su ..... mentre antonello su nordista parla solo di siringa Sirigu che è di vicino a casa sua e che è il migliore della partita. Dentro questa discussione ci siamo dimenticati di togliere il latte dal fornellino a gas e succede un casino. Fine del primo tempo e minchiolino si è torra dormito. Vicino alla nostra cella se la prendono con Ballottelli che adesso si sposa e quindi pensa ad altro. Minchiolino si sveglia e dice subito e mica cussu è caghineri. Insomma le sigarette riempiono la cella di fumo quando lui, Supermario prende una palla incredibile e la mette dentro. Le urla sono più forti e tutti ci abbracciamo. Mi che stiamo facendo una bella figura. Poi c'è stanchezza, molto umido e molto caldo. Questo dice il commentatore e noi sbuffando e fumando diciamo eh... per un mese anche in albergo siete. E noi, una basca che c'è dalla cinque del mattino, una cella che ci sembra l'amazzonia e che se strizziamo le lenzuola esce acqua per la pastasciutta. Gli ultimi dieci minuti sono molto silenziosi. c'è l'ispettore che passa ogni tre minuti e allora, e allora, e allora. Allora zitto ispettò che porti sfiga che ne abbiamo abbastanza. Quando fischia l'arbitro siamo tutti felici e ci beviamo una bella coca cola. Questa storia della birra non si capisce, scriveremo al direttore si ci autorizza almeno per l'Italia. Vi farò sapere. Minchiolino adesso gli è passato l'effetto del tavor e ha due occhi grandi come un gufo e non ha voglia di dormirsi. A me quelli di sardegna blogger mi hanno detto che mi fanno scrivere solo se vince l'Italia. Spero di diventare un grande scrittore allora. Alle tre del mattino tutto il carcere dorme. Io mi corico dopo l'ultima sigaretta e, mentre sto per dormire, Minchiolino mi guarda e mi dice: a te lo immagini se c'era anche Zola? Tonino si gira nel letto e gli risponde Oh minchiolino ma pigadinni in su c...... Insomma, le solite cose da galera. Quelli di Sardegna Blogger mi hanno chiesto di commentare la partita Spagna Olanda. Mi hanno pregato inoltre di spiegare come si vive la partita attimo per attimo dentro la cella di un carcere. Ho detto si. Consapevole di essere uno spergiuro e quindi di non poter dire mai la verità. Ho attesto che l’Olanda con Robben firmasse il quinto gol e ho deciso di provare a dirvi quello che penso. Il pallone non è rotondo, ma ha trovato giustizia. Certo, dopo quattro anni ma con gli interessi. Quell’Olanda eterna seconda si è presa il gusto di umiliare i campioni del mondo come mai era accaduto. Il mio compagno di cella era per gli spagnoli. Io, come sempre, per chi vince. Annuso l’aria e osservo gli occhi. Poi non mi faccio fregare al primo gol. Che era della Spagna. Ho capito, fin da subito, che non c’era la squadra, non c’era il tiki taka, non c’era Iniesta, Xavi, non c’era la squadra. Il mio compagno, rapinatore solitario, mi ha detto, fin da subito, che le furie rosse vincono con calma. Son diventate più rosse e meno furie. Chissà. Ai passeggi, stamattina si accettavano le scommesse. La Spagna era favorita. Quando Xavi ha segnato il rigore ho pensato che avrebbero perso. Facile dirlo adesso. Certo. Sono furbo. Questo l’ho sempre saputo. Tre rapine commesse e solo una pagata. Un buon ritmo. Per dire. In carcere, il pallone è la metafora della vita. Provo a spiegarlo. Mi chiamano il professore. Perché avevo un certo portamento nelle parole anche quando compivo le rapine. E davanti ai ragionieri impauriti mi scusavo. Avevo letto Brecht e ero profondamente convinto che i veri rapinatori erano i banchieri, mica i poveri bancari. Mai sparato un colpo. Mai. Ho visto la Spagna squagliarsi davanti ad una squadra allegra, felice. L’Olanda arriverà anche alla finale e la perderà. Un pò come la mia vita. Sono giunto alla rapina più bella e proprio quella mi andò male. Quindici anni. Non si può perdere cinque a uno e rischiare il sesto e il settimo e sbagliare vergognosamente con il Nino almeno il secondo gol. Non si può. Questa è la vita. Ho scommesso stamattina due pacchetti di sigarette sulla Spagna. Le ho perse. Ma scommettere non significa tifare. Stasera ho scoperto che il calcio non è mai banale. Non poteva finire in quel modo. Eppure è finita. Ho detto le stesse parole quando Marta mi ha lasciato. Mi ha segnato troppi gol e io come uno stupido, aspettavo di poter vincere. Non mi ero reso conto che i piccoli passaggi, a volte, non regalano ampie soluzioni, ma solo piccole opportunità. E ho perso. Come la Spagna. Quelli di Sardegna Blogger chiedevano una mia cronaca sulla partita. Forse non ci sono riuscito. Il carcere, a volte, complica le cose. Domani, però tiferò da questa galera del Veneto quella pazza e incredibile Italia. Noi, nella nostra cella siamo in nove. Quasi una squadra di calcio. E siamo tutti per l'Italia. Non ci siamo scelti, il destino ha lavorato per noi. C'era un algerino sino a ieri ma è stato scarcerato. Teneva per il Camerun ma ci aveva promesso di tifare Italia se fosse rimasto. la sua partita, almeno lui, l'ha vinta. Noi siamo qui, al caldo ad aspettare la mezzanotte. In carcere, per fortuna, si aspetta sempre qualcosa e si aspetta a volte per giorni, mesi, anni. Non solo la libertà anche un pacco dei familiari, una lettera, una visita, un sorriso. Mai un abbraccio. Il carcere è il sottosuolo della vita vera, quella reale, quella che si sposta velocemente. Credo che la giornata degli altri sarà più o meno normale, lavoro,figli, pranzo, qualcuno al mare, siesta, amici, bar e, solo a mezzanotte con una birra davanti si metteranno a guardare l'Italia. Qui, invece, qualche piano più sotto, l'attesa per la partita è l'unica cosa che ci proietta verso qualcosa di serio, di intenso. Ne parliamo da giorni. La cella dodici, per esempio, ha messo tutte le foto degli azzurri sui muri. Teoricamente non si può fare, solo teoricamente però. Come non si dovrebbero mettere quelle della Canalis o di Belen. Sopratutto adesso che in questo carcere il comandante è una donna. Ma non ha mai protestato. Quando passa guarda e non dice niente. Sono solo piccoli vezzi del sottosuolo. La cella sedici, invece è totalmente per la Spagna. Piena di spagnoli e qualche italiano scemo, da ieri sono in religioso silenzio. Contano ancora i gol presi dagli arancioni. Sono cose che fanno male. Nella nostra pittoresca sezione, la terza del primo piano, tutti hanno la loro squadra: russi, svizzeri, messicani, croati. Quelli che non c'è l'hanno solitamente si buttano sul Brasile e sull'Italia per paura. Paura di essere sfottuti, sia chiaro. In carcere una partita di calcio è un evento mediatico unico e irripetibile. Quando gioca l'Italia nessuno si muove, nessuno si taglia, nessuno tenta il suicidio, nessuno comincia una rissa. Semmai dopo. Subito dopo o molto dopo. Dipende da come è andata. In carcere, nel sottosuolo della vita, il pallone non è rotondo ma è la voce della libertà, un modo per poter urlare senza prendere rapporto quando la tua squadra segna, la possibilità di essere insieme, nel tifo anche con i poliziotti, anche se stanno lavorando e mantengono un certo comportamento quasi asettico. In carcere c'è sempre qualcuno che si allena alla partita anche da giorni. Un allenamento legato a nascondere le lattine di birra. Accumulare per qualche giorno per poi avere la possibilità di bercele tutte in una sera. È vietato. E lo sappiamo. Infatti, la paura è la perquisizione proprio il giorno della partita. Lo hanno fatto ieri alla quarta sezione, quella dei napoletani. Ma loro esagerano con il prepartita: erano due settimane che accumulavano e, più di qualcuno che se l'ha cantata, era proprio evidente che c'era troppa birra dalle loro parti. Noi, nella nostra cella siamo stati bravi, solo tre lattina a testa. La prima quando inizia la partita, la seconda all'intervallo e la terza per brindare. Brindare cosa? Magari si vince o si pareggia ma perdere non è contemplato. Nel sottosuolo perdiamo soltanto e non possiamo permetterci cose del genere. Se si perde è perché gli inglesi hanno rubato e la terza lattina c'è la beviamo per rabbia. Qualcuno dice che gli spagnoli sono terribilmente tristi e minacciano il suicidio. Non è vero. Hanno solo deciso di vincere tutte le altre. Come dice il mio compagno di cella Mario, detto il sordo, perché fa sempre finta di non sentire: "non dobbiamo mai pensare al fallimento di una rapina, ma dobbiamo riflettere su come fare bene la prossima". Il sordo di rapine ne ha fatte parecchie e qui, nel sottosuolo ci campa da una vita a riflettere. Io non so come va a finire questa partita. So però, per certo che nessuno nella nostra sezione tifa per l'Inghilterra. Squadra poco amata dalle nostre parti. L'ispettore sardo, all'aria stamattina ci ha salutati e ha sorriso. Lui, quando Zola segnò all'Inghilterra, a Wembley, nel 1997, era di servizio a Pianosa e quella partita se la ricorda ancora. Noi abbiamo restituito il sorriso e gli abbiamo detto che stanotte, a mezzanotte tutta l'Italia tiferà gli azzurri. Anche noi del sottosuolo. Aspettando un nuovo Capello e un piccolo grande Zola. Buona partita a tutti. Ho deciso di tifare Brasile. Mica devo essere sfigato anche nel calcio. IL mio compagno, diciamo d’avventura, tifa i croati, quelli a scacchi, che solo per la maglietta strana manco morto li avrei tifati. Vabbeh, il gusto di perdere il mio compagno ce l’ha. L’hanno preso mentre faveva il palo ad un furto anche facile. Lui stava andando via frusciando tranquillo e invece, la sfiga lo perseguita: e non c’era un maresciallo che passava per caso da quelle parti? Dentro, senza manco una prova. Allora ha detto che tifa solo squadre sfigate che magari vincono. Eh... gli ho detto, allora ne vinci di mondiale. A lui però non interessa vincere. A uno che fa il palo in un furto cosa possiamo chiedere? Mi sono acceso una sigaretta perché la partita comincia. Faccio sempre così quando inizio una competizione. Anche a casa, quando mi capita di essere a casa. Ho visto il mondiale del 98, quello vinto dalla Francia in un carcere della Liguria. Avevo deciso di tifare Brasile e non è andata molto bene. Quello del 2006, vinto dall’Italia mi ero fissato con la Francia e ho pagato due stecche di Marlbor ad un marocchino che tifava Italia. Odiava i francesi e odiava Zidane. Per me, invece, Zidane era il calcio. Nel 2006 ero in galera nel Lazio. Tutti tifosi dell’Italia, tranne io e il serpichino, uno stronzo napoletano che tifava Argentina perché lui tifa solo Argentina, perché Maradona, per lui continuava a giocare. per sempre. Gli ultimi mondiali li ho visti a casa. La mia donna era sempre incazzata perché mi ero fissato con le squadre e tifavo l’Olanda. Poi hanno vinto gli spagnoli. Che mi sono anche simpatici, ma una volta avevo un compagno in cella. Uno spagnolo che rubava le sigarette e voleva vedere solo telenovelas. Adesso con il mio amico che si chiama Franchino, lui dice perché dice sempre la verità, io dico perché il nome è uguale alla sfiga e al lavoro: un palo sfortunato mica può avere un nome serio. Insomma comincia la partita e mi sembra che i verdeoro non giocano a calcio. Camminano in silenzio. Neppure la sigaretta riesco a finire che quel Marcello che mi sembra la controfigura di Ficarra segna dalla sua parte. Autogol. I verdeoro. A Casa loro. Mi guardo il mio compagno di cella che rimane fermo. E ci provasse a urlare Franchino che in sezione lo ammazzano. Tutta la sezione è brasiliana. Poi, quando gioca l’Italia, tranne due rumeni, tiferemo gli azzurri. Io non ci posso credere che il brasile può perdere la partita. Non è possibile che un palo di un furto e anche sfigato può vincere. Non è mai successo. Adesso passa anche l’appuntato che ci chiede come è la partita e io gli rispondo che non siamo messi molto bene. Lui sorridendo dice, vedrai che i più forti vincono sempre, come nei film che vinciamo noi. Cosi mi dice l’appuntato e quasi quasi gli rispondo ma poi mi prendo rapporto e mi perdo i giorni e mi tocca il consiglio di disciplina e magari mi danno l’isolamento e non mi vedo le partite. Vincono loro. Ma loro chi, dico io? Franchino sorride ma a me sembra si sia pentito di tifare quelli tutti pettinati e zitti. Non sanno neppure gioire per un gol. L’appuntato ripassa e chiede quanto siamo e gli rispondo che i forti perdono e non è come nei film. Magari vince davvero la Croazia. E invece c’è quello piccolo che corre e fugge che prima pareggia e poi segna il rigore. Rigore da non dare dicono tutti. Anche io. Ma siccome ci faccio il tifo sto zitto. Fino al terzo gol di Oscar. Ecco. Franchino è sistemato lui e la sua vita da palo. Almeno stasera, mentre salgo sul letto a castello ho vinto qualcosa. E lo sai perché tifo Brasile? Lo chiedo a Franchino ma non mi risponde. Perché loro sono poveri. E sfigati. E giocano con il pallone sulla sabbia. Come quel maledetto nostro campo di calcetto. Sabbia e pietre. Ecco perché tifo Brasile. L’unico problema che anche l’appuntato sta con il brasile. E quindi, per una notte abbiamo vinto tutti: guardie e ladri. In alcuni film o in certi anedotti quotidiani capita che compaia qualche personaggio che ha come passatempo la lettura dei necrologi. Una passione singolare, che però rischia di perdere terreno nei confronti di un’altra attività simile, ugualmente grottesca. La lettura degli annunci di lavoro. Le due cose non sono così poi dissimili. Si leggono i necrologi, si dice, per riflettere sulla morte. Leggere gli annunci di lavoro servirà, allora, per riflettere sulla morte del lavoro stesso, tant’è che se il sociologo polacco Zygmunt Bauman parlava di lavoro liquido, forse oggi dovrebbe rivedere la sua celebre teoria e parlare di lavoro “evaporato”. La lettura degli annunci ti apre alla comprensione del mondo di oggi. Il primo ostacolo da superare è capire cosa chi ha inserito l’annuncio ti stia chiedendo di fare. Se lo capisci, si passa all’elenco dei requisiti richiesti. Una parola molto usata è “obiettivo”: “Si selezionano con urgenza per la sede di Segrate – la metà dei lavori offerti sono a Segrate, quasi fosse una Silicon Valley, solo che non siamo in California e non si progetta alta tecnologia, ma si cacciano talenti nel fantomatico settore Marketing “in espansione” - giovani ambiziosi in possesso di spiccate doti comunicative, capaci di lavorare per obiettivi, con predisposizione a lavorare in team”; “La capacità di lavorare per obiettivi e un forte orientamento al cliente completano il profilo.” Tradotto, per maggiore chiarezza: l’obiettivo è quello che ti imponiamo noi, se non lo raggiungi, sei fottuto. Altra parola/requisito sdoganata dai massimi esperti di Human Resources: “ Proattività”. Se pensate che essere semplicemente “attivi” sia una qualità spendibile vi sbagliate, per cui munitevi anche voi del magico prefisso. Annuncio di un’impresa di pulizie britannica. Per passare il primo step della selezione – sì, selezione - c’è la compilazione di un questionario. Il lessico della domanda numero 5 è spiazzante, fa pensare a parole prese a caso dal dizionario: “ Hai confidenza con gli aspirapolveri?”. Poi c’è il vocabolario della la discriminazione. “Età massima 30 anni”; io glielo porterei il mio esempio a quelli che mettono questi annunci; a vent’anni io ero una cazzona, posso sapere cosa pensate che si abbia di positivo a vent’anni, che poi si perde misteriosamente una volta passati i 30? Poste italiane assume! È l’urlo dell’ennesimo portale. Improvvisamente questi uffici di collocamento virtuali offrono un vantaggio per il povero utente, un elemento che può tradursi in un’arma: si possono lasciare i commenti. E allora scatta la vendetta lessicale, sintattica e grammaticale: “Ma andate a fanculo siamo stanchi di mandare 3000 cv al giorno senza alcuna risposta”; “Minchiate, grosse. E togliete quei maledetti vecchi inefficienti che ormai hanno già dato;” “Per fare i postini per 3 miserabili mesi,vogliono diplomati con minimo 70.Ma andate a fare in culo,io ho preso 64 e nn mi sento inferiore ad uno che ha 70 di voto; “Io ho fatto la domanda 11 volte mai chiamato e vogliono diplomati minino con 70 e c'e gente nelle poste che non sa nemmeno quanto fa 2 +2 andate a cagare; “I requisiti sono altri devi essere figlia di chi già ci lavora devi essere un pò scema o imbecille o nipote del direttore magari è poi vedi che ti assumono senza neanche inviare il cv”. “Ma non ve la finite co sti cazzo di link??? Ke sono più falsi di quella gran puttana della vostra mamma!!!” E’ una reazione simile al terzo principio della dinamica: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; e se il lessico di chi offre lavoro si adatta ai tempi e diventa ermetico e ostacolante, quello del disoccupato fa altrettanto, a modo suo, e alla richiesta di “proattività” può anche scattare il liberatorio e inequivocabile “vaffanculo”. E poi capita che delle immagini ti spingano indietro nel tempo come in un flashback senza controllo ed ecco che, mentre in un’emittente sarda scorrono alcune inquadrature, mi ritrovo seduta in un divano biposto, stretta stretta fra i miei genitori, incollata alla TV per seguire il tragico recupero di un corpicino che, dal fondo di un baratro, si aggrappava alla vita. Era il 10 giugno del 1981 e, quando Alfredino Rampi cadeva in quel pozzo artesiano largo 28 cm e profondo 80 metri, ero poco più che una bambina, abbastanza grande per non ignorare la gravità della situazione, ma troppo piccola per viverne le sfumature in tutta la loro drammaticità. Ciò nonostante in quel pozzo c’ero caduta anch’io, con tutta l’Italia. Forse il primo reality show della storia dove, a reti unificate, ad attenderci non c’era l’happy end che avremmo voluto. E per il quale, col senno del poi, ho valutato la goffaggine degli interventi, l’improvvisazione dei provvedimenti, la grossolanità delle operazioni. La televisione non era ancora attrezzata per una simile mole di diretta e, alla presenza di una sola telecamera fissa, noi spettatori vedevamo una folla indistinta traducendone i comportamenti in un lasciapassare per la nostra tristezza o il nostro ottimismo. Alternavamo gli stati d’animo, transitando in maniera repentina dall’uno all’altro. Io me lo ricordo bene quel pompiere Nando Broglio che cercava di calmare Alfredino cantando con lui le canzoni dei cartoni animati. E ricordo altrettanto bene quel pianto che straripava dal ventre della terra. Un piagnucolio sempre più debole. Sempre più stanco. Fino a quando non si è trasformato in silenzio. Custodito dal fango. Io me lo ricordo bene Angelo Licheri, è rimasto scolpito nella mia memoria senza andare più via e, a distanza di trentatré anni, rammento perfettamente il suo volto. Forse perché sardo come me, forse perché, contravvenendo alle indicazioni, era rimasto a testa in giù il doppio del tempo consentito e una volta riemerso in superficie, infatti, era apparso in evidente stato confusionale. Dopo aver recuperato la lucidità aveva pianto. Tra le lacrime aveva dichiarato di sentirsi impotente. Singhiozzava mentre raccontava che sarebbe bastato un soffio per recuperare quel corpicino, ma il fango lo rendeva più scivoloso di un’anguilla ed ogni tentativo di acchiapparlo cadeva nel vuoto. Sempre più giù, come Alfredino. Come la nostra speranza di rivedere quella piccola vita nuovamente in superficie. Dopo trentatré anni Angelo Licheri ha una gamba in meno, amputata a causa di quello che in gergo medico viene definito “piede diabetico”, e il portafoglio vuoto. Gli amici hanno cercato di costituire un’associazione che raccolga fondi per le sue necessità e il ministro dell’Interno Maroni gli ha rifilato, prendendone il plauso, un assegno da 10.000 euro col quale gli ha assicurato un sostentamento a malapena semestrale. Non l’ipotesi di un vitalizio, non una rendita mensile, non un assegno di mantenimento per un eroe dimenticato. Uno degli umili che, nell’accezione manzoniana, sono i veri protagonisti della storia. Le cui valorose gesta restano custodite nella terra, come il corpo di Alfredino. La sinistra è il padre che ci ha lasciati quando non eravamo ancora pronti. Lei è anche la madre che continua a sorridere e vietare, dolcissima e insopportabile. E oggi non esiste. Come si fa? Quanti sanno come ricostruirla! Quanti scrivono manifesti perché è il momento di ricostruirla! Però ogni volta le ossa sistemate per ricomporre lo scheletro, ovviamente, cadono. Allora sul mucchio si fa avanti un altro, prende un altro osso e dice: ricostruiamo la sinistra. E così via. Ma è mai nata una sinistra in questo modo? Dalla riunione di qualche testa pensante che periodicamente afferma “ il momento è arrivato”? Non nasce più facilmente quando le cose spingono tutte insieme in una direzione e c’è qualcuno che se ne accorge e lo sa raccontare? Io mi chiedo perché a migliaia ogni giorno arrivano in Italia dall'Africa. Mi chiedo cosa fa sembrare loro più conveniente la possibilità di morire in mare che la possibilità di restare fermi nel proprio paese. Mi chiedo perché ritengono che, con la nostra crisi economica, siamo infinitamente più attrattivi dei loro villaggi e delle loro città. Che poi continuano ad amare. E quando affogano, con loro affoga anche lo strazio per una terra in cui avrebbero voluto vivere in pace, e non hanno potuto. Affogano per l’acqua nei polmoni e per la nostalgia. Mi chiedo se sia un problema di armi che sparano. Mi chiedo se sia un problema di pioggia, un problema di agricoltura che in Africa non funziona più, un problema di caldo sempre più insopportabile. Mi chiedo se sia lo stesso caldo che sentiamo noi. Mi chiedo se sia giusto difendere i diritti di chi prende duemila euro di pensione al mese. Per non parlare di chi ne prende tremila, o seimila. Se sia giusto pagare questa pensione con i contributi dei precari che la pensione non l’avranno mai. Mi chiedo se qualcuno riuscirà a spiegarlo con chiarezza a tutti. Mi chiedo se abbia senso distinguere tra capitale e lavoro. Molte battaglie e molte resurrezioni della sinistra (quelle tentate a partire dal mucchietto delle sue ossa), si nutrono di quella divisione. Mi chiedo da quale parte, in questo mondo diviso tra capitale e lavoro, tocca collocare le microimprese, le ditte individuali, gli artigiani senza dipendenti. Mi chiedo che relazione ci sia tra la difesa di chi perde il lavoro per un’impresa che delocalizza, la differenza di costo del lavoro, la fame di Occidente e la mancanza di diritti di chi lavora per molto meno ed è forza lavoro appetibile, la mancanza di democrazia in Cina o in Arabia Saudita, l’indispensabilità di certi partner internazionali, la pretesa di alzare frontiere contro l’immigrazione. Poi mi chiedo a quanti sia sfuggita la somiglianza tra Matteo Salvini e Alvaro Vitali. E mi chiedo se abbia senso, e quale, non vedere che il nazismo ogni tanto si affaccia, che nel sottosuolo del mondo, e specialmente d’Europa, continua a circolare e ogni tanto alza la testa e guarda fuori. Mentre noi, o facciamo istintivamente tifo per l’Ucraina, o ci giriamo dall’altra parte. Mi chiedo se sia possibile meravigliarsi ancora per la vicenda del MOSE, per l’EXPO, e per il prossimo pentolone che verrà aperto e controllato dalla legge e dai media. Mi chiedo quanto sia colpa di tutti noi. Perché non ci credo che siamo innocenti. Come italiani, dico. Mi chiedo quanta chiesa e quanto oscurantismo c’è nel nostro essere sinistra. Quanta paura del cambiamento, in sostanza. Che è paura della vita e del mondo, mica altro. E mi viene in mente, en passant, il culo di Paola Bacchiddu, e le polemiche, e come Barbara Spinelli l’avesse silurata insieme ad un collegio di tromboni, dopo quella foto in bikini, perché aveva danneggiato l’immagine della Lista Tsipras. Barbara Spinelli, dico. Un’altra animatrice di mucchietti d’ossa. L’ennesima. Sotto gli occhi di tutti. Mi chiedo se, rispetto a un anno e mezzo fa, quando Bersani e Renzi andavano a primarie, la domanda “Ma Renzi è di Sinistra?” abbia cambiato senso. Perché un senso ce l’ha ancora, quella domanda, ma non è lo stesso di prima. Che –come diceva il Colonnello- le domande non sono mai indiscrete, le risposte lo sono, a volte. Mi chiedo se abbia senso continuare a parlare di sinistra, o se non abbia più senso mettersi a leggere la complessità senza pretendere di avere troppe idee chiare. Mi chiedo ma non capisco, davvero, e mi sembra che la sfida sia enorme, perché le cose perdono senso con estrema facilità. Credo che siano importanti due parole: rete e confine. Quel mucchietto di ossa che una volta era la sinistra, aveva senso dentro confini che o stanno crollando o, addirittura, non esistono più. Esiste invece una rete di relazioni che collega tutte le cose del mondo. La sua cifra si chiama complessità: sembra difficile, ma è solo un sinonimo di “vita”. Penso che, piuttosto che intestardirsi con le parole, ci vorrebbe il coraggio delle cose nuove. Il coraggio dell’esperimento e dell’eresia. Il coraggio della fuga e della resa. Il coraggio di sporcarsi con il fango giusto, quello che contiene almeno un po’ di letame. E ci vorrebbe la forza di seppellire, finalmente e per sempre, quello che ha diritto di riposare in pace. E un po’ di saggezza, per distinguere tra quello che deve essere sepolto e quello che ancora dobbiamo imparare. Arriva il fotografo per la foto di fine anno ed i bimbi vengono sistemati alla bell’e meglio per far sì che l’inquadratura abbracci tutta la classe. La maestra ha il vestitino elegante delle feste e forse è andata anche dal parrucchiere, perché sa che quell'immagine la renderà immortale nelle vite dei suoi piccoli alunni. Il bambino diversamente abile viene sistemato all’esterno. E’ un’appendice scomoda da mettere quanto più distante possibile dagli altri. La maestra non si accovaccia accanto a lui. Non invita i compagni a circondarlo in un simbolico abbraccio accogliente. Non dispone gli amichetti vicini. Il piccolo, dalla sua carrozzina, sorride compiaciuto di quel momento. Ignaro di tutto o forse no. Purtroppo non sa che la disabilità, quella vera, è di una maestra che non capisce. Ricomincio da tre l’ho visto troppe volte. Ne conosco i passaggi essenziali, le battute fulminee, gli sguardi di Gaetano /Troisi, quel suo napoletano incomprensibile e poeticamente illuminante, le battute, i silenzi, gli spazi fatti di piccole cose, quelle frasi divenuti proverbi, modi di dire: “Massimiliano, troppa libertà. Meglio Ugo, perchè con quel nome il bambino non fugge oppure, se non lo vogliamo far diventare troppo represso, lo chiameremo Ciro.” C’è quella Napoli che ho amato da sempre, nel teatro di Eduardo, nei vicoli di Spaccanapoli, nelle serate passate in una lunghissima estate del 1978 a Fuorigrotta dove imparai la bellezza di una città incredibile da amare e impossibile da odiare. Napoli ha gli occhi Massimo Troisi, la sua esilarante tristezza, un ossimoro perfetto. Massimo Troisi ci ha lasciato il 4 giugno del 1994. Aveva 41 anni. Ne avrebbe 61 e molte cose da raccontare. Ci ha lasciato camminando sulla terra molto leggero, con orme quasi impalpabili. Ci ha lasciato con pezzi memorabile che, almeno una volta al mese riguardo. Provo ad immaginare cosa sarebbe oggi Massimo, dentro questo mondo complicato più delle sue parole, in questa Napoli meno colorata e più arroccata dentro una tristezza dilagante. Mi chiedo sempre: ma perché uno si costruisce il suo Pantheon, perché ha l’atroce necessità di abbracciare persone mai viste e mai conosciute: un attore, uno scrittore, un musicista, un poeta. Perché insieme a loro si sta bene. Io, con Massimo Troisi, ci ho convissuto per anni e ancora bussa alla mia porta con quei suoi riccioli pasticciati, quelle frasi terribilmente incomprensibili, quella faccia dolce e intensa di Ricomincio da tre, di scusate il ritardo, di pensavo fosse amore, di Non ci resta che piangere, del Postino. Mi guarda sempre con quella buona dose di malinconia e con un lieve sorriso mi sussurra: “Ricordati che devi morire. ‘Mo me lo scrivo, Massimo. Mo me lo scrivo”. C’erano molte cose da raccontare in queste giornate livide ma stasera sto con Massimo. E con il suo pazzo e incandescente cuore. Ciao Massimo, non ci resta che ricordarti. L’aggettivo sospeso restituisce un’idea di precarietà. Come i nostri tempi. Da anche l’idea di una certa “napoletanità” nel senso più verace del termine: “un caffè sospeso” è una sorta di mancia lasciata da qualcuno in un bar, pagata da uno sconosciuto per chi magari quel caffè non si può permettere di pagarlo. Ne parlava Eduardo e ne parlava, soprattutto De Crescenzo nella sua “Napoli di Bellavista” dove le sospensioni era anche momenti sublimi. Dunque, si entrava in un bar e gentilmente si chiedeva al proprietario: “C’è per caso un sospeso?” Alla risposta affermativa il cliente entrava beveva il caffè e ringraziava qualcuno che non c’era. Era un gesto piccolo, simpatico, dolce, che presupponeva la lealtà di due persone: il barista che non doveva barare e il cliente che doveva, davvero, essere senza soldi. Intorno tanta piccola sociologia napoletana: quella di Eduardo ma anche quella timida e bellissima di Massimo Troisi; quel sospeso rappresentava un incontro candido tra il benefattore sconosciuto e il beneficiario leale. Poi, probabilmente, l’ingranaggio in qualche bar si “ingrippava” ma questo gioco è una forma di gentilezza d’altri tempi, un voler offrire con una certa grazie qualcosa di piccolo, infinitesimale ma che riconcilia con la vita. A Oristano, Tiziana Figus, che gestisce una pizzeria al taglio in via De Castro, ha pensato all’idea del caffè sospeso e ha deciso di rimodularla con la “pizzetta”. Il cliente arriva e ordina una pizza per lui e ne paga due. La seconda è “sospesa”, in attesa di un cliente che si affacci alla pizzeria, qualcuno che quella pizzetta, per quanto di poco conto, non se la può permettere. Brava Tiziana. Sono tempi ingiusti questi. Ma giusti, giustissimi per un “sospeso” o, meglio per una “sospesa”. Ha solo un dubbio la nostra simpatica Tiziana, quello di trovare le persone con il “giusto coraggio per varcare la soglia”. Lei ha promesso un silenzio assoluto e sono certo riuscirà a mantenere questo piccolo segreto. Una pizzetta sospesa è solo un frammento di abbraccio verso un mondo con solchi di dolore molto grandi. Ma la vita ha bisogno di piccoli segni e ha la necessità, qualche volta, respirare piano. Regalandosi una piccola sospensione. Giulia ha 14 anni, è alta un metro e cinquanta e pesa cinquantotto chilogrammi. Non è grassa e non è magra. Le sue cosce sono tornite, non ciccione. Il suo ventre è morbido, non eccessivo e quando si siede un piccolo rotolino si adagia sulla cintura. La mamma, con l’arrivo del primo sole, ha fatto il cambio negli armadi: ha lavato, stirato e riposto nelle casse tutti gli indumenti invernali ed ha lavato, stirato e sistemato nei cassetti gli indumenti estivi dell’anno scorso. Giulia è rimasta incantata davanti alle sue t-shirt, che le hanno riportato alla mente uscite notturne con l’aria tiepida, e a quei pantaloni bianchi aderenti col sapore dell’estate. In un impeto di nostalgia li ha afferrati, è andata a misurarli davanti allo specchio. Troppo presto per indossarli, l’aria ancora frizzante di aprile non lo permette, ma ha un’incredibile voglia di vederseli addosso. Prova ad infilarli con l’ingordigia tutta adolescenziale di morsicare il tempo, ma quest’anno vanno stretti e faticano a salire sulle cosce. Quei pantaloni, ormai esageratamente attillati, non riesce ad abbottonarli. Giulia si guarda allo specchio e si sente enorme, osserva i glutei e vede un culone gigantesco: il suo cervello grida un pericolosissimo ALT. Giulia cambia la sua alimentazione, decide di eliminare i carboidrati e quando a tavola la mamma le porge il piatto di spaghetti, lei scuote la testa. Solo il secondo e tanta insalata. Pane, dolci, pasta sono ormai nemici da combattere a tutti i costi. Anche quando il sonno tarda ad arrivare, perché la pancia è vuota e gorgoglia fastidiosamente. I primi risultati si cominciano a vedere: quei pantaloni bianchi abbottonano comodamente adesso. Giulia è felice e tutte quelle faticose rinunce danno i loro frutti. Decide di calcare la mano, riduce ulteriormente le porzioni e va ogni giorno a fare jogging. Non le piace, è faticoso e le manca il fiato ma la gratificazione di quei pantaloni bianchi che vanno sempre più larghi è un incentivo strepitoso. Annulla la fatica e cancella il fiatone. Giulia pesa ora cinquantadue chilogrammi e non si accorge che sta esagerando. Il suo ciclo mestruale per un mese è saltato e lei sta perdendo molti capelli. Ma va bene così, è contenta per quei pantaloni bianchi che ora deve reggere con una cintura perché sennò le scivolano sulle caviglie. Continua a infliggere spietate sforbiciate al cibo, esclude completamente alcune tipologie di alimenti e applica tagli nelle porzioni anche di quelli che potrebbe mangiare a dismisura. Le sue guance si scavano e lo sguardo si spegne. Si accarezza le costole, che s’intravedono dalle magliette, e osserva ammirata le modelle sulle riviste. Quelle cosce che sembrano polsi, che nemmeno si sfiorano e restano distanti l’una dall’altra. Sogna di diventare così. Giulia pesa quarantasette chilogrammi e a vederla sembra reduce da una malattia. La voglia di torte e gelati è scemata. Solo talvolta alcuni sapori compaiono sotto forma di nostalgia, ma ora ha il pieno controllo del suo appetito. Ora non ha più appetito. Giulia è contenta, si sente indistruttibile perché ha la totale gestione della sua fame. L’anoressia è contenta, si sente indistruttibile perché ha la totale gestione delle sue vittime. Alle quali ora se n’è aggiunta un’altra: Giulia. |
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July 2014
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