Adesso sta solo, all’interno della sua ombra nera senza nessuna stratificazione, nera come la notte nera, nera come il buio in cui si è avvolto l’anima. Seduto su una panchina solitaria tra il nulla e il troppo si agita e prova a ripassare gli occhi di chi lo ha visto per l’ultima volta. Perché di questo si tratta: Yara ha visto, Giulia ha visto, Cristina ha visto, Gabriele ha visto e anche a Tempio Giovanni ha visto, Giulia ha visto, Pietro ha visto quel buio torbido avanzare, quei movimenti senza speranze. Lui lo sa, certo, di avere scelto la linea sbagliata, di aver oltrepassato il verosimile, il razionale. Lo sa e prova a disegnare confini inaspettati, prova con pasticciata calma a riannodare la ragione. Ma è solo, terribilmente solo in un buio senza ombre e senza nessuna speranza. Non ha compreso le curve della vita, non le ha sapute prendere e non è riuscito a scalare nessuna marcia. Tutto in fretta, tutto molto in fretta nella discesa verso l’orrore, verso un cunicolo nero senza sogni, nero senza lacrime, nero senza vita. Lui lo sa, lui che ha visto gli occhi degli altri spegnersi, l’ultimo bagliore di bambini e donne e uomini lo sa quanto costa il suo gesto, sa quanto è cattivo il suo muoversi. Lo sa ma non comprende, non riesce a ritornare sull’altra riva. Lui ha deciso di rimuovere gli occhi, di eliminare tutti i colori di un quadro e passare con il suo atroce pennello sulle tracce della vita. Nero come la notte nera, nero come un grembiule senza fiocco, nero come un inferno senza fuoco. Adesso sta solo, all’interno delle sue parole che non riesce a macinare, farina senza mulino, acqua senza fontana. Lui lo sa di essere il più piccolo e il più fragile ma non trova più la strada. E noi con questi volti muti aspettiamo di trovare il varco per cercare uno spiraglio di luce nel nero che non cova speranze.
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In alcuni film o in certi anedotti quotidiani capita che compaia qualche personaggio che ha come passatempo la lettura dei necrologi. Una passione singolare, che però rischia di perdere terreno nei confronti di un’altra attività simile, ugualmente grottesca. La lettura degli annunci di lavoro. Le due cose non sono così poi dissimili. Si leggono i necrologi, si dice, per riflettere sulla morte. Leggere gli annunci di lavoro servirà, allora, per riflettere sulla morte del lavoro stesso, tant’è che se il sociologo polacco Zygmunt Bauman parlava di lavoro liquido, forse oggi dovrebbe rivedere la sua celebre teoria e parlare di lavoro “evaporato”. La lettura degli annunci ti apre alla comprensione del mondo di oggi. Il primo ostacolo da superare è capire cosa chi ha inserito l’annuncio ti stia chiedendo di fare. Se lo capisci, si passa all’elenco dei requisiti richiesti. Una parola molto usata è “obiettivo”: “Si selezionano con urgenza per la sede di Segrate – la metà dei lavori offerti sono a Segrate, quasi fosse una Silicon Valley, solo che non siamo in California e non si progetta alta tecnologia, ma si cacciano talenti nel fantomatico settore Marketing “in espansione” - giovani ambiziosi in possesso di spiccate doti comunicative, capaci di lavorare per obiettivi, con predisposizione a lavorare in team”; “La capacità di lavorare per obiettivi e un forte orientamento al cliente completano il profilo.” Tradotto, per maggiore chiarezza: l’obiettivo è quello che ti imponiamo noi, se non lo raggiungi, sei fottuto. Altra parola/requisito sdoganata dai massimi esperti di Human Resources: “ Proattività”. Se pensate che essere semplicemente “attivi” sia una qualità spendibile vi sbagliate, per cui munitevi anche voi del magico prefisso. Annuncio di un’impresa di pulizie britannica. Per passare il primo step della selezione – sì, selezione - c’è la compilazione di un questionario. Il lessico della domanda numero 5 è spiazzante, fa pensare a parole prese a caso dal dizionario: “ Hai confidenza con gli aspirapolveri?”. Poi c’è il vocabolario della la discriminazione. “Età massima 30 anni”; io glielo porterei il mio esempio a quelli che mettono questi annunci; a vent’anni io ero una cazzona, posso sapere cosa pensate che si abbia di positivo a vent’anni, che poi si perde misteriosamente una volta passati i 30? Poste italiane assume! È l’urlo dell’ennesimo portale. Improvvisamente questi uffici di collocamento virtuali offrono un vantaggio per il povero utente, un elemento che può tradursi in un’arma: si possono lasciare i commenti. E allora scatta la vendetta lessicale, sintattica e grammaticale: “Ma andate a fanculo siamo stanchi di mandare 3000 cv al giorno senza alcuna risposta”; “Minchiate, grosse. E togliete quei maledetti vecchi inefficienti che ormai hanno già dato;” “Per fare i postini per 3 miserabili mesi,vogliono diplomati con minimo 70.Ma andate a fare in culo,io ho preso 64 e nn mi sento inferiore ad uno che ha 70 di voto; “Io ho fatto la domanda 11 volte mai chiamato e vogliono diplomati minino con 70 e c'e gente nelle poste che non sa nemmeno quanto fa 2 +2 andate a cagare; “I requisiti sono altri devi essere figlia di chi già ci lavora devi essere un pò scema o imbecille o nipote del direttore magari è poi vedi che ti assumono senza neanche inviare il cv”. “Ma non ve la finite co sti cazzo di link??? Ke sono più falsi di quella gran puttana della vostra mamma!!!” E’ una reazione simile al terzo principio della dinamica: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; e se il lessico di chi offre lavoro si adatta ai tempi e diventa ermetico e ostacolante, quello del disoccupato fa altrettanto, a modo suo, e alla richiesta di “proattività” può anche scattare il liberatorio e inequivocabile “vaffanculo”. Arriva il fotografo per la foto di fine anno ed i bimbi vengono sistemati alla bell’e meglio per far sì che l’inquadratura abbracci tutta la classe. La maestra ha il vestitino elegante delle feste e forse è andata anche dal parrucchiere, perché sa che quell'immagine la renderà immortale nelle vite dei suoi piccoli alunni. Il bambino diversamente abile viene sistemato all’esterno. E’ un’appendice scomoda da mettere quanto più distante possibile dagli altri. La maestra non si accovaccia accanto a lui. Non invita i compagni a circondarlo in un simbolico abbraccio accogliente. Non dispone gli amichetti vicini. Il piccolo, dalla sua carrozzina, sorride compiaciuto di quel momento. Ignaro di tutto o forse no. Purtroppo non sa che la disabilità, quella vera, è di una maestra che non capisce. Ricomincio da tre l’ho visto troppe volte. Ne conosco i passaggi essenziali, le battute fulminee, gli sguardi di Gaetano /Troisi, quel suo napoletano incomprensibile e poeticamente illuminante, le battute, i silenzi, gli spazi fatti di piccole cose, quelle frasi divenuti proverbi, modi di dire: “Massimiliano, troppa libertà. Meglio Ugo, perchè con quel nome il bambino non fugge oppure, se non lo vogliamo far diventare troppo represso, lo chiameremo Ciro.” C’è quella Napoli che ho amato da sempre, nel teatro di Eduardo, nei vicoli di Spaccanapoli, nelle serate passate in una lunghissima estate del 1978 a Fuorigrotta dove imparai la bellezza di una città incredibile da amare e impossibile da odiare. Napoli ha gli occhi Massimo Troisi, la sua esilarante tristezza, un ossimoro perfetto. Massimo Troisi ci ha lasciato il 4 giugno del 1994. Aveva 41 anni. Ne avrebbe 61 e molte cose da raccontare. Ci ha lasciato camminando sulla terra molto leggero, con orme quasi impalpabili. Ci ha lasciato con pezzi memorabile che, almeno una volta al mese riguardo. Provo ad immaginare cosa sarebbe oggi Massimo, dentro questo mondo complicato più delle sue parole, in questa Napoli meno colorata e più arroccata dentro una tristezza dilagante. Mi chiedo sempre: ma perché uno si costruisce il suo Pantheon, perché ha l’atroce necessità di abbracciare persone mai viste e mai conosciute: un attore, uno scrittore, un musicista, un poeta. Perché insieme a loro si sta bene. Io, con Massimo Troisi, ci ho convissuto per anni e ancora bussa alla mia porta con quei suoi riccioli pasticciati, quelle frasi terribilmente incomprensibili, quella faccia dolce e intensa di Ricomincio da tre, di scusate il ritardo, di pensavo fosse amore, di Non ci resta che piangere, del Postino. Mi guarda sempre con quella buona dose di malinconia e con un lieve sorriso mi sussurra: “Ricordati che devi morire. ‘Mo me lo scrivo, Massimo. Mo me lo scrivo”. C’erano molte cose da raccontare in queste giornate livide ma stasera sto con Massimo. E con il suo pazzo e incandescente cuore. Ciao Massimo, non ci resta che ricordarti. Giulia ha 14 anni, è alta un metro e cinquanta e pesa cinquantotto chilogrammi. Non è grassa e non è magra. Le sue cosce sono tornite, non ciccione. Il suo ventre è morbido, non eccessivo e quando si siede un piccolo rotolino si adagia sulla cintura. La mamma, con l’arrivo del primo sole, ha fatto il cambio negli armadi: ha lavato, stirato e riposto nelle casse tutti gli indumenti invernali ed ha lavato, stirato e sistemato nei cassetti gli indumenti estivi dell’anno scorso. Giulia è rimasta incantata davanti alle sue t-shirt, che le hanno riportato alla mente uscite notturne con l’aria tiepida, e a quei pantaloni bianchi aderenti col sapore dell’estate. In un impeto di nostalgia li ha afferrati, è andata a misurarli davanti allo specchio. Troppo presto per indossarli, l’aria ancora frizzante di aprile non lo permette, ma ha un’incredibile voglia di vederseli addosso. Prova ad infilarli con l’ingordigia tutta adolescenziale di morsicare il tempo, ma quest’anno vanno stretti e faticano a salire sulle cosce. Quei pantaloni, ormai esageratamente attillati, non riesce ad abbottonarli. Giulia si guarda allo specchio e si sente enorme, osserva i glutei e vede un culone gigantesco: il suo cervello grida un pericolosissimo ALT. Giulia cambia la sua alimentazione, decide di eliminare i carboidrati e quando a tavola la mamma le porge il piatto di spaghetti, lei scuote la testa. Solo il secondo e tanta insalata. Pane, dolci, pasta sono ormai nemici da combattere a tutti i costi. Anche quando il sonno tarda ad arrivare, perché la pancia è vuota e gorgoglia fastidiosamente. I primi risultati si cominciano a vedere: quei pantaloni bianchi abbottonano comodamente adesso. Giulia è felice e tutte quelle faticose rinunce danno i loro frutti. Decide di calcare la mano, riduce ulteriormente le porzioni e va ogni giorno a fare jogging. Non le piace, è faticoso e le manca il fiato ma la gratificazione di quei pantaloni bianchi che vanno sempre più larghi è un incentivo strepitoso. Annulla la fatica e cancella il fiatone. Giulia pesa ora cinquantadue chilogrammi e non si accorge che sta esagerando. Il suo ciclo mestruale per un mese è saltato e lei sta perdendo molti capelli. Ma va bene così, è contenta per quei pantaloni bianchi che ora deve reggere con una cintura perché sennò le scivolano sulle caviglie. Continua a infliggere spietate sforbiciate al cibo, esclude completamente alcune tipologie di alimenti e applica tagli nelle porzioni anche di quelli che potrebbe mangiare a dismisura. Le sue guance si scavano e lo sguardo si spegne. Si accarezza le costole, che s’intravedono dalle magliette, e osserva ammirata le modelle sulle riviste. Quelle cosce che sembrano polsi, che nemmeno si sfiorano e restano distanti l’una dall’altra. Sogna di diventare così. Giulia pesa quarantasette chilogrammi e a vederla sembra reduce da una malattia. La voglia di torte e gelati è scemata. Solo talvolta alcuni sapori compaiono sotto forma di nostalgia, ma ora ha il pieno controllo del suo appetito. Ora non ha più appetito. Giulia è contenta, si sente indistruttibile perché ha la totale gestione della sua fame. L’anoressia è contenta, si sente indistruttibile perché ha la totale gestione delle sue vittime. Alle quali ora se n’è aggiunta un’altra: Giulia. Qual è il colore vero del buio? Una volta, un detenuto mi rispose: l’ergastolo è il giusto orizzonte al buio infinito, all’impossibilità di esistere. Probabilmente aveva ragione. Dunque, se fosse davvero così noi quel colore non lo conosciamo, lo possiamo soltanto immaginare. C’è poi un altra strada difficile e impervia, probabilmente ancora più buia: quella del 41 bis, quella del carcere duro, durissimo. Lentissimo. Gli attimi dentro quel budello non esistono e, a volte, non esistono neppure le ore, i giorni, gli anni. Sono solo supposizioni. Deve averla pensata in questo modo anche Antonio Iovine che da qualche giorno prova a collaborare con gli inquirenti, prova a camminare un po’ a tentoni in una strada ancora senza uscita. Non so cosa stia raccontando e non è questo il punto della mia riflessione: voglio solo provare a capire il colore del buio. Io quelle sezioni le conosco. Quelle di Fornelli, all’Asinara, oggi consegnate al parco e alla gente. Io le conosco bene perché ci ho lavorato in quel budello quando il sangue si raffermò, nel 1992, quando i pensieri furono solidi e gli occhi liquidi. Quando si cominciò a prevedere per chi si era reso protagonista delle varie mattanze il carcere duro, vero. Il buio. Quell’assenza di possibilità, quell’abbraccio asfissiante che toglie il respiro e prova a ridisegnare, in peggio, le esistenze di chi ha ucciso uomini, donne e bambini. Di chi ha calpestato la dignità di migliaia di persone. Loro il vero colore del buio lo hanno conosciuto. Li osservavo senza regalare parole. Capivo che per loro rappresentavo lo Stato, quello che avevano sfidato. Lo sapevo e capivo la difficoltà a stringere una mano, a dare una risposta, a dire, semplicemente: “me ne occupo”. Eppure lo facevo. Perchè credevo e credo che il colore del buio sia terribile. Occorre provare a segnare una strada diversa. Dopo quel non-colore, quell’orribile discesa nell’inferno dei vivi, dopo che i pensieri ti logorano negli anni, dopo i silenzi e gli sguardi che osservano solo una cella, provi a sederti sull’orlo della vita insieme alla tua coscienza e ti chiedi: che cosa c’è oltre il buio? Ecco, in quel momento è possibile provare a ripartire, bussare timidamente la porta di quello Stato che un giorno hai colpito barbaramente. Antonio Iovine ha cominciato questo percorso. Il 41 bis è dunque servito. Perché chi conosce il vero colore del buio non può dipingere il proprio futuro. Adesso, che il sole è tramontato è tempo di controllare le nostre ombre. Adesso, quando la polvere ha cominciato a sedimentare su quei corpi fermi, irrisoluti, inermi, è tempo di sedersi ed ascoltare il cuore. O quello che ne resta. Per quello che serve, per il futuro nebuloso e gonfio di lacrime nascoste, di pianti disperati. Adesso, con la coscienza ancora in disordine, possiamo sederci e provare a guardare. A razionalizzare tutte le fotografie mosse che ci hanno invaso in questi giorni gonfi di orrore. Siamo partiti da lontano, a dire il vero. Come sempre. Siamo partiti a disegnare ombre che non combaciavano con i nostri palazzi e le nostre storie. Mica si può aprire la porta, la nostra porta, all’orrore. Quello, di solito viene da lontano, sempre da lontana. Ed invece. Ecco. davanti a quelle bare mute, davanti agli occhi di tutti i tempiesi impotenti, davanti al Limbara, a quei monti scolpiti nel silenzio atavico dei millenni non riusciamo a dire, a sussurrare semplicemente: ed invece. Di questo si tratta. Le ombre erano i nostri alberi, le nostre radici e non sappiamo perché hanno potuto disarcionare le fondamenta della nostra casa. Tutto era perfetto, i sorrisi con le labbra giuste, i panorami sempre lucenti, le passeggiate a Rinaggiu, le risate in piazza Gallura. Ed invece. Provare a risalire sino alla sorgente di questo fiume perché è questo che dovremmo cominciare a fare. E non stare sempre seduti davanti alla larga foce, dove tutto passa e tutto si dipana. La sorgente è il punto di partenza. Ed invece si preferisce il delta, dove è difficile comprendere le molecole, dove tutto si mischia: dolce e salato. Noi speravamo di poter dire: questa strage non ci appartiene. Non è nostra. Ed invece. C’è il giorno dello sgomento e quello dell’attesa. Ci sarà spazio anche per la pietà. Ma quello è un altro giorno. Il respiro corto delle ultime ore ci ha portato a scovare strane verità. Un triplice omicidio compiuto da una sola persona con un movente ancora tutto da spiegare e da comprendere. Non erano malvagi venuti dal mondo dei cattivi e non erano neri o verdi e neppure cinesi. Erano occhi abituati alle nostre montagne, alle nostre strade, occhi che si abbeveravano delle stesse nostre storie. A quanto pare. Già, perché di questo si tratta: comporre e ricomporre attimi di follia e di terrore, comporre e ricomporre pensieri spacchettati, stritolati dal furore del momento, incapaci di bloccarsi, di fermarsi, di provare ad entrare in qualche binario arrugginito della memoria e fermarsi. Non lo ha fatto. Oppure non lo hanno fatto. Ho imparato, per mestiere, che la verità è terribilmente diversa dalla verità processuale e, a volte, ci fa comodo quella stereotipata, quella semplice: vittima-assassino. Ci crea una sorta di tranquillità apparente, ci consente di continuare a camminare quasi con leggerezza. Certo, avremmo preferito il cinese, l’extracomunitario, il continentale, uno che venisse da altrove e non qualcuno che raccoglieva quotidianamente i sorrisi del paese. Uno dei nostri. Siamo solo all’inizio di un percorso terribile. Siamo solo davanti piccoli e frammentari fatti e qualcuno si è già preso la briga di spiegare, analizzare, provare a comprendere. Fosse così facile da spiegare questa enormità. Fosse così semplice parlare a sangue ancora caldo, a sangue della nostra stirpe. Ecco, personalmente attendo di provare a comprendere. C’è qualcosa che non torna in questa storia nera come la notte di novembre. Non torna quell’ apparente normalità, non torna quella terribile cattiveria, non torna la solitudine di un ragazzo giovane schiacciato da un peso enorme. Non tornano molte cose e vorrei tornassero. Ma comprendo che anche oggi è il giorno dello sgomento. Arriverà quello dell’attesa e della pietà. E proveremo a dipanare quella nebbia scura che ha macinato i nostri sorrisi. Arriverà quel momento per comprendere tutte le urla della Guernica che ci ha devastato l’anima, quella guerra fatta in casa, nella nostra casa. Quel fuoco probabilmente una volta amico. Poi dobbiamo riuscire a dare un senso alle cose. Solo che non è semplice quando ti trovi davanti gli occhi di un bambino di dodici anni, chiusi per sempre. Come quelli di sua madre e di suo padre. Morti. Trucidati a colpi di spranga. Come leggere un libro di Stephen King. Dall’altra parte del mondo. In America, dove le stragi sono abbastanza frequenti, dovute al logorio della vita frenetica, al dover concludere tutto subito. Ma non in Sardegna, a Tempio Pausania, dove l’acqua cammina tra le rocce e i silenzi, il sole intiepidisce i monti e tutto sembra scorrere con la dolce lentezza della normalità. Ha bussato l’orrore alla nostra porta, ha massacrato un uomo, una donna e un bambino. Quando si uccidono i cuccioli significa che si è andati oltre il baratro, oltre la possibilità di poter riuscire a ritornare indietro. Dovremmo provare ad analizzare e non è semplice. Non intendo gettarmi nelle indagini, quelle lasciamole agli organi competenti. Non mi interessa scoprire la verità, la nuda realtà, le varie condanne e la giusta punizione per chi ha commesso questo orribile gesto. Non mi interessa in questo momento, almeno. Voglio comprendere il perché, qual’ è stato l’attimo che ha annerito la vista, che ha permesso ad una persona magari apparentemente normale, di uccidere un bambino, un cucciolo. Dicono l’usura, la disperazione, la solitudine. Dicono. Come se fosse facile davanti a quel sangue rappreso riuscire ad argomentare. E non lo è. Ma domandiamoci almeno che strade stiamo percorrendo e con chi: se ha un senso concedere la libertà di esprimersi in questo modo orribile, perché anche noi siamo diventati la periferia dell’Oklahoma, del Kentucky, del Texas. Perché non siamo riusciti a prevenire, a comprendere chi ci stava accanto, a sentire i suoi silenzi a comprendere i suoi sguardi prima che potesse distruggere tutto con i suoi gesti. Di questo occorrerebbe parlare. E non è facile. Ci vuole forza per provare a scavare nelle viscere dell’oscurità, in un buio inconsueto, che non ti aspetti. Ci vuole costanza nell’analizzare tutti i segmenti dell’apparente tranquillità, la misurazione naturale di una “normalità” che non ha, invece, sistemi esatti di comparazione. Ci flagelliamo nelle analisi sociologiche, tiriamo fuori dal nostro cilindro il meglio dei nostri studi, delle nostre ipotesi, delle nostre convinzioni, ma non serve assolutamente a niente. Non si può arare a nostro piacimento il terreno dell’incoscienza, delle passioni belle o terribili, delle pulsazioni inconsulte. Così non riusciamo a disegnare nessun tratto reale su quanto sia accaduto, davvero, quella sera, quella maledetta sera in cui un uomo, apparentemente uguale a tanti altri uomini, apparentemente gentile, premuroso, dolce, uno che saluta tutti togliendosi il cappello possa, con la stessa illogica “tranquillità”, assoldare una prostituta, seviziarla, ucciderla e tornare tranquillamente a casa. Dovremmo provare a trovare le parole, tentare di ricucire vestiti che non hanno orli, non hanno tasche, non hanno appigli. Ci vuole forza per definire il male, per riuscire a riconoscerlo. Ci vuole vigliaccheria ad essere il mostro della porta accanto, a tagliuzzare la memoria, le parole, a distruggere una vita e fuggire nel nero forte dell’oblìo. Ci vuole coraggio a osservare l’orizzonte con gli occhi verso i piedi e non dire nulla. Solo “ mi dispiace”. Ci vuole molta forza per raccogliere tutti i cassetti scompigliati di quest’uomo solitario e debole che ha varcato il buio della coscienza. Adesso è solo, davanti ad una porta terribilmente chiusa, profondamente chiusa, giustamente chiusa. Eppure dentro quel sottile angolo acuto dove i suoi delitti sono stati cacciati, ci sarà pure un modo per provare ad esplorare, capire e definire nuovi assetti affinché non si debba avere più paura della porta accanto. Sai Paola, qualche anno fa mi trovavo a Sassari in qualità di commissario esterno agli Esami di Stato e, durante la prima prova scritta, mentre i maturandi scrutavano con preoccupazione il loro foglio, chiacchieravo di alimentazione con una collega conosciuta lì. - Ma davvero? Anche tu sei vegetariana?? Che bello, anch’io! – mi aveva detto entusiasta. Dopo un paio d’ore avevamo ordinato i panini per il pranzo: - Per me con pomodoro e mozzarella – avevo affermato - Per me con prosciutto crudo e pomodoro – aveva detto lei Un po’ stupita le avevo chiesto: - ma non eri vegetariana? - - Eh, ma ogni tanto la carne la devo mangiare – aveva spiegato serafica. - Bellu cazzu 'e arréjnu! – Non gliel’avevo detto, ma lo avevo pensato. Quest’incipit, che sembra po’ astruso, alla fine avrà un senso. Ordunque Paola, ho seguito un po’ le tue ultime vicende e quando ieri, leggendo che recriminavi su quanto l’esibizione in bikini avesse centrato l’obiettivo di denunciare un sistema dell'informazione seriamente malato e di un paese profondamente sessista, ho pensato ancora una volta “Bellu cazzu 'e arréjnu!” Era necessario ricorrere a una foto in due pezzi, con punto focale sui glutei, per portare l’attenzione sulla lista Tsipras? Un po’ come se io andassi in classe e non facessi lezione o non assegnassi compiti per dimostrare che gli alunni sono svogliati. O un po’ come dire “certo che trombo, ma lo faccio in nome in nome della verginità”, no? - Bellu cazzu 'e arréjnu! – penseresti anche tu, ammettilo. Ovvio che non voglio paragonarti neanche lontanamente alla Minetti, ma per un attimo decontestualizziamo le singole azioni dalle rispettive, quanto diverse, vite e carriere: perché se l’igienista dentale si fa fotografare con addosso un ridottissimo costume è una poco di buono e se lo fai tu sei un’acuta e sottile provocatrice che ha raggiunto l’obiettivo? “Ho tentato in tutti i modi di guadagnare spazi mediatici per il nostro progetto politico, ma i media vengono agganciati solo da un bikini, perdendo completamente la testa. E' gravissimo.” Hai affermato indignata quando è scoppiato il polverone. Sai cosa io trovo sia gravissimo, invece Paola? Che una professionista come te, brava e competente come si dice in giro, soggiaccia alle dinamiche di una comunicazione malata e sessista che contestualmente denuncia. E la trovo anche cosa molto triste, a dire il vero. Paola, che un culo attirasse l’attenzione lo sapevamo già, era lapalissiano. E dopo un ventennio di Berlusconi, veline e Grande Fratello non avevamo certo bisogno di quest’ultima performance per verificare e confermare ancora i gusti dell’italiano medio. Ma se sei un’esperta, brava e competente come affermano, perché non hai frugato nel cilindro e tirato fuori una strategia ad effetto che non si adeguasse a quel codice mediatico che a parole disprezzi e che, invece, coi fatti assecondi e rafforzi? E’ evidente che disapprovo sentitamente gli insulti che ti hanno scagliato addosso, non hanno scusanti e ne prendo le distanze. Però continuo, parossisticamente, a leggere e rileggere le tue dichiarazioni sfiancandomi per trovare una motivazione un minimo razionale a giustificare ciò che hai fatto. E’ uno sforzo vano, Paola. - Bellu cazzu 'e arréjnu! – continuo a ripetermi scuotendo la testa. *Potevo accompagnare il mio post con una foto dei tuoi glutei, ma hai un bel viso e preferisco mostrarti così. E, contrariamente a quel che pensi, pazienza se mi perderò i lettori famelici di un culo. La parola di questi giorni è, indubbiamente, “trattativa”. Si è trattato con Genny ‘a carogna? E chi lo ha fatto? Con quale mandato politico? Tutto questo discutere e discettare mi ha portato indietro nel tempo: esattamente a trentasei anni fa. Proprio il 5 maggio del 1978 le trattative con le Brigate Rosse erano praticamente chiuse. Non ci credeva più nessuno. Probabilmente Craxi tentava di dialogare con frange estremiste di Potere Operaio e con Franco Piperno. Nulla più. Il comunicato numero nove, consegnato il cinque maggio 1978, parlava di “esecuzione della sentenza”. Eppure in quei cinquantacinque giorni si misurarono due grandissime scuole di pensiero: quelle favorevoli a trattare e quelle “conservatrici e irremovibili.” Non si tratta con il nemico e con gli assassini. Non si tratta con le brigate rosse. Questa visione ortodossa racchiudeva la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista italiano. Non tutti gli uomini di quei partiti a dire il vero. Per la trattativa, invece, c’erano quelli del “Manifesto” e molti socialisti. Eugenio Scalfari e la sua “Repubblica” erano assolutamente contro ogni possibilità di mediare e discutere con gli uomini delle brigate rosse. Io, nel 1978 avevo diciannove anni e, diciamolo, ero per la trattativa. Si parlava di salvare la vita di una persona e istintivamente avrei lottato per qualsiasi vita. Così come oggi. Facevo anche un ragionamento politico e, per quei tempi, squisitamente ideologico: avrei preferito Aldo Moro vivo. Sicuramente il corso degli eventi e della storia avrebbe intrapreso strade molto diverse. Oggi, però, la situazione è fondamentalmente diversa. Si doveva giocare una partita di calcio. Non c’erano vite da barattare, solo un pallone per provare a trascorrere un attimo di tranquillità. E poi, diciamocelo: Genny ‘a carogna non ha lo stesso peso politico delle brigate rosse. Nel senso di credibilità. le BR sono state sicuramente più feroci e, purtroppo, più coerenti. Questo ragazzo tatuato, gonfiato, abbronzato, con una maglietta oltraggiosa non era assolutamente credibile. Non si poteva trattare e non si doveva venire a patti per una partita di calcio. Invece, incredibilmente, “uomini degli apparati” (ma chi erano?) si sono avvicinati, hanno discusso, mediato, hanno trattato. Lui, dall’alto della sua posizione, fisicamente ma non intellettualmente apicale, ha speso poche parole e ha deciso che si, si poteva fare. Ha alzato il pollice in alto. “I like” e lo spettacolo è cominciato. E’ il segno dei tempi. Una volta si discuteva di trattare con uomini “assassini” e crudeli, uomini che avevano ingaggiato in nome di un popolo inesistente una battaglia contro lo Stato. Oggi si tratta con uomini “arroganti”, uomini che hanno come valore una battaglia contro se stessi e contro la loro terribile solitudine. Nel 1978, a diciannove anni ero per la trattativa, per salvare una vita umana. Oggi, davanti a Genny ‘a carogna, non riesco a trovare le giuste note su un pentagramma terribilmente stonato. Vorrei trattare per uno sport colorato, dove tutti siano avversari durante la competizione e incredibilmente uniti quando si sente il fischio finale. Vorrei poter dire che anche Genny, in fondo, ha le sue motivazioni. Che però non trovo. E che, sinceramente, non riesco a comprendere. Io non so se in tutte le professioni si registrino ingerenze esterne di persone che ti dicono ciò che dovresti fare, e come lo dovresti fare, quante se ne verificano nel mio lavoro di insegnante. Cioè, quando vado dal medico e lui mi prescrive antibiotici a base di amoxicillina, perché ritiene siano i più idonei per la mia patologia, non mi sogno nemmeno lontanamente di dirgli: - No, guardi, sarebbe preferibile la tetraciclina! - E stessa cosa vale per le consulenze dal meccanico, dall’avvocato, dal commercialista. Invece, provate a fare l’insegnante e una larga schiera di amici, genitori e conoscenti vi dispenserà suggerimenti su come dovreste operare in classe e di quali siano gli obiettivi da perseguire. Questo accade perché a scuola ci siamo andati tutti e tutti, sulla base della loro esperienza, si sentono di parlare con cognizione di causa. Spesso ignorando che la scuola attuale è assai diversa da quella frequentata da loro decine di anni prima. Entrate ora in una classe e mettevi a spiegare una lezione, asetticamente e sterilmente come si faceva allora. Probabilmente anche il più secchione e volenteroso degli alunni comincerà a giocare col cellulare. Vai a far capire a tutti i docenti "fai da te" che già varcando la porta dell’aula devi avere ben organizzata nella tua mente una marea di attività accattivanti che siano invitanti anche per i più svogliati. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che la tua platea avrà differenti modalità di apprendimento. Che ci sono gli uditivi, i visivi e i cinestetici. E che se tu parli e basta ti seguono solo i primi e ti perdi l’attenzione degli altri due gruppi. Che gli uditivi possono anche disegnare mentre tu spieghi e, anzi, ciò agevolerà l’ascolto. E, invece, c’è chi scioccamente dice: “smetti di scrivere e segui”, ignorando che quel ragazzino mentre scrive sta proprio assecondando la sua modalità di apprendimento. E se non accompagni la spiegazione con uno schema alla lavagna ti perdi tutta l’attenzione dei “Visivi” o prova a dire a un cinestesico “Stai composto” e quello lì troverà talmente faticoso dover sottostare ad una postura scomoda che ascoltare la lezione sarà l’ultimo suo pensiero. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che a Luigi e Francesco non puoi chiedere di leggere un brano dal libro perché sono dislessici ed hanno difficoltà insormontabili nella lettura. E non puoi umiliarli e dare in pasto i loro ostacoli al gruppo classe. E quando Giovanni ti dice - Professore’, fa leggere sempre me – devi trovare velocemente una scusa plausibile che giustifichi la tua scelta, senza intaccare la dignità degli altri. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che, dopo l’iniziale verifica delle competenze, devi trovare un compromesso tra i programmi ministeriali e le voragini di lacune emerse dalle prove di accertamento. E che sarebbe da kamikaze spiegare la Divina Commedia in una classe dove la metà degli alunni ha grosse difficoltà anche nella semplice comprensione di un testo narrativo. E tu ti chiedi, che faccio? Cerco prima di colmare le lacune e poi spero resti tempo per fare almeno un paio di canti dell’Inferno o azzardi e provi ad analizzare qualche canto cercando, contestualmente, di colmare le lacune? Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che ti scontrerai con dei casi umani che alle spalle non hanno famiglie, bensì macerie. Che ci sono quelli che hanno i genitori che si lanciano i piatti davanti a loro, quelli che vivono solo con la mamma e non vedono il padre da sempre, quelli che sono affidati ai Servizi Sociali perché la patria potestà è stata revocata ai genitori naturali. Che quelli lì, poverini, la voglia e la serenità per studiare non ce l’hanno. E spesso nemmeno quella per seguire la lezione. Che quelli lì, solitamente stanno in disparte e in silenzio e quando, finalmente, li vedi chiacchierare col compagno di banco durante la lezione, ti guardi bene dal dirgli “Stai attento!” e semmai benedici quel piccolo attimo di sfogo. Ma poi, quando Matteo ti dice: “Professore’, Maria sta chiacchierando e lei non la riprende, sgrida sempre me” tu devi anche frugare in tasca e cercare alla svelta giustificazione credibile, sebbene lontana anni luce da quella reale. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che quando spieghi un argomento nuovo ci sarà un ristretto gruppo che capirà e interiorizzerà immediatamente, ma un altro numeroso gruppo avrà bisogno di una spiegazione supplementare. E allora i primi, quelli che avevano capito al volo, si annoieranno e tu non puoi permettere che questo accada. E allora devi scovare in fretta e furia qualche esercizio di consolidamento per quelli lì, mentre tu prendi per mano quegli altri e li guidi con maggior cura dentro l’argomento. Trovando una metodologia diversa, peraltro, ché se glielo rispieghi alla stessa maniera è perfettamente inutile: non avevano capito prima, non capiranno nemmeno stavolta. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che non è necessario insegnare l’opera omnia di Dante per costruire degli adulti competenti, ché ad un test attitudinale per trovare un lavoro Dante non te lo chiederanno mai. E non ha una grande importanza sapere a memoria “Tanto gentile e tanto onesta pare”, quanto semmai conoscere la struttura e saper riconoscere metrica e figure retoriche. Ché se tu insegni le regole della guida, poi quelli lì avranno le competenze per guidare qualsiasi mezzo. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che tutte le nozioni relative alle diverse discipline devono essere infarcite di obiettivi educativi. Ché noi docenti, chi con più passione chi con meno, siamo consapevoli di operare con materiale umano e che, talvolta, è necessario rimandare l’insegnamento del congiuntivo e privilegiare quello del rispetto, dell’educazione al ragionamento, lo sviluppo dello spirito critico, del senso di responsabilità e di preparazione alla vita civica. Vai a fare capire a chi da decenni non mette piede in una classe che questo è lo scenario all’interno del quale dovremmo insegnare I Promessi Sposi. Non è facile dividere i buoni dai cattivi. Non è come i colori. Anzi, neppure con i colori è facile. Perché bisogna tenere conto delle sfumature. Con gli uomini subentra la cultura, la storia, i momenti, i contesti, il punto di vista, le scelte ideologiche. Quello che una volta era considerato un buono diveniva ad un’analisi più attenta il cattivo da perseguitare. Interi popoli hanno subito l’onta della vendetta. Solo per il colore della pelle, per la religione, per le idee. Visto da Caifa Gesù era un pericoloso rivoluzionario che attentava alla religione di quel tempo. Difficile scegliere. Oggi siamo portati (sbagliando perché non si può semplificare in questo modo) a dividere i buoni dai cattivi in base alle categorie. E’ la moda quotidiana. Sei buono o cattivo in base all’appartenenza. Nascono, dunque, persone da condannare o da assolvere a tutti i costi. I magistrati, per esempio. Per alcuni sono antropologicamente malvagi e per altri rappresentano invece la salvezza dello Stato. Gli scrittori sono solitamente annoverati tra i buoni, ma quelli che scrivono libri contro una categoria diventano subito untorelli da eliminare. La categoria dei carabinieri è vista di buon grado da tutti. Rappresenta un vanto per lo Stato. I carabinieri sono seri, attenti, servitori dello Stato. Ed è vero. Ma non sempre. Così come i poliziotti. O i politici. Non possiamo dividere il mondo in base ad un mestiere o una presa di posizione o un fatto che commette qualcuno – e quindi assolutamente personale – e lo dividiamo equamente per tutti: i politici sono tutti ladri. Sappiamo che questo non è vero. Non conosciamo quanto siano i politici, quanti siano quelli condannati e quanti realmente rubino. Ma è facile dire tutti, ma proprio tutti sono ladri. Come tutti gli statali sono fannulloni e tutti i poliziotti picchiano. Non è vero. La verità è sempre molto complessa e non è necessariamente dalla propria parte: sono gli altri a rubare. Noi no. Peccato che se continuiamo ad usare la locuzione “i politici sono tutti ladri” comprendiamo nei ladri anche quelli “della nostra parte”. La polemica scaturita in questi giorni sulla polizia di stato ci deve far riflettere sul non dare giudizi affrettati riferibili alla categoria. Non è vero che i poliziotti sono tutti picchiatori, corrotti, senza nessun senso dello Stato. E’ una grandissima volgarità oltre che una penosa bugia. Il problema è legato ormai al nostro modo di ragionare e vedere le cose senza soffermarci. Non tutti i professori ce l’hanno con i nostri figli (semmai dovremmo cominciare ad analizzare meglio la vita dei nostri adolescenti) non tutti i politici rubano, i poliziotti massacrano, i dirigenti corrompono. Però ci sono professori, politici, giornalisti, carabinieri, poliziotti che commettono atti illeciti. Sono quelli iscritti alla categoria dei buoni ma che, in realtà sono cattivi. E la categoria non li può salvare. Impariamo a distinguere ed analizzare con più determinazione. Scopriremo, per esempio, che vi sono dei giornalisti che scrivono cose non vere ma ci sono giornalisti che sono stati uccisi dalla camorra e dalla mafia, così come i poliziotti morti per garantire la nostra sicurezza, magistrati massacrati ed altri corrotti da furbi avvocati. I buoni e i cattivi hanno molte sfumature. Si annidano da tutte le parti. Anche tra gli apostoli. Se provassimo a giudicare solo ed esclusivamente in base alle categorie scopriremmo che dietro le cortecce del populismo, dietro le frasi semplicistiche “sono tutti uguali” ci sono gli uomini, con le contraddizioni e gli errori propri dell’essere umano. Si tratta di non difenderli solo perché appartengono alla “nostra categoria” anche perché, ricordiamocelo, potrebbero abbandonare quel mestiere e quel partito, così come potremmo farlo anche noi e ci troveremmo, di colpo nella parte sbagliata della lavagna: quella dei cattivi, solo perché a chi segnava il nome gli stavamo antipatici. Abituiamoci a difendere o condannare gli uomini, non ciò che rappresentano. Ci furono altri che decisero di uccidere magistrati e politici o giornalisti perché rappresentavano un simbolo: erano le brigate rosse e, sinceramente, non mi sembra una bella storia. da condividere. Antonio Gramsci è morto non molto tempo fa, il 27 aprile del 1937, dopo undici anni di prigione, in Italia. Ho in mano il testo di antropologia degli americani Schulz e Lavenda, un classico studiato in tutte le facoltà del mondo. Parlano del concetto di “egemonia” di Gramsci. Pensate, uno dei più grandi pensatori del nostro secolo, ancora oggi letto e studiato in tutti il mondo, in tutte le facoltà universitarie e in diversi ambiti disciplinari, dall’antropologia alla filosofia alla politologia, che abbiamo fatto morire in carcere dopo undici anni di prigionia. Ucciso lentamente e senza nessuna pietà né per l’uomo né per il pensatore. Ucciso in periodo di pace, durante il ventennio fascista. Una cosa di una enormità esagerata. Questo succedeva in quel ventennio, e oggi non ci si deve meravigliare se la cultura della democrazia e della libertà si fonda in opposizione a quel triste periodo storico. Più ci si allontana da una idea di opposizione a quel periodo, più ci allontaniamo da una idea di democrazia, armonia civile, sviluppo sociale equilibrato. Alla faccia di qualunque revisionismo furbo, di maniera e di comodo. Nel frattempo, in Italia sono stati santificati due Papi, protagonisti del nostro secolo. Soprattutto la santificazione di Wojtyla, a causa soprattutto della sua contiguità con il crudele regime fascista cileno di Pinochet, è stata discussa e ha sollevato alcune perplessità. Penso che ciascuno di noi abbia i propri riferimenti spirituali e morali, e io non mi sento di sottrarre a nessuno il proprio. Se la comunità dei cattolici ritiene Wojtyla un santo, a me sta bene. Da sardo, da laico, da democratico, da universalista, da amante della scienza e dell’armonia tra i popoli e le genti, mi tengo stretto, come riferimento morale e spirituale, il pensatore che da sardo non ha mai rinnegato la sua sardità, anzi ne ha fatto un valore, e che è stato sacrificato, quasi crocifisso, con una agonia infinita, dentro le patrie galere, combattendo ostinatamente, con la potentissima forza del pensiero, per la libertà e per i lavoratori, per le classi meno agiate e indifese, fino alla morte, senza mai rinnegare niente. Però di una cosa sono convinto. Che noi, ancora oggi, un grande debito abbiamo nei confronti di quell’omino ingobbito che è marcito scrivendo quaderni in carcere. Molto dobbiamo a quella solitudine e a quell’intelligenza, non solo delle cose che possiamo dire in libertà, ma anche del piatto di minestra che, nonostante tutto, ci ritroviamo caldo sul nostro desco. Ma la memoria degli uomini non sempre è riconoscente, e percorre altre e più facili strade. A ciascuno, dunque, il suo santo. Lo scrivo senza ironia. Non so se sia per via di qualche “deformazione” congenita della mia forma-mentis oppure per via di ciò che essa ha raccolto e catalogato, sotto forma di “esperienza”, per essere così com'è. Fatto sta che a me l'ordine troppo ordinato, le cose o persone messe in fila in modo geometrico e seguendo degli schemi dei quali non ne comprendo la funzione, ha da sempre dato un enorme fastidio. Così è per la campagna, quella tutta perfetta, dove non cresce un arbusto o una pianta senza che la mano di uomo non ne diriga il verso e la forma, dove l'erba viene rasata tutta allo stesso livello ed i solchi sembrano tracciati con la riga. Così, piano piano e da totale autodidatta, mi sono documentato sui vari tipi di erba e di coltivazioni, arrivando sino al punto di decespugliare ogni anno, anche più d'una volta, risparmiando quelle che ritengo si “erbe selvatiche”, ma non di certo “infestanti”. Le prime che risparmiai sin dalla prima volta, furono le piccole orchidee selvatiche che nel mio terreno crescono ancora copiose e i ramoscelli di menta selvatica, il cui profumo mi colpì subito non appena fui io, a colpirle con quel devastante filo di nylon. Poi imparai a conoscerne altre e risparmiare anche quelle, permettendo così la loro naturale re-inseminazione nel terreno. La borragine, nutrimento essenziale e vitale per le api del mio vicino (ma anche per le monzette di nuova leva e le tartarughe), che non mancano mai di visitarmi; la “meliagra”, la porcellana e l'erba cipollina, l'alloro ed il lentisco, l'olivastro o la sorba. Nell'orto poi, lo sbizzarrimento era totale. I filari di pomodori o di fave non erano mai dritti, ma li disponevo semmai a seconda dei venti dominanti e dell'ombra disponibile sotto gli ulivi, così per tutto il resto degli ortaggi ai quali ho sempre dedicato poche cure, totalmente biologiche e poco invasive. Una cultura contadina totalmente “personalizzata” che chi veniva a visitarmi si sentiva in diritto di criticare, sorrisini beffardi e giudizi devastanti tipo “ma perché non lasci perdere, non fa per te!”. Salvo poi cambiare opinione quando si rendevano conto che le mie fave, i miei pomodori e le mie verdure avevano un sapore ed un gusto decisamente superiore a quanto coltivavano loro nelle simmetriche file piantonate da sostegni di ogni genere, dal ferro arrugginito sino alla plastica più invadente in plotoni ordinati quanto innaturali per me. Io utilizzo, quando lo utilizzo, il bambù. Altrimenti lascio che la pianta si rinforzi e sorregga da sé. Capirete quindi la mia gioia, oggi, nel sentire parlare sempre più spesso di “orto sinergico” e di quanto tutto quel disordine ordinato a cui ho sempre dato attenzione e quella dose di selvaticità garantita alle piante potessero essere alla fine un sistema vincente, salvifico in molti casi. Ancora più felice nel leggere questo: «L'Agricoltura Sinergica è un metodo di coltivazione elaborato dall'agricoltrice spagnola Emilia Hazelip. Si basa sul principio, ampiamente dimostrato dai più aggiornati studi microbiologici, che, mentre la terra fa crescere le piante, le piante creano suolo fertile attraverso i propri "essudati radicali", i residui organici che lasciano e la loro attività chimica, insieme a microrganismi, batteri, funghi e lombrichi. I prodotti ottenuti con questa pratica hanno una diversa qualità, un diverso sapore, una diversa energia e una maggiore resistenza agli agenti che portano malattie; attraverso questo modo di coltivare viene restituito alla terra, in termini energetici, più di quanto si prende, promuovendo i meccanismi di autofertilità del suolo e facendo dell'agricoltura un'attività umana sostenibile.» (http://agrisinergica.altervista.org/) Regole che nessuno, oltre alla Natura stessa, mi ha insegnato e che sto applicando -con le dovute molle e cautele- anche ai rapporti umani con, devo ammettere, degli ottimi esiti. Buona Felicità Disordinata a tutt*, piante, elementi ed animali* compresi. Da piccoli, almeno ai miei tempi, i giochi erano circoscritti e limitati alle poche cose che in quel tempo si possedeva: pallone, palline, tappi di bottiglia, figurine, gessetti, plastilina, corde varie e molta fantasia. Un giorno eravamo pirati ed un altro cow boy o principesse o maghe o sacerdotesse. Si costruivano storie, si disegnavano scenari e trascorrevano le serate in attesa della fantomatica “tivù dei ragazzi” pronta a rimettere tutto in ordine e regalare altri attimi di fantasia. Ecco, ai miei tempi, c’eravamo inventati, per gioco, un mondo parallelo dove non esistevano i cattivi, dove tutti dovevano contribuire al bene comune e dove nessuno poteva litigare. Pena l’esclusione da quel mondo. L’avevamo chiamato il pianeta degli amici della terra perché ritenevamo che il suolo calpestato, gli alberi, i fiumi, le montagne, fossero di nostra proprietà e anche noi, come dicevano i vecchi Apaches, facevamo parte della terra. Figli della terra, quindi figli di Gaia. Avevamo dodici anni e molte lentiggini e brufoli di contorno ai nostri sogni. E avevamo diritto a disegnare quello strano mondo. Leggendo la notizia, davvero singolare, dell’imprenditore a cui hanno sequestrato, a Sassari, l’auto con targa contraffatta, come il tagliando dell’assicurazione e il passaporto, tutti intestati al fantomatico Regno sovrano di Gaia ho pensato, per un attimo, fosse uno dei miei vecchi amici che aveva realizzato il sogno: quello di regalare alla fantasia i colori della realtà. Ho anche pensato ad uno scherzo di buontemponi: la targa era davvero apprezzabile per la sua fattura. Invece, a quanto pare, gli appartenenti al Regno esistono davvero e non sono tenuti a rispettare le leggi dello Stato italiano, in quanto essi sono sovrani di loro stessi. Per sancire questo distacco, a quanto pare, compilano un documento da inviare al Presidente della Repubblica (che non riconoscono). In questo documento ci sono delle dichiarazioni davvero incomprensibili e legate a crediti che ognuno di noi, all’atto della nascita dovrebbe ottenere dallo Stato. Ecco perché, secondo i sudditi di Gaia niente è dovuto allo Stato Italia. Se non è goliardia non è, perlomeno nelle spiegazioni, alta finanza o analisi sociologica. Dunque è una scelta di persone capaci di intendere e di volere che si autoproclamano sudditi di un regno per il quale tutto è bellissimo, tutto è semplice e dove tutto funziona perfettamente. Mi verrebbe da chiedere ai felici appartenenti al regno di Gaia come sono gli ospedali dalle loro parti, come si vota, ci saranno le primarie, oppure tutto è lasciato all’autodeterminazione dei popoli? E la benzina quanto cosa? Pagheranno le accise nel regno di Gaia? E che lingua si parla in questo Regno, apparentemente senza confini? Quale scuola, quale università, quale arte si dipana nel loro mondo? Perché, in fondo, siamo tutti minimalisti e pragmatici. Non grandi portatori di filosofia e neppure profondi conoscitori di economia, politica o fisica e chimica. No, per fare un mondo, per creare l’algoritmo di uno Stato basta un passaporto, una targa e un’assicurazione che non esiste. Come il famoso “non compleanno” di Alice nel paese delle meraviglie. Una visione onirica della vita. E se il nostro suddito di Gaia avesse investito un pedone sulle strisce pedonali come si risolveva la questione? Non avrebbe riconosciuto le strisce italiane? Se non si pagano le tasse nessuno contribuirà ai servizi perché, molto probabilmente, quei servizi sono garantiti da altri: come per esempio il comune di Sassari. Dove il suddito di Gaia manda suo figlio a scuola, ha il medico di fiducia, getta il sacchetto della spazzatura nel cassonetto della sua via, utilizza gli ospedali e gli asili nido, l’asfalto dove la sua auto cammina, le rotonde, i semafori, i musei senza voler contribuire minimamente allo Stato che non riconosce. Il buon suddito di Gaia non è, come sembra, un buontempone, un personaggio in cerca d’autore. E’ una piccola sanguisuga che, anziché rispettare le regole minime della comunità in cui vive, tenta di inventarsi mondi paralleli e virtuali. Una volta, da giovani, giocavamo per ore, fino a stancarci. Ma avevamo capito le regole e il senso del gioco. E che cosa fosse la realtà. Una amica mi chiede di verificare questa notizia: se è vero che lo Stato dà agli immigrati 40 euro al giorno. Mi linka l’articolo di un giornale locale online del Nord Italia. “Più soldi agli immigrati sani che agli invalidi”. E’ il titolo dell’articolo. Un accozzaglia miserabile di ragionamenti illogici, falsi e tendenziosi. Tutto il giornale è infarcito di articoli di cronaca ove gli immigrati sono protagonisti negativi. Forse è un giornale dell’area leghista, forse è solo un giornale volutamente razzista. Spazzatura.
Il razzismo tira, meglio se è spazzatura. Ho riflettuto sull’enorme successo che hanno le patacche contro gli immigrati su internet. Il web usato come una immensa discarica. Spot che dipingono gli immigrati come nababbi mantenuti, strapagati dallo Stato. Idiozie belle e buone. Bufale clamorose che vengono bevute ingenuamente e condivise compulsivamente. La disgraziata, irragionevole, criminale legge Bossi-Fini, per questi qua, non è mai esistita. L’immigrato nababbo è certamente l’argomento patacca più condiviso su internet, che dimostra come vi sia una pulsione, inconsapevole, che spesso la cultura non riesce a controllare, di odio e paura nei confronti degli immigrati. Una paura che viene poi, furbescamente, strumentalizzata politicamente. Gestire l’immigrazione è una cosa seria, un enorme problema con implicazioni umane, sociali, economiche, logistiche. Eppure viene trattata così, con pura cialtroneria e demagogia, anche dalla politica. Anche da quella politica che dovrebbe essere “nuova”. “Vorrei rispondere alla persona che mi ha mandato questo link”, mi fa questa amica. Che vuoi rispondere, gli dico io, se uno prende per oro colato un sito manifestamente razzista, non ci puoi far nulla. Lascia perdere. Non si può arginare tutto questo mare di spazzatura. Z I silenzi nel pentagramma della vita E’ difficile raccontare le tragedie, provare a osservare gli occhi lacerati di chi, in un attimo, ha commesso un omicidio. Con le proprie mani. E’ difficile riuscire a sovrapporre le parole al sangue e allo sgomento di chi ha colpito e poi colpito e poi ha urlato e ha evirato le anime di tre bambine. Con le proprie mani. Mani di una madre. Mani che sino al giorno prima avevano pettinato i capelli e preparato la colazione e lavato i piatti e rimboccato le coperte e avevano accompagnato le proprie figlie a scuola, tenendole per mano. Edlira Dobrushi, la madre di trentasette anni di origine albanese che ai carabinieri di Lecco ha confessato di aver ucciso tre figlie, tre bambine, aveva mani sporche di sangue. Sangue del suo ventre. Sangue di Simona, Casey e della piccola Sindey. E’ difficile mettersi alla finestra di questa immane tragedia, di questo sacrificio assurdo, inconcepibile. Sono i rumori del silenzio che, a volte, non sentiamo. Perché per noi i nostri vicini sono tutti “normali”. A meno che non urlino o litigano o i figli sono maleducati o sono divorziati. Quando le parole non ci sono, quando non sentiamo il rumore, non riusciamo mai a soppesare il peso degli sguardi, non riusciamo a codificare quello che gli occhi raccontano, quale vita sbiadita si nasconde dietro le loro esistenze. Ed è la fragilità, la paura di non farcela, la vergogna, l’essere additati come diversi, che fanno stringere quelle mani sino a farle diventare pugni difficili da sciogliere. E’ la nostra velocità nel continuare, nel non doversi mai fermare e riflettere che ci porta poi a porci le domande e chiederci il perché. E non sapere le risposte. Tutto l’orrore dietro quelle mani che hanno lacerato, inseguito e ucciso. Mani sottili, adatte a raccogliere piccoli oggetti da accarezzare. Mani rapprese e stanche, accovacciate nel ventre malato, mani una volta calde che sapevano accarezzare e circoscrivere le sensazioni. Quelle mani hanno agito, hanno colpito e ucciso e poi si sono guardate. Mani atrofizzate dalla realtà che le ha divorate. Adesso è scaduto il tempo. Mani ferme e nervose che non riescono a spiegare e occhi senza luce e senza orizzonte a stagliare il baratro che si ritrovano davanti. Ho sentito negli anni i racconti di molti uomini che, con le loro mani, avevano ucciso. Per rabbia, per vendetta, per la ricerca di una libertà, per una sciocchezza. Mani sempre lente a stringere altre mani, sempre molto poco disponibili a spiegare. Ho ascoltato. Ho provato a capire i gesti, gli attimi che portano quella mano ad agire, l’impulso razionale che muove quelle dita, quei muscoli. Ma non ci sono riuscito. Perché non sono le mani a dettare i sospiri della vita. Dobbiamo ripartire dalle storie e provare a miscelarle con gli eventi. Quante parole non dette nella vita di Edlira, quante cose che qualcuno adesso racconterà nelle tante “vite in diretta” di questo mondo acquario. Tutti a guardare quelle mani e a piangere per il gesto. Ci sarà il criminologo, lo psicologo, il vicino di casa, l’amica del quartiere. Parole che servono, in fondo, per riempire il vuoto delle nostre coscienze. Edlira, da oggi, sarà sola a contemplare le sue mani e a ripetere per milioni di volte tutti i gesti. E’ difficile raccontare le tragedie soprattutto quando queste superano – e di gran lunga – le trame dei romanzi. Perché anche gli scrittori, come tutti, sono abituati a far muovere i loro personaggi in un mondo semplice, dove tutti parlano e discutono e comprendono. Nei romanzi non ci sono mai spazi vuoti. Chi scrive non se lo può permettere. Eppure, davanti a questa storia che ci centrifuga l’anima, dovremmo lasciare una pagina bianca a rimarcare la sospensione degli attimi. Sono morte tre bambine. Ed è morta anche Edlira, scaraventata in un nuovo inferno dove non riuscirà a rianimare i propri desideri e le paure e il terrore che l’ha accompagnata ad utilizzare quelle mani per stringere una lama. Fredda e terrificante. Quelle mani, nella segretezza degli eventi, hanno colpito tutti, perché nessuno, ormai, riesce più a leggere i silenzi nel pentagramma della vita. Viene da chiederselo, almeno dovrebbe venire da chiederselo, un po' a tutti noi, com'è che facciano persone di così dubbia levatura a raggiungere posizioni e ruoli così "alti", autorevoli. Le risposte sono tante e tutte gravitano intorno alle nostre ataviche e ben radicate, quanto venefiche, abitudini. Che sono poi la sostanza e la forma del "costume" di un paese, dei suoi abitanti. Abitudini che ci siamo abituati a prendere senza pensarci su tanto, abitudini che abbiamo assorbito quando le stalle erano piene e le vacche erano grasse, quando nessuno si lamentava del continuo trasgredire alle regole e alla civile morale, perché in molti ne traevano tornaconto. Nessuno si lamentava per le "pensioni baby" o "gold", tutti supini e zitti, quando in fila ti passava davanti il raccomandato di turno, invece di inveirgli contro si è corsi a cercare la "raccomandazione", a legare il proprio destino a quello di un improbabile politicante, improbabile proprio perché prometteva ed elargiva "raccomandazioni" anche se in forma inversamente proporzionale (più promesse = meno elargizioni). "Politicante" perchè, anche ai livelli più bassi, c'è più affarismo e commercio che politica, nei consessi istituzionali. Prova ne siano le continue incursioni delle magistrature in uffici e abitazioni di questi "improbabili". Prova ne sia lo stato del paese, del suo tessuto produttivo e culturale, dei suoi sistemi nell'insieme, sanità, istruzione, giustizia e conti pubblici. Ci siamo abituati - non uso il "ci hanno" perché ritengo chiunque possegga un cervello abbia di fatto anche la capacità di scindere- a troppe cose che sarebbe invece stato meglio evitare, ma la frittata è fatta. Il "neoliberismo" alla fine ha convinto tutti, con i suoi effetti speciali visivi, sonori e subliminali, siamo arrivati ad un punto in cui eravamo tutti convinti che si potesse essere tutti furbi, contemporaneamente, salvo poi rendersi conto ogni giorno di più di quanto siamo stati stolti, ingenui e, chi più chi meno, truffati un'altra volta ed in buona parte da noi stessi, perché complici. I risultati di cotante abitudini li vedi oggi sul viso delle persone, che ridono sempre meno, sempre meno spensierate. Li vedi nell'incapacità di gestire i nostri scarti e rifiuti ed in quella di capire cosa stia accadendo sul serio al mondo, lo vedi nello stato dei centri abitati e delle campagne, vittime illustri delle nostre abitudini, o meglio, di tutto quello che ci siamo abituati a sacrificare per "non vivere". Ed io, francamente, tutta questa "bellezza" in tutto questo, davvero non riesco a vedercela. Sono appena rientrato da Roma. La mia Roma ha sempre diversi sentieri e diverse musiche che le girano intorno: da Piazza Navona a Primavalle, tra via Fani e via Caetani, dalla fermata del 46 barrato e quegli sprazzi di vita tra la Garbatella e i Fori Imperiali. Perché Roma è così: tua. Ma non proprio. E non sempre. E, in questi giorni, è avvolta da una strana bellezza: amante e nemica, solitaria e triste, pronta alle lacrime. Quelle del tassista che non si lamenta più del traffico, ma tra un semaforo e l’altro mi racconta di suo figlio e dell’impossibilità di trovargli un lavoro. Non tanto il posto fisso agognato da quel borghese piccolo piccolo di Alberto Sordi. Ma almeno un attimo di dignità. Quando lo saluto mi ringrazia della chiacchierata e mi dice una cosa apparentemente insignificante: “me auguro che vince ‘a granne bellezza”. Gli chiedo il perché e lui, con un sorriso lento e solitario come questa città, risponde : “armeno se parla de Roma, ormai qua i romani nun ce stanno più”. E, pensando al film di Sorrentino ho deciso di camminare nel silenzio di Via Margutta, ad imprimere i colori e i suoni di quella strada apparentemente fuori dal mondo. Non ci passa più nessuno. Solo qualche piccolo negozio, un bar e un ristorante. Nient’altro. I romani “nun ce stanno più”. A Piazza Vittorio i negozi sono tutti dei cinesi. A Trastevere, nei ristoranti, mi accolgono gli indiani, i rumeni, sorrisi aperti e disponibili. Ma non è Roma. Quella mia Roma, ridondante e forte, un po’ eccessiva e un po’ puttana. Ma vera. Quella Roma papalina, ansimante tra i rumori e i silenzi di una politica avvolta da matasse indescrivibile di parole. Passare a Botteghe Oscure o Piazza del Gesù e non vedere nessuno che si sofferma, nessuno che ricorda, nessuno che comprenda. La Roma dei palazzi. Quella grigia e materialista intrisa nell’incenso e nell’arte. Roma abbandonata e quasi dimenticata. Spolpata degli affetti, amante dimenticata. Ho percorso il Tevere osservando il muoversi dell’acqua. Non riesce ad andare “lento lento”. Ha un altro movimento. Che non mi appartiene. E scompare, tra i ricordi, l’isola Tiberina, il ghetto degli ebrei, i luoghi dolci e sommessi. I miei luoghi. Dove vedevo Ottiero Ottieri, Pasolini, dove sorridevo all’idea del picche nicche di Moravia, a Carlo Verdone, a Montesano, a Mastroianni, a Fellini. A quella strana e immensa bellezza di una città madre e mai matrigna. Alla quale tutto si perdona. Sono passato per via del Corso e ho approfittato per vedere la mostra di Modigliani e i suoi pittori, amici maledetti. I suoi quadri immensi e incommensurabili, quelle donne dal collo lungo e senza occhi. Come Roma. Che osserva e non ti guarda, ti abbraccia e non ti sente, ti ama e non ti ascolta. Una strana e stridente bellezza. La mia Roma. Tra Fontana di Trevi e pineta Sacchetti ad aspettare un autobus che non passa. A guardare gli occhi di questa città e vederci il mare. Questo, tra le calde lacrime perdute, è quello che dolcemente appare. Roma. La grande bellezza. Non è mai troppo tardi. Ho scoperto che stasera, in televisione, ci sarà una fiction su Alberto Manzi, il maestro di “non è mai troppo tardi”. Ero piccolo, avevo l’età giusta per ascoltare quello strano maestro, così diverso e così lontano. Mi piaceva come disegnava. La mia maestra, per esempio, faceva solo cerchi storti che una volta chiamava arance o mandarini o lumache o ruote, a seconda della lettera da imparare. Ma erano sempre uguali. Alberto Manzi, invece, scriveva e disegnava con quella calligrafia da “bella copia”. Io restavo ad osservarlo e sorridevo davanti a mio nonno che, invece era interessato solo a Mina o alle gemelle Kessler e per lui “non è mai troppo tardi” non era interessante. Coerentemente analfabeta conosceva tutte le poesie e le battorine in sardo-logudorese a memoria. A mio nonno questo bastava. Quel maestro in bianco e nero rappresentava per me il doposcuola, quello che una volta si chiamava “Cres”, acronimo di qualcosa che non ho mai compreso. Andare al cres significava giocare con la plastilina e stare insieme ai compagni. Era la fine degli anni sessanta. Avevo le figurine Panini in tasca, Alberto Manzi come maestro ideale e le puntate dell’Odissea come capolavoro cinematografico: lo sceneggiato della domenica. Erano anni in cui si poteva stare per strada l’intero pomeriggio per poi rientrare ad ascoltare quella strana trasmissione dove noi, piccoli scolaretti ripetevamo con gioia le lezioni di grammatica rudimentale di Alberto Manzi e guardavamo la sua mano disegnare benissimo piccoli alberi e case e animali. “Non è mai troppo tardi” è l’inno a non arrendersi, a non mollare, a provare e riprovarci. E’ un titolo sublime non tanto per una straordinaria trasmissione, quanto per la trama della vita. Ecco, con questo spirito, stasera, mi affaccerò curioso a guardare attraverso l’angolo della nostalgia questo sceneggiato, meglio, questa fiction su un maestro della parola, su un signore che non ha mai alzato la voce e ha provato, con squisita gentilezza e bellissima lentezza, a suggerire di provare e riprovare. In fondo, nella vita, nelle scelte, nei sogni quotidiani, non è mai troppo tardi. Proviamoci. Di questi tempi.... Da bambina giocavo a tennis. Ho iniziato intorno ai 10 anni e non ho mai smesso. Il Tennis Club, che frequentavo quasi quotidianamente, annoverava soci prevalentemente maschi e gli unici gonnellini che svolazzavano tra i campi erano il mio e quello di una compagna di scuola. Gioca oggi gioca domani, a furia di sfidare virili racchette, eravamo diventate abbastanza bravine. Gli avversari avevano anche smesso di destinarci il privilegio di essere esonerate da servizi, diritti o rovesci a velocità supersonica e, dopo anni di incessanti allenamenti, gareggiavamo in maniera abbastanza paritaria. Avevano invece mantenuto inalterata un’abitudine che mi mandava letteralmente in bestia: proponevano una partita, in singolo o doppio indifferentemente, ed accompagnavano la sfida con un’aberrante concessione – Dai, voi partite con 3 game di vantaggio – Rifiutavamo sdegnate e talvolta anche un po’ incazzate. Va da sé. Ricordo che una volta, animata da un temperamento più spigoloso di quello odierno, avevo risposto: “Vattene affanculo e il vantaggio concedilo a tua sorella!” Quell’agevolazione, che ai loro occhi voleva essere una premura, mi umiliava nel profondo. Sminuiva le mie capacità, offendeva il sacrificio negli allenamenti e mi mortificava enormemente. Esattamente come ritengo lo siano le quote rosa. Non sono maschilista, non sono femminista: sono per la parità. E se parità dev’essere, che lo sia anche nella competizione. Riservare una corsia preferenziale, come fosse un parcheggio per disabili, offende l’intelligenza femminile. Uomini e donne sono diversi, ma si tratta di quella differenza che non prevede la superiorità dell’uno o dell’altro. Quanto, semmai, propensioni diverse. Aree del cervello che lavorano in maniera distinta regalando, all’uno o all’altro, propensioni squisitamente individuali. E’ assolutamente vero che la donna, nel corso della storia, è stata sempre relegata in seconda fila e le sono stati negati ruoli che, invece, avrebbero dovuto attribuirle per indiscusso valore. Ma è anche vero che essere donna non è un merito, così come non lo è la giovinezza. Ci sono donne straordinariamente competenti ed abili, ce ne sono delle altre estremamente idiote ed impreparate. Così come gli uomini, eh?! E se decido di accettare la sfida, affilo le mie armi e dimostro di meritarlo quel posto al quale ambisco arrivandoci con la rivelazione delle mie competenze e non con un avvilente passaggio privilegiato. Quei 3 game di vantaggio concedili a tua sorella, semmai! “Io coprivo mia moglie Alice e loro picchiavano sempre più forte" ha raccontato Bobak Yan, uno dei quattro clochard massacrati a sprangate. Era notte fonda, una di quelle notti buie e piene di nulla. Loro dormivano, avvolti da coperte di fortuna, adagiati sopra i loro cartoni che al risveglio piegano e nascondono da qualche parte per riesumarli dopo il tramonto. Quei letti artigianali che sistemano all’angolo tra due muri per ripararsi mentre dormono. I clochard, una vita dignitosa quanto quella di un cane randagio. Spesso guardati con un misto di disprezzo e compassione, proprio come le occhiate che raccolgono i cani senza padrone e fuori dal branco. Non è certo una condizione a cui un essere umano in possesso di un minimo di cervello possa aspirare, eppure può succedere. Può accadere, ora come non mai, che non ce la faccia più a tirare avanti. Che lo stipendio non basti più a pagare l’affitto e che bollette e debiti si accumulino. Può capitare che si venga licenziati e quei debiti diventino inestinguibili. E si verifica quando uno stato, anziché aiutarti e coprirti le spalle, ti toglie anche il cappotto. Lasciandoti lì, nudo e inerme a difenderti dal mondo. Non lo contempli nei tuoi sogni di bambino, perché è il peggior incubo nel quale ti puoi ritrovare, tuo malgrado. Ma può accadere. E allora devi farci amicizia con la fame, il freddo, lo sporco e la solitudine. Perché capisci che la paura non ti salva e non ti protegge. Due settimane fa, a Genova, quei balordi col passamontagna hanno scelto di cogliere i clochard nel sonno e tra tutto il deprecabile campionario di attacchi che la violenza offre ai pezzi di merda, loro hanno preferito quello più vile e bastardo. Quando ti svegli di colpo, senza l’esatta percezione del luogo e del tempo, per un attimo perdi quella sincronia fatta di muri e difese e ti senti smarrito, in balia degli eventi. All’inizio il dolore non esiste. E’ vuoto, buio, punto zero. Ma poi, se quegli eventi sono randelli che ti arrivano sulla faccia, gli scenari che si spalancano diventano devastanti. Si sono accaniti come invasati, con le loro spranghe ed il loro bastoni. Li hanno usati in tutti i modi: dall’alto, dal basso, lateralmente anche capovolti, come le carte dei Tarocchi. Ma non si sono accorti che erano loro ad essere al contrario, non i loro bastoni. Hanno picchiato duro, senza alcuna pietà. Nemmeno quella d’obbligo per la solitudine, per la fame, per il freddo e per lo sporco. Ci sono giorni in cui bisogna farsi forza per affrontare la lettura di alcune notizie senza timore di esserne schiacciati, con lo stesso ardimento con cui si andrebbe in battaglia. E quell’audacia oggi non ce l’ho, non più. Nei giorni scorsi ho deciso che avrei visto l’ultimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street. A dire il vero, la storia del broker finanziario Jordan Belfort non mi pareva potesse presentare grandi elementi di novità. Ascesa, successo e inevitabile caduta di un guru del rapace mondo della finanza. Cose già viste. Il motivo che mi ha spinto a cambiare idea e a vedere il film sono state alcune recensioni di spettatori trovate sul web.
La quasi la totalità dei commenti riguardavano le “mirabolanti” scene di sesso. E mi è tornato in mente un articolo del critico cinematografico de L’Unità Alberto Crespi sull’ultima mostra di Venezia, intitolato “Basta stupri, orifizi,orge”. L’articolo di Crespi, con intelligente ironia, era una supplica agli organizzatori dei festival che troppo spesso, ultimamente, strizzano l’occhio a realizzatori di opere di dubbia qualità ma che si presentano come portatori di novità e osservatori di una realtà disturbante, ma vera. Mi sono chiesta se il film di Scorsese fosse inseribile in questa categoria. La risposta è no. Agli internauti autori di quelle recensioni - forse orfani della mancata uscita italiana di un'altra opera pseudo scandalosa, The Nynphomaniac di Von Trier- direi che quelle sequenze, poco più che dei coup d’oeil, sembrano innocenti rispetto a quelle in cui il protagonista spiega come un broker possa guadagnare 22 milioni di dollari in un giorno vendendo azioni spazzatura per magari spenderne 2 in una festa di addio al celibato. Pertanto, assolvo Scorsese da eventuali accuse di uso furbesco e strumentale di immagini sessualmente esplicite. Ma la preghiera di Alberto Crespi resta valida. Leggendo e parlando di cinema, sempre più ci si trova costretti a parlottare di orge, rapporti orali, perversioni varie. “ Sono andato a vedere La vita di Adele”, mi dice un amico. “ Mmh. Com’è?” “ Venti minuti di scene lesbo. Non ne potevo più, mi sentivo un voyeur e mi chiedevo … ma che me ne frega?”. È vero che il cinema non fa altro che rappresentare la realtà. La nostra realtà è anche questa. Siamo tutti pornografici. E allora rappresentiamoci per quelli che siamo, è giusto. Ma a chi serve nel 2014 vedere come due donne fanno sesso in un film convenzionale? Serve per scandalizzarci? Si poteva parlare di scalpore nel 1936, anno in cui il surrealista Man Ray girò un corto dal titolo “ Deux Femmes ”. Che cosa facessero queste due donne, non c’è bisogno che ve lo spieghi. Un appello ai registi e agli addetti ai lavori lo si potrebbe lanciare. Ricordo una frase di Umberto Galimberti: “La pornografia in realtà uccide il desiderio. Dopo aver visto i genitali di una persona, cosa mai potrò desiderare di vedere?”. Sugli effetti fisiologici dell’abuso della pornografia rimando ad altri esperti. Qui rifletto più che altro sulle conseguenze nel cinema e le sue storie. Cari registi, sceneggiatori, organizzatori di mostre, sforzatevi di più affinché la nostra fantasia e il nostro desiderio non muoiano. Donateci in regalo, ogni tanto, una semplice, eccitante intuizione. Personalmente preferisco mille volte le forme semi nascoste di Marylin Monroe che canta I wanna be loved by you e il suo tentativo di seduzione del finto impotente Tony Curtis in A qualcuno piace caldo che le scene – scandalosissime! - di The Dreamers di Bertolucci nelle quali l’imbarazzo è originato dalla noia. Poi fate voi, è anche un vostro rischio e pericolo se capiterà di trovare a Venezia cose orribili come il simil porno francese Baise - moi. Lettori, non sentitevi in colpa se non ve lo ricordate. Addetti ai lavori, casomai avvertite prima con dei comunicati stampa, e magari il pubblico organizzerà gite in altri lidi e visite a siti provvisti di immagini forti, che hanno però il vantaggio di essere accessibili gratuitamente. A proposito di cinema, il video che allego è il frammento di una scena da uno dei miei film preferiti, Ascensore per il patibolo di Louis Malle. La tromba di Miles Davis accompagna una sensualissima – e vestitissima - Jeanne Moreau in una lunga camminata notturna sotto la pioggia. Ascensore per il patibolo |
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July 2014
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