GLI STAZZI NON SI TOCCANO
Lo stazzo, com’è noto, è un fabbricato dell’edilizia rurale, semplice, umile, solitamente nascosto al mare per necessità difensiva. La sua superficie (per i più lussuosi) non supera i 70/80 metri quadri. Nell’ipotesi di ricorso al cosiddetto piano casa, nella previsione più generosa, l’incremento sarebbe di circa 20 metri quadri lordi: una stanza.
Perché allora tanto martellare ostinatamente sulla manomissione di questa umile dimora del passato che è cosa immensamente lontana dai miliardi promessi in Gallura dalla holding del Qatar? Perché affannarsi per qualche metro cubo quando ci viene annunciato che i progetti di rilancio della Costa Smeralda sono affari come super ville, casinò e alberghi a 7 stelle? E i nostri amministratori hanno avuto la generosità di spiegare a questi illustri progettisti cosa sono gli stazzi? E la Sovraintendenza ai Beni Architettonici, il Paesaggio, il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico ritiene utile dispensare (oltre alla burocrazia) un po’ di storia, spiegare che si tratta non solo di un bene sottoposto a tutela, ma di qualcosa di più profondo per la cultura e la gente di Gallura? Che c’entrano gli stazzi con il master plan 2.0? Cosa agiti tutto ciò, francamente, è difficile comprendere.E, tuttavia, una cosa la si può azzardare. Prima proverò a spiegare perché gli stazzi non si toccano e la questione della loro tutela è cosa serissima non più eludibile e dev’essere affrontata dalle amministrazioni locali senza più reticenze.
Che lo stazzo sia l’elemento identitario che accomuna l’isoglossa della Gallura è superfluo evidenziarlo. Parlare d’identità avverto che per taluni possa apparire limitante, dagli orizzonti corti; ma non è così, è esattamente il contrario: parlare e difendere “l’identità” significa viceversa aprire nuove frontiere e nuove prospettive di lavoro, se appunto l’identità, il profilo culturale, l’antropologia di un popolo sono tutelati, non vengono svenduti o, peggio ancora, mutilati per interessi impropri.Gli stazzi si formano e si moltiplicano a partire dal secolo XVII, disegnando con tratto leggero il territorio, ne marcano i confini. Divengono il simbolo della Gallura e della sua gente. Il censimento del 1901 ne registra circa sei mila; insomma, “l’habitat disperso” è il referente primo della nostra terra. La popolazione gallurese fino agli anni ’50 del secolo scorso, con l’eccezione di Olbia e La Maddalena, vive per quasi due terzi negli stazzi. Tutti i galluresi sanno che lo stazzo non è il riparo precario del pastore, è la dimora (la sua “Domo”) che prende forma di azienda, di azienda multifunzionale tre secoli prima che il legislatore italiano ne desse una definizione giuridica (D.lgs. del 2001). Lo stazzo da subito si caratterizza come pastoralità altra rispetto al resto della Sardegna che invece è connotata da pastorizia nomade e transumante. In Gallura si afferma una nuova forma di pastoralità: la pastorizia stanziale. Il pastore gallurese dorme e riposa nel letto di casa, mangia nel proprio desco con la sua famiglia, vive accanto alla moglie, la quale è co-protagonista della vita produttiva della giurisdizione, provvedendo, oltre alle faccende domestiche, al lavoro dell’azienda. Lo stazzo in Gallura pone fine all’annoso problema del contrasto tra attività zootecniche e agricoltura e alla dicotomia terre comuni/proprietà privata. Dunque sono questi gli elementi che caratterizzano la cultura degli stazzi e di quella gallurese, quale cultura altra. Se gli architetti qatarini leggessero con meno fretta il contesto ambientale dentro cui stanno gli stazzi, coglierebbero la grammatica usata dai nostri pastori nel tracciare quelle umili dimore e nello scrivere il paesaggio rurale; coglierebbero che “manipolare” un siffatto bene, per chi ha progetti planetari, il gioco proprio non ne varrebbe la pena. Perché aggredire un bene storico, culturale, identitario di un popolo, alla fin fine per così poco? Lo stazzo non è un ordinario manufatto della ruralità: è una civiltà, una filosofia di vita che ha generato storie di dignità e di libertà contro la sopraffazione dei feudatari. Lo stazzo è la giurisdizione in risposta alle terre infeudate e “ai signori del bestiame” che padroneggiavano nelle comunità pastorali della Gallura disciplinate dagli usi civici dell’ademprivio. E’ la risposta, propria e peculiare, al disfacimento dello stato feudale.
Lo stazzo è anche storia di solitudine, povertà, miserie e consumate violenze. Ma è soprattutto tanta storia di generosità, solidarismo, accoglienza e ospitalità; talora asilo per contrabbandieri e banditi; sempre ricovero per mendicanti e viandanti: chiunque bussasse all’uscio era accolto. Lo stazzo è storia gravida di storie, di saperi e conoscenze oggi sulla rotta di essere acquisiti al “Patrimonio immateriale dell’umanità”, premessa imprescindibile per tracciare il profilo di un possibile nuovo sviluppo del territorio.
Oggi cultura e saperi, nella cosiddetta società della conoscenza, accompagnano la corsa verso il futuro che sarebbe sciagurato non cogliere. Facciamo in modo che queste risorse non ci vengano predate come già accaduto per le coste galluresi. Ricordate quando le marine erano considerate un impiccio, delle pietraie improduttive? La storia poi sappiamo com’è andata.
Forse altri intuiscono che cultura e saperi potrebbero essere fonte di nuova speculazione. Difendiamoli, saranno una risorsa per il futuro prossimo immediato e, a differenza che per le “pietraie”, la storia questa volta ci piacerebbe che a raccontarla fossero possibilmente i galluresi, “passando sulla terra leggeri” come fecero i loro avi.
Lo stazzo, com’è noto, è un fabbricato dell’edilizia rurale, semplice, umile, solitamente nascosto al mare per necessità difensiva. La sua superficie (per i più lussuosi) non supera i 70/80 metri quadri. Nell’ipotesi di ricorso al cosiddetto piano casa, nella previsione più generosa, l’incremento sarebbe di circa 20 metri quadri lordi: una stanza.
Perché allora tanto martellare ostinatamente sulla manomissione di questa umile dimora del passato che è cosa immensamente lontana dai miliardi promessi in Gallura dalla holding del Qatar? Perché affannarsi per qualche metro cubo quando ci viene annunciato che i progetti di rilancio della Costa Smeralda sono affari come super ville, casinò e alberghi a 7 stelle? E i nostri amministratori hanno avuto la generosità di spiegare a questi illustri progettisti cosa sono gli stazzi? E la Sovraintendenza ai Beni Architettonici, il Paesaggio, il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico ritiene utile dispensare (oltre alla burocrazia) un po’ di storia, spiegare che si tratta non solo di un bene sottoposto a tutela, ma di qualcosa di più profondo per la cultura e la gente di Gallura? Che c’entrano gli stazzi con il master plan 2.0? Cosa agiti tutto ciò, francamente, è difficile comprendere.E, tuttavia, una cosa la si può azzardare. Prima proverò a spiegare perché gli stazzi non si toccano e la questione della loro tutela è cosa serissima non più eludibile e dev’essere affrontata dalle amministrazioni locali senza più reticenze.
Che lo stazzo sia l’elemento identitario che accomuna l’isoglossa della Gallura è superfluo evidenziarlo. Parlare d’identità avverto che per taluni possa apparire limitante, dagli orizzonti corti; ma non è così, è esattamente il contrario: parlare e difendere “l’identità” significa viceversa aprire nuove frontiere e nuove prospettive di lavoro, se appunto l’identità, il profilo culturale, l’antropologia di un popolo sono tutelati, non vengono svenduti o, peggio ancora, mutilati per interessi impropri.Gli stazzi si formano e si moltiplicano a partire dal secolo XVII, disegnando con tratto leggero il territorio, ne marcano i confini. Divengono il simbolo della Gallura e della sua gente. Il censimento del 1901 ne registra circa sei mila; insomma, “l’habitat disperso” è il referente primo della nostra terra. La popolazione gallurese fino agli anni ’50 del secolo scorso, con l’eccezione di Olbia e La Maddalena, vive per quasi due terzi negli stazzi. Tutti i galluresi sanno che lo stazzo non è il riparo precario del pastore, è la dimora (la sua “Domo”) che prende forma di azienda, di azienda multifunzionale tre secoli prima che il legislatore italiano ne desse una definizione giuridica (D.lgs. del 2001). Lo stazzo da subito si caratterizza come pastoralità altra rispetto al resto della Sardegna che invece è connotata da pastorizia nomade e transumante. In Gallura si afferma una nuova forma di pastoralità: la pastorizia stanziale. Il pastore gallurese dorme e riposa nel letto di casa, mangia nel proprio desco con la sua famiglia, vive accanto alla moglie, la quale è co-protagonista della vita produttiva della giurisdizione, provvedendo, oltre alle faccende domestiche, al lavoro dell’azienda. Lo stazzo in Gallura pone fine all’annoso problema del contrasto tra attività zootecniche e agricoltura e alla dicotomia terre comuni/proprietà privata. Dunque sono questi gli elementi che caratterizzano la cultura degli stazzi e di quella gallurese, quale cultura altra. Se gli architetti qatarini leggessero con meno fretta il contesto ambientale dentro cui stanno gli stazzi, coglierebbero la grammatica usata dai nostri pastori nel tracciare quelle umili dimore e nello scrivere il paesaggio rurale; coglierebbero che “manipolare” un siffatto bene, per chi ha progetti planetari, il gioco proprio non ne varrebbe la pena. Perché aggredire un bene storico, culturale, identitario di un popolo, alla fin fine per così poco? Lo stazzo non è un ordinario manufatto della ruralità: è una civiltà, una filosofia di vita che ha generato storie di dignità e di libertà contro la sopraffazione dei feudatari. Lo stazzo è la giurisdizione in risposta alle terre infeudate e “ai signori del bestiame” che padroneggiavano nelle comunità pastorali della Gallura disciplinate dagli usi civici dell’ademprivio. E’ la risposta, propria e peculiare, al disfacimento dello stato feudale.
Lo stazzo è anche storia di solitudine, povertà, miserie e consumate violenze. Ma è soprattutto tanta storia di generosità, solidarismo, accoglienza e ospitalità; talora asilo per contrabbandieri e banditi; sempre ricovero per mendicanti e viandanti: chiunque bussasse all’uscio era accolto. Lo stazzo è storia gravida di storie, di saperi e conoscenze oggi sulla rotta di essere acquisiti al “Patrimonio immateriale dell’umanità”, premessa imprescindibile per tracciare il profilo di un possibile nuovo sviluppo del territorio.
Oggi cultura e saperi, nella cosiddetta società della conoscenza, accompagnano la corsa verso il futuro che sarebbe sciagurato non cogliere. Facciamo in modo che queste risorse non ci vengano predate come già accaduto per le coste galluresi. Ricordate quando le marine erano considerate un impiccio, delle pietraie improduttive? La storia poi sappiamo com’è andata.
Forse altri intuiscono che cultura e saperi potrebbero essere fonte di nuova speculazione. Difendiamoli, saranno una risorsa per il futuro prossimo immediato e, a differenza che per le “pietraie”, la storia questa volta ci piacerebbe che a raccontarla fossero possibilmente i galluresi, “passando sulla terra leggeri” come fecero i loro avi.