Un mutamento che non necessariamente ha una connotazione positiva.
Se mi volto indietro e guardo lontano, diciamo a una distanza di circa trent’anni, per osservare quella che ho frequentato da alunna mi vengono i brividi: era asettica, asfittica, nozionistica e castrante.
Ricordo che coi docenti non avevamo alcun genere di dialogo che esulasse dalle attività didattiche e, anzi, in alcuni casi nemmeno quello relativo agli argomenti di studio.
C’erano infatti certi mostri sacri a cui non avevamo il coraggio di chiedere una spiegazione supplementare neanche quando la loro lezione era talmente arzigogolata da non farci capire assolutamente nulla.
E, a costo di trascorrere interminabili pomeriggi in biblioteca, affiancati dal secchione di turno, cercavamo di ovviare alla pecca di non aver afferrato l’esposizione dell’insegnante. Ricordo il caso di una professoressa alla quale, in tutti gli anni della scuola superiore, nessuno della mia classe avesse osato chiedere di andare in bagno.
Ci facevamo scoppiare la vescica, piuttosto.
Ma c’erano anche quei docenti che non spiegavano affatto e si limitavano a leggere stancamente dal libro di testo e poi assegnavano quelle stesse pagine da studiare per casa.
E nella scuola c’era già il bullismo, mai preso in considerazione.
C’erano le ingiustizie, che ingoiavamo col naso turato.
C’erano i professori che facevano le loro sfacciate preferenze e che, conclamatamente, senza nemmeno salvare la forma, attribuivano voti alti o bassi a sentimento e nessuno fiatava.
Perchè noi alunni eravamo passivi, obbedienti, remissivi e senza attributi. Nemmeno un accenno di cresta sollevata, il minimo sindacale che ci sarebbe servito per far valere i nostri diritti, spesso tragicamente calpestati.
Eravamo dei rincoglioniti, diciamolo pure!
Ed i nostri genitori, che rincoglioniti non erano, conoscevano l’arte della diplomazia, del saper tacere. Del non denigrare il comportamento di un docente davanti al figlio per non sminuirne il ruolo e l’azione educativa.
Ora stare dall’altra parte della cattedra mi dà un punto di vista certamente diverso, ma talvolta non è necessario ricorrere all’immedesimazione nell’universo studentesco per capire che la gestione di una classe richiede ai docenti delle doti che nessuna università insegna.
E talvolta non basta nemmeno il buonsenso per supplire alle carenze della formazione.
Adesso un insegnante, oltre ad una preparazione inattaccabile (perché gli studenti amano cogliere in fallo i propri docenti), dev’essere nell’ordine: psicologo, assistente sociale, vice mamma/babbo, amico, confidente, buffone.
E se in una di queste vesti fa cilecca rischia di trovarsi di fronte a una classe imbizzarrita. Perché se si ha a che fare con studenti che non hanno nulla da perdere e si coalizzano nell’obiettivo di diventare la disperazione del professore, ci riescono eccellentemente. E quel poveraccio non ha strumenti per contrastare l’avanzata armata, che si fa più bellicosa ad ogni giorno che passa.
Il bullismo al contrario, che in gergo sarebbe il burnout.
Quella sindrome professionale che, detta in parole povere, si verifica quando il carico di stress si fa davvero insopportabile e fa uscire la gente fuori di testa.
Perché non è tanto normale ciò che ho sentito uscire qualche giorno fa dalla bocca di un alunno che, rivolgendosi ad un collega, ha detto: “Ebbè professo’, come stanno sua moglie ed i miei figli?”.
E nemmeno udire da una finestra aperta “Sa cosa ne faccio del suo 4? Me lo sbatto in culo!”
Ed i 15 giorni di lavori socialmente utili da impiegare in attività di pulizia del giardino, che la famiglia ha commutato in luogo della sospensione assegnata dal Consiglio di Classe, sono diventati 5 perché la mamma ha deciso che potevano bastare.
Un po’ come se a me arrivasse una bolletta Enel di 500 € ed io ne pagassi 100 perché va bene così.
Ecco, riflettendoci un po’, visto che una via di mezzo non si è trovata, io non ho ancora capito ancora se la scuola era meglio prima o adesso.
So solo che ci sono dei giorni nei quali a scuola ci si deve andare col passo del leopardo.