Incontro per caso un amico ingegnere. Lo incontro mentre risponde alla domanda di un conoscente.
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La rapida affluenza di eventi luttuosi concentrati in un lasso di tempo straordinariamente breve e riassumibile nel detto “Le disgrazie non vengono mai sole” o anche “Piove sempre sul bagnato” è un fenomeno assai stravagante. La patologia rara che richiede cure incredibilmente costose non aggredisce quasi sempre il povero disoccupato? L’alluvione non va a colpire più frequentemente una popolazione già martoriata dalla crisi economica? Il treno che deraglia non è forse quello più affollato e che trasporta i pendolari al lavoro? Banalità, stereotipi, cliché, direte in molti. Pensate allora a quante possibilità ci sono, nel corso di un paio di lustri di avere i peggiori governanti possibili e preparatevi ad una prova empirica. Prendete la foto di un tale (con un cognome da mago Silvan che tira fuori dal Cappellaccio conigli decerebrati) che vanta assidue frequentazioni con amichetti immobiliaristi impelagati in associazioni segrete tipo la P3; afferrate la foto di una bella donna, con un cognome che sembra un’imprecazione, (unu barracciu chi ti falede bae in ora mala) che, per avvalorare l’impulso al lavoro locale e dei sardi presente nel suo manifesto politico, affida l’incarico della propria campagna elettorale ad un’agenzia pugliese; agguantate la foto di un tizio, con un cognome semanticamente affine alla luce pulsata di un’estetista, che copia pedissequamente le linee programmatiche di Formigoni senza nemmeno avere l’accortezza di sostituire il nome della Regione. Ritagliatele e incollatele, una per una, sui rulli di una slot-machine e fate girare tirando la leva. Che culo, avete vinto. Per l'ennesima volta ho visto riesumare (stavolta su L'Unione Sarda) la leggenda dell'avviso di garanzia che nel 1994 sarebbe stato recapitato a Berlusconi ad un certo G8 tenuto a Napoli, nel tentativo di accreditare la tesi dell'aggressione della magistratura nei suoi confronti
La storia è, appunto, una leggenda. Però ne parlo perché è un caso esemplare di verità stravolta, plasmata ad uso e consumo dei sofisticatori finché, col tempo, tutte le imprecisioni e le falsità posticce hanno finito con il sovrapporsi ai fatti, cancellandoli. A Napoli, il 22 novembre 1994, non era in programma nessun vertice G8 ma una conferenza internazionale sulla criminalità, cui il presidente del Consiglio Berlusconi sarebbe dovuto intervenire. Non gli venne mai recapitato un avviso di garanzia ma un invito a comparire, in veste di persona informata dei fatti relativi ad un'inchiesta della Procura di Milano su tangenti pagate dalla Fininvest. L'atto venne comunicato a Berlusconi per telefono dai carabinieri, su ordine della Procura che aveva atteso la chiusura delle urne aperte per le consultazioni amministrative svoltesi quel fine settimana. La notizia divenne pubblica perché riportata, il 23 novembre, dal Corriere della Sera, informato da una fonte sempre rimasta anonima. Infine, il reparto del Corriere della Sera che confezionò lo scoop era diretto da un caporedattore poi diventato famoso: Alessandro Sallusti. Tutto questo solo per chiarire che non siamo tutti smemorati e neppure tutti scemi. Fai clic qui per effettuare modifiche.Nel novembre del 2005 Donald Rumsfeld, ministro della Difesa di Bush, annunciò al suo omologo italiano, Antonio Martino di Forza Italia, la chiusura della Base Nucleare di S.Stefano. Nel settembre 2007 la nave appoggio per sommergibili nucleari statunitensi lasciava definitivamente la Sardegna. Nel febbraio 2008 chiudeva anche l’ultimo ufficio a terra della ormai ex Base Americana. I più di 140 dipendenti civili iniziavano così un periodo difficile della propria esistenza, alle prese con il tentativo da parte del Comune di La Maddalena, della Regione Sardegna e dei Sindacati, di ottenerne la ricollocazione nel comparto pubblico grazie ai benefici di una legge del 1971, la n. 98, pensata apposta per i dipendenti di installazioni militari straniere nel proprio paese. Il contesto del provvedimento era il trattato NATO del 1949. Questo iter, per nulla facile, fu reso ancora più spinoso dal clima di tensione che si respirava a La Maddalena in quel periodo. Si era alle prese con l’idea (fortemente sostenuta da Soru) che si potesse riconvertire l’economia di molte realtà sarde passando dal militare al civile, dalle stellette al turismo, investendo in risorse fino ad allora non del tutto valorizzate: l’ambiente, la bellezza del territorio, le energie e le idee delle comunità locali. Si pensava che ci si potesse emancipare da un tipo di economia che garantiva un certo benessere, ma lo garantiva secondo dinamiche completamente fuori dal controllo delle popolazioni beneficiate dai posti di lavoro: della serie che le basi militari, italiane o straniere, avevano sempre obbedito a logiche che di sociale avevano ben poco: arrivano e se ne vanno quando le esigenze della difesa, oltre che i bilanci di uno Stato, vogliono così. È successo con la Base Americana di Santo Stefano e con molte altre realtà. Ma il punto su cui fortissime furono le polemiche è proprio questo: Soru credeva nella trasformazione di un’economia da militare a turistica, e faceva quel che poteva per favorire il passaggio. Il punto è che Soru, contro Bush, non avrebbe potuto fare nulla se l’America non avesse avuto intenzione di andarsene. In molti provammo a spiegare questo aspetto, invitando chi era contrario alla chiusura della base a distinguere tra intenzioni ed effetti, tra cose desiderate e cose causate. Tra quel che era giusto chiedere e quel che era ragionevole aspettarsi. E quindi anche tra chi era responsabile e chi era solo soddisfatto per ciò che stava capitando Nulla da fare. Molti continuarono a pensare che Soru aveva mandato via gli Americani e con loro tutti quei posti di lavoro. È di ieri la notizia che la Difesa USA sta per ridurre il personale civile nelle basi militari di Aviano, Sigonella, Vicenza-Ederle, Livorno-Camp Darby e Napoli e che, a differenza di quello che avvenne qualche anno fa, nessuno potrà godere dell’ombrello della Legge 98/71. Molti dipendenti civili italiani di queste installazioni rischiano il licenziamento e basta. Questo ci ricorda ancora una volta che l’economia militare è sicura né più né meno come quella legata alla grande industria che si avventura oggi qui e domani lì; in Sardegna ne sappiamo qualcosa. Una volta che non c’è più interesse strategico le armi si posizionano, da millenni, dove conviene, dove è più facile controllare ed eventualmente colpire il nemico, senza remore per chi rimane col culo per terra o è costretto a emigrare per mantenere l’impiego. Mi chiedo solo se i detrattori di Soru ammetteranno di avere sbagliato le loro valutazioni allora e se questo potrà servire per ripensare ancora una volta alla necessità, per lo meno, di mettere in discussione la presenza militare in Sardegna anziché considerarla un totem innominabile e salvifico senza il quale saremmo perduti. Una delle caratteristiche fondamentali del periodo pre-elettorale, visibile a 360 gradi, è l'impennata eccezionale delle capacità di utilizzare la propria fantasia di candidato per scaldare cuori e agitare in modo speranzoso (e positivo) le aspettative della vasta platea del potenziale elettorato. Nonostante buona parte del pensiero di John Rawls, la politica non è solo razionalità, ma – soprattutto quella costruita quotidianamente e non studiata con il culo poggiato su comode sedie – speranza e utopia: queste sono la farina e le uova del discorso, più o meno retorico, di tante persone che si affacciano per la prima volta nell’arena della contesa politica o di quelli che in modo tenace continuano a far gravitare le proprie vite in tali spazi. La speranza del cambiamento possibile per le proprie vite e quelle dei propri cari o quelle dei concittadini è un tasto su cui il dito del “politico candidato” continua a premere in modo insistente; e la pressione si fa più forte quanto più profondo, largo e devastante è l’universo dei disagi e delle difficoltà che animano la quotidianità di quei cittadini, potenziali elettori. A volte questa speranza di cambiamento si trasforma in epica narrazione di “stravolgimento” degli equilibri esistenti. Nel recente passato isolano, l’apparire di persone dotate di carisma riconosciuto ha effettivamente animato questa metamorfosi: come una bolla, la speranza si è gonfiata in utopia e ha alimentato la vittoria del primo Soru. Ma, come tutta la letteratura racconta, le bolle si sgonfiano, sempre: il carisma si istituzionalizza, e ciò che era straordinario in passato ri-diventa “normale” nella contingenza. Non è il caso di ripercorrere quell’esperienza (già molto è stato scritto), ma di quegli avvenimenti bisogna mettere in luce la distanza che corre con le attuali narrazioni (e i personaggi che le animano) e il tentativo di avvolgere la speranza nella carta lucente dell’utopia. Non solo il contesto socio-economico è alquanto differente (in peggio), ma la gravità della situazione “da tutti i punti di vista”, dovrebbe suggerire ai competitors una ben più importante onestà intellettuale. A me le utopie sono sempre piaciute, ma in questo momento tragico mi sento di sperare che chi governerà la nostra Isola possa riuscire - almeno - a non farla andare a fondo, per tentare di continuare a galleggiare in una competizione economica globale che, per noi sardi, è di assoluto svantaggio. Purtroppo. Ad esempio, bisognerebbe guardare onestamente i numeri. Certo, può essere deludente e al limite dello sconforto fare questo viaggio, ma è di importanza fondamentale per poter impostare qualche ragionamento che abbia un qualche colore di fattibilità. È urgente trovare il filo (o più di uno) per definire una politica economica che abbia i contenuti e il sapore della integrità interna, orizzonti medio-lunghi e, soprattutto, il profilo della gerarchia di interventi. La nostra è una economia nana, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale. Lo è da sempre e su questo argomento ci sono biblioteche intere di produzione scientifica: non sta a me ricordarlo in questo momento. Ma la crisi economica globale ha ulteriormente schiacciato il nano verso il basso e alimentare, nei modi più diversi, la speranza che il nano diventi di statura media o un gigante è non solo gesto sciocco e miope, ma molto pericoloso. Bisognerebbe, viceversa, essere puntuali e ambire a far sì che nel dramma che si profila per tutte le economie occidentali nei prossimi 5-7 anni, la Sardegna possa “tentare di tenere”, galleggiare, appunto. Sarebbe già un risultato splendido. La nostra ricchezza annua è fatta da poco più di 33.638 milioni di euro, ed è un “bottino” che continua a calare negli ultimi anni, per molti motivi. Uno dei problemi più rilevanti, però, è che la fetta più grande della nostra ricchezza proviene dai servizi (81%), il settore che maggiormente ha tenuto in questa crisi (soprattutto grazie alle donne e ad un ampliamento delle fragilità contrattuali). La nostra è sostanzialmente un'economia che produce servizi: possiamo farci tutte le narrazioni più "felici" del mondo, ma una narrazione onesta fatta sui numeri, quelli che descrivono realmente il mondo economico, ci dice che la nostra è un'economia che fa poco conto su agricoltura e industria: la prima si ferma al 3% del PIL e la seconda al 9,4%; la prima produce 908 milioni di euro di ricchezza ed è in calo rispetto agli anni precedenti; la seconda produce 2828 milioni di euro per ciò che concerne il settore “in senso stretto” e 1722 milioni di euro contando il settore delle costruzioni; entrambe non sono in calo, sono letteralmente crollate negli ultimi anni. Quel poco di industria esistente costruita per lo più da Roma (chimica) e quella endogena hanno visto il PIL diminuire del 26% dal 2007 al 2011; la quota sul totale della ricchezza è passata dal 13% a poco più del 10%; l’occupazione è precipitata, perdendo un quarto degli addetti (da oltre 55mila a 44mila lavoratori). Ha chiuso l'Alcoa, ha chiuso l'Euroallumina, la Queen e tutto il nodo tessile di Macomer, quello cartario, e si potrebbe (dovrebbe) andare oltre in questo tragica narrazione… Sono state crisi animate da fattori differenti, spesso motivi legati a dinamiche internazionali: ad esempio nel tessile, l'ingresso dei cinesi (che possono vantare posizionamento di prodotti a bassissimi prezzi prodotti con costi del lavoro risibili) ha spiazzato moltissime imprese occidentali. La Sardegna, in un contesto di economia globalizzata, fa parte di queste dinamiche, punto. L'Alcoa ha chiuso per ragioni diverse, anche se nella retorica pubblica il discorso si è basato solo sui costi energetici e l'interruzione dei benefici di stato. L'Alcoa è una big Corporation, una multinazionale capace di muoversi su mercati globali e riposizionare abbastanza facilmente le sue strutture produttive dove le condizioni del posto sono a suo vantaggio: sindacati deboli o inesistenti, costi del lavoro risibili, rapporti semplificati (e a proprio vantaggio) con le istituzioni pubbliche, etc, etc.. Questo poteva fare e questo ha fatto, punto. Il capitale straniero ha trovato altri spazi socio-economici di accumulazione più favorevoli. Ora.. la faccenda può anche far storcere il naso a qualche indipendentista: anche per il sottoscritto il capitale (anche quello finanziario) locale è di fondamentale importanza, le possibilità di implementare imprenditoria sarda e aiutarla nelle sue diverse fasi di attività deve essere esplorata in continuità e con grande serietà da parte delle Istituzioni Pubbliche. Ma non è questo il discorso (insider-outsider) che voglio fare; ci sarà tempo. Ciò su cui voglio soffermarmi è un elemento banale: è bene ricordarlo, le imprese locali hanno un piccolo-grande problema che si chiama “mercato di sbocco”, ovvero la possibilità concreta di collocare i propri beni prodotti. La faccenda rilevante è che quando arriva in terra sarda un'impresa straniera, insomma una Corporation che di cui si è potuta valutare la sua solidità e affidabilità, non porta solo i propri capitali, la propria tecnologia, la propria capacità manageriale, etc, etc.. Ma porta in dote, soprattutto, la struttura delle relazioni che è riuscita a conquistare nel tempo e che definisce il perimetro (sempre meno stabile in questa economia globale) dei propri mercati di sbocco. E sono questi perimetri che definiscono, nel tempo, le possibilità di garantire sopravvivenza, consolidamento, espansione delle unità produttive che poggiano il culo in spazi economici periferici, come la Sardegna. Questo non vuole assolutamente essere un invito a calarsi le braghe di fronte a qualsiasi capitale esterno: troppo spesso la lezione del passato è stata quella di fallimenti di mercato dovuti all'azione di imprenditori “esterni” (fintamente travestiti) o caimani (veri) capaci di accaparrarsi capitale pubblico senza nessuna seria idea o prospettiva di investimento in loco. Qui, viceversa, si tratta di selezionare attentamente lo spessore di serietà dei gruppi imprenditoriali che si affacciano nell'isola con qualsiasi pretesa di utilizzo del capitale pubblico, che non è solo denaro, ma anche territorio (come il caso del Qatar sta suggerendo). Ci vuole la presenza di una classe politica capace di definire delle priorità di investimento nel settore industriale, capace - con aiuto esperto dei parte dell’amministrazione regionale e/o di esperti esterni- di fare scouting, dialogare con il capitale straniero nel massimo delle garanzie per i lavoratori sardi e il territorio tutto (soprattutto nel senso della conservazione degli equilibri ambientali). Chi lo può fare? La Sfirs, pezzi dell'Assessorato alla programmazione? Un settore RAS tutto da inventare? Forse si, forse no, non è la declinazione importante in questo scritto. Questo è un punto fondamentale che va analizzato con serietà - a breve - nelle stanze istituzionalmente previste per questa possibilità. Di certo rimane, finora, l'assenza di una politica industriale e di un piano energetico che vanno urgentemente definiti, e definiti per un orizzonte di almeno 15-25 anni; una politica industriale che sia capace di investire risorse, tempo ed energie per metter mano ad ambiti – anche con il contributo di capitale straniero - che siano in grado di alimentare nascita ed espansione di una futura imprenditoria locale (la chimica è un’impresa a ciclo integrato e nega queste possibilità di indotto); che sia in grado di alimentare decisioni importanti sulla destinazione dei fondi della formazione professionale, sulla costruzione di peculiari Corsi di laurea universitari insieme agli organi di Unica e Uniss, capaci entrambi di garantire determinate figure professionali per i settori industriali in cui si è scommesso. Etc. Etc.. Insomma, le "cose da fare" sono molte, tante, forse troppe. Ma, lo ripeto alla noia, bisogna guardare con serietà e soprattutto onestà intellettuale alla posizione della nostra economia nel contesto internazionale - i suoi limiti così come i suoi vantaggi - per limitare i primi e sfruttare al massimo i secondi. Senza banali appelli di certi economisti alla letteratura internazionale, senza narrazioni felici di aspiranti governatori, ma con onesto richiamo alle concrete possibilità della nostra economia che, in una crisi internazionale di portata mostruosa, ci suggeriscono che sarebbe già una fortuna riuscire "a galleggiare" tra competitors di ben altra caratura. Avete sentito da Berlusconi una sola parola sul dramma degli alluvionati di Olbia? Magari mi sarà sfuggita o forse il decaduto avrà tenuto pudicamente per sé il suo dolore, ma non mi risulta nessuna dichiarazione ufficiale.
Strano, per uno che non ha mai mancato di esternare il suo amore per questa terra, ricambiato nel 2007 dal conferimento della cittadinanza onoraria di Olbia. Strano, per uno che una volta, durante uno dei tanti blitz compiuti in città per una delle tante campagne elettorali di questo ventennio, dichiarò che in vecchiaia si sarebbe ritirato in Sardegna per scrivere le memorie della sua vita, precisando che all'opera avrebbe lavorato accomodato al tavolino di un bar del Corso Umberto. Gli piaceva tanto, aggiunse, la luce del cuore di Olbia. Ora basta. Io propongo, da gallurese e cittadino italiano, di revocare la cittadinanza onoraria di Olbia al pregiudicato ed ex senatore Silvio Berlusconi. E chiedo a tutte le forze politiche che basano la loro azione sul rispetto della legalità e sui valori della Costituzione di farsi promotori e portavoce di questa iniziativa, non nuova ma oggi sostenuta da altri e determinanti argomenti. La proposta è rivolta in particolare ai sedicenti partiti di sinistra del territorio, nella speranza che escano dalle ambiguità e dagli imbarazzi spendendo finalmente qualche parola sull'iniziativa. Se vi può essere d'aiuto, sappiate che il Comune di Corleone ha appena revocato la cittadinanza onoraria al calciatore Fabrizio Miccoli per quelle disgraziate frasi, intercettata durante un colloquio telefono, sul giudice Falcone. E se qualcuno obiettasse che a parlare per voi è la vostra cultura stalinista, inguaribilmente incline a sopprimere gli oppositori, fategli presente che pochi mesi fa il Pdl di Ravenna ha chiesto di revocare la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano, accusato di avere gioito delle disgrazie del padrone del centrodestra. Non spiegate il vostro silenzio, per favore, dietro la necessità di debellare la malattia dell'antiberlusconismo militante e neppure azzardatevi a replicare che al Paese interessano ben altre cose e poco importa del profilo penale del suo ex capo del Governo. Dunque, da poco più di tre mesi Olbia ha un cittadino onorario che è pregiudicato per una gigantesca evasione fiscale da oltre trecento milioni di euro. Da un giorno Olbia ha per cittadino onorario un uomo espulso con disonore dal Senato della Repubblica. La condanna e la decadenza da parlamentare potrebbero essere la testa d'ariete per fare breccia nel bunker del Consiglio comunale, finora inespugnabile per chiunque abbia proposto la revoca. Ci provò, qualche mese dopo il conferimento del titolo, un comitato costituito dall'ingegner Giovanni Lopes, ma senza alcun risultato. Già allora, quattro anni prima della condanna, esistevano ottimi motivi per chiedere che si facesse giustizia di un riconoscimento molto discusso. Ripercorriamone allora la storia. La cittadinanza onoraria a Berlusconi è stata assegnata dall'amministrazione comunale di Olbia nel maggio del 2007, pochi giorni prima che Gianni Giovannelli diventasse per la prima volta sindaco. Sequenze di quella giornata sono rimaste impresse nelle scene finali del documentario Videocracy, con Silvio che impugnando la pergamena risaliva il Corso Umberto (quello con la giacca chiara alle sue spalle ero io) tra due ali di folla osannante. In realtà, la delibera della giunta comunale di Olbia che attribuiva la cittadinanza a Berlusconi era datata 2004, firmata da uno sconosciuto ortopedico diventato, dopo aver conosciuto il Cavaliere, consigliere regionale, sindaco e parlamentare: Settimo Nizzi. La cerimonia di conferimento venne posticipata di due anni e mezzo per concludere col botto la campagna per le comunali di quell'anno, stravinte da Giovannelli sul socialista Nardino Degortes. Nizzi era ancora sindaco e i suoi rapporti con il successore ancora eccellenti, prima della clamorosa rottura consumatasi nei mesi successivi. Perché venne conferita la cittadinanza a Berlusconi? Perché, sostenne il sindaco, i vertici internazionali tenuti in quegli anni a Villa Certosa avevano concesso una formidabile ribalta internazionale a Porto Rotondo e al territorio di Olbia: tutti ricordano le visite agostane dell'ex premier spagnolo Aznar e la scampagnata a Porto Cervo di Tony Blair e consorte, accompagnati dal Silvio con bandana annodata dietro la nuca. Insomma, il merito di Berlusconi è stato quello di possedere una villa a Porto Rotondo dove invitava rappresentanti istituzionali in veste informale, proprietà inopinatamente trasformata in residenza di Stato quando si trattò di impedirne l'ingresso ai magistrati che indagavano sugli abusi edilizi che vi erano stati commessi, prima di essere sanati. In veste ufficiale, Berlusconi non è mai stato al Comune di Olbia, neppure quando Fininvest propose la costruzione di Costa Turchese. Era il 1983 e a presentare il progetto furono il fratello Paolo e Fedele Confalonieri, preceduti nella loro visita da un pacco spedito a tutti i consiglieri comunali contenente un costosissimo, per l'epoca, videotelefono. Quando divennero pubbliche le fotografie scattate nella villa da Antonello Zappadu - specie quella del premier ceco Topolanek con attributi al vento - risultò chiaro quali delicatissime urgenze diplomatiche rendessero necessari questi vertici internazionali. La fama internazionale della Sardegna, in quel periodo, potrebbe essere avvicinata alle reputazione di cui godeva Cuba ai tempi del dittatore Fulgencio Batista, quando l'isola caraibica era considerata il casino d'America. Poi, due anni dopo, venne lo scippo del G8, assegnato a La Maddalena dal governo Prodi e dirottato a L'Aquila dall'esecutivo Berlusconi, utilizzando come spregevole pretesto il terremoto che aveva colpito la città. Con esso si tolse a La Maddalena una formidabile carta mediatica per la sua riconversione in chiave turistica, dopo lo smantellamento della base nucleare di Santo Stefano, e al territorio i fondi per il rifacimento della Olbia-Sassari, convogliati in un portafoglio a disposizione della presidenza del Consiglio. Il tutto, mentre 24 carabinieri continuano ogni giorno, ancora oggi, ad essere sottrattii dai loro compiti di sorveglianza del territorio per presidiare Villa Certosa, anche quando è disabitata. Insomma, quali sarebbero questi meriti storici resta un mistero. La scorsa estate, come ormai immancabilmente avviene da molti anni a questa parte, si è levata la voce di una imminente vendita di Villa Certosa al solito misterioso acquirente, notizia come sempre smentita nel giro di poche ore. E L'Unione Sarda ha intervistato un signore che fornisce vini e bevande alla tenuta di Punta Lada. Costui si è fatto latore di nefaste profezie, immaginando un danno colossale per il territorio se l'affare fosse andato in porto e Berlusconi avesse lasciato una volta per tutte il suo ritiro estivo. Ecco, forse gli unici a dispiacersi della revoca della cittadinanza onoraria potrebbero essere il suo bibitaro e i pochi altri che a Villa Certosa continuano a fare affari. Nel frattempo, l'ex premier è ufficialmente diventato un pregiudicato. E chi dice di avere a cuore la legalità, non può tollerare che un pregiudicato per reati conto la pubblica amministrazione sia cittadino onorario per iniziativa di una pubblica amministrazione. La Storia ha avuto modo di raccontare in ogni sfaccettatura pratiche di azione economica come quella del sig.Giorgio. Max Weber le chiamava prassi tipiche degli "imprenditori di rapina", una modalità usuale in tutto l'Evo antico di arricchirsi a danno altrui in dimensioni non pacifiche, di opportunismo e/o di malcelata scorrettezza. Qualcuno ha declinato questa etichetta per descrive le modalità di relazione di una parte di imprenditoria meridionale (e non..) nei confronti delle risorse economiche pubbliche nel Mezzogiorno d'Italia; qualcun altro non distingue tra risorse pubbliche o private ma guarda alle carenze di certo senso etico nel fare impresa . Dunque, guardando alle vicende di Sardegna Uno non stiamo parlando di cose nuove... Piuttosto, di questa faccenda triste su cui riverso tutta la mia solidarietà ai lavoratori in lotta, mi sorprende l'insieme di arroganza, potere finanziario e stupidita' strettamente legate insieme, congelate nel sig.Giorgio. Ecco. In una situazione di pubblico dissenso, un conflitto che il Prefetto si è offerto di mediare, una situazione "sotto gli occhi di tutti", il sig.G imprenditore (anche) nel settore della comunicazione, non trova meglio che esternare sbuffante dicendo: " lo Stato mi deve 2 milioni di euro. Cosa devo fare per pagare gli stipendi, vendermi la macchina?" Certo che no.. e infatti il sig. Giorgio ha venduto Sardegna Uno per 4mila euro ai nuovi "proprietari”. I tre acquirenti sono l’amministratore delegato in carica, Sandro Crisponi; il creatore di Thelema Press, agenzia di prodotti giornalistici, Mario Tasca; il patron del circuito nazionale “7Gold”, Luigi Ferretti. Il 70 per cento in mano a Crisponi, il resto diviso tra gli altri due soci. Nella prima e ultima intervista rilasciata Crisponi affermava: "Sono felice per questa scelta ma, per adesso, la correttezza impone, nei confronti dell'azienda e dei nostri dipendenti, insomma dei miei colleghi e degli amministratori, di non rilasciare interviste" (...) "Posso solo dire che ci sarà da lavorare parecchio, considerato anche il periodo di crisi economica che investe tutti i settori; aggiungo che lavorerò pienamente per il raggiungimento degli obiettivi che nei prossimi giorni discuteremo, coinvolgendo tutte le forze della nostra azienda televisiva". E infatti, non solo non ha rilasciato interviste, ma - insieme ai nuovi soci - non si è proprio fatto vedere in azienda... Ha dunque ragione la giornalista Sallemmi, quando scrive: " Come si può pensare che l'emittente possa sopravvivere se a comprarla sono un professionista che non fa l’imprenditore, un imprenditore che probabilmente ha ricevuto il dieci per cento di quota in pagamento di crediti maturati (Tasca) e un operatore nel campo delle tv commerciali che crede nell’intrattenimento più che nell’informazione (Ferretti)?" E infatti anche oggi (dal 3 ottobre) i giornalisti e i lavoratori di Sardegna Uno sono scesi in piazza per portare la protesta tra la gente, raccontando delle quattro (fra un po' cinque) mensilità non pagate, del piano di rilancio assente e del nuovo sciopero. Nessun lavoratore è stato convocato dalla nuova proprietà per capire il futuro della TV, non esiste alcuna indicazione editoriale dai nuovi proprietari. Nata nel 1984 per iniziativa dell'editore Paolo Ragazzo (si chiamava "Sardegna 1 Tv"), poi fusa nel 1986 con Tele Sardinia dell'editore Sergio Zuncheddu. Il sig. Giorgio entra in scena nel 2004 e opera una trasformazione dell'azienda in termine di contenuti aumentando lo spazio dedicato al folklore isolano, e diminuendo drasticamente lo spazio dedicato all'informazione. La scelta editoriale non avrà risvolti positivi e gli introiti pubblicitari cominciano a calare in modo impietoso. Nel 2102, per reagire al dissesto finanziario dell'azienda il sig. Giorgio fa "a modo suo": non attiva i contratti di solidarietà e licenzia in tronco alcuni capiservizio e il redattore. Dopo 3 giornate di sciopero e settimane di lotte sindacali, la crisi rientra grazie ad un accordo tra azienda e sindacati mediato dal Segretario nazionale della Federazione Nazionale Stampa Italiana e dall'Associazione Stampa Sarda. L'accordo consente l'attivazione dei contratti di solidarietà, che comportano la rinuncia da parte di tutti i dipendenti a parte degli stipendi per salvare l'emittente e permettere alla stessa di recuperare risorse umane preziose, ed evitare licenziamenti. Ma ad ottobre dello stesso anno - nonostante i lavoratori abbiano accettato le riduzioni di stipendio dovute all'attivazione dei contratti di solidarietà - emerge il completo disinteresse imprenditivo del sig. Giorgio, il mancato pagamento di alcune mensilità, della quattordicesima, e il mancato rinnovamento tecnologico dell'emittente volto alla digitalizzazione, al fine di renderla maggiormente competitiva sul mercato. Infine, il sig. Giorgio vende, a QUATTROMILA EURO. Certo che il sig.Giorgio aveva davanti altre scelte per salvaguardare questa realtà imprenditoriale: poteva vendere altro, poteva decidere di non vendere altro e destinare gli introiti pubblicitari al pagamento di parte del costo del lavoro sottraendo la quota ai profitti, poteva decidere di attingere alle sue riserve, poteva decidere di chiedere un prestito alla banca che presiede, poteva decidere di "fare colletta" presso i suoi amici, poteva decidere di negoziare mutui con altre banche; poteva pensare di non essere l'uomo della Provvidenza che tutto sa e tutto può solo perché ha molti danari in tasca, e affidare la gestione dell'emittente ad un management competente, capace di cogliere le occasioni della digitalizzazione, ricercare altri spazi di income pubblicitario, realizzare accordi con altre emittenti... Infinite soluzioni, volendo. Anche vendersi il c***, volendo.... C’è qualcosa che mi ha sinceramente irritato nell’addio di Silvio Berlusconi al Senato. Non è stata la pantomina dell’Onorevole Bondi e neppure la “sciantoseria “ dell’Onorevole Mussolini, cose di ordinaria amministrazione. Non sono state le signore bardate a lutto in segno di “spregio” nei confronti del popolo italiano (ricordo che la sentenza, passata in giudicato, è stata pronunciata in nome di tutto il popolo italiano) e neppure la sua stanca litania, peraltro scontata, dove ha promesso di non andare via, di continuare ad occuparsi dell’Italia. Anche queste cose ampiamente prevedibil in linea con il personaggio. Non mi ha destato paura il ghigno feroce di Verdini e dei Capezzone e dei Ghedini o dei Brunetta. No, non è stato quello a produrmi l’irritazione anche se, devo ammetterlo, ne avrei fatto volentieri a meno. Quello che, invece, ha suonato come qualcosa di irrituale, inusuale e, lasciatemelo dire, di cattivo gusto, è stata la fotografia, mostrata nella piazza “urlante” che rappresentava il Cavaliere con dietro il drappo delle Brigate rosse e sotto la scritta “prigioniero politico”, quasi a voler ripercorrere, attraverso quella fotografia, la storia del presidente Aldo Moro, divenuta un’icona fortissima per quelli della mia generazione. Io nei 55 giorni di Moro c’ero. Li ho vissuti terribilmente tutti e ne sento ancora oggi le conseguenze e le paure. Ricordo i giorni e i personaggi. Ricordo gli umori, i depistaggi, gli errori di valutazione, le lotte intestine all’interno della democrazia cristiana, le trattative sottotraccia dei socialisti, l’impossibilità di trattare con i comunisti, quelli più disponibili, quelli più duri, un paese in apnea, un mondo nascosto fatto di servizi segreti e logge massoniche. Di P2. Questo ricordo. Ricordo soprattutto (rileggete il bellissimo libro La tela del Ragno di Sergio Flamigni, Kaos edizioni) che nelle prime ore convulse del sequestro, il 16 marzo 1978, rilasciarono interviste politici, economisti, banchieri, tutti iscritti alla Loggia massonica P2. Quei giorni dove hanno parlato i mistici, quelli che avevano trovato, tramite una seduta spiritica cui aveva partecipato Romano Prodi (ma tu guarda) il covo di via Gradoli, dove pullulavano gli scettici, quelli che non hanno mai creduto alle parole di Aldo Moro in prigione; i filo brigatisti pronti quasi a giustificare questa orribile mattanza. Sono stati giorni bui, densi, neri. Nerissimi per la mia tarda adolescenza. Giorni che mi hanno segnato. Ma ricordo – e ho un ricordo nitido – che Aldo Moro non si dichiarò mai un prigioniero politico. Quando ieri ho visto la foto di Silvio Berlusconi (non più Onorevole) con dietro la scritta “brigate rosse” ho avuto come un fremito e un piccolo motto di rabbia. Aldo Moro non è chiaramente Silvio Berlusconi e le storie non si sono neppure sfiorate (anche se, a pensarci bene, il Cavaliere risultava iscritto alla loggia P2 ma, come dire, lasciamo perdere). La visione politica di Aldo Moro, per quanto non condivisibile (e io, personalmente non la condividevo) era, appunto una “visione politica” perché Aldo Moro era, a suo modo, un visionario, uno che aveva capito l’importanza di aprire alla sinistra, di fare un passo in avanti rispetto al vecchio e ormai sorpassato consociativismo. Insomma, Aldo Moro non è Berlusconi e tantomeno la Magistratura può essere rappresentata dalle brigate rosse. Anzi, questa è pura blasfemia. Le brigate rosse, nella loro fulgida follia politica (e senza alcuna visione) hanno rapito i giudici, li hanno feriti e uccisi. E i giudici, con il solito indomito coraggio li hanno processati e condannati. Vorrei poterlo dire a chi teneva stretto ieri, in piazza, quel cartello raffigurante un Berlusconi con dietro la scritta “brigate rosse”. Vorrei poter ricordare che il processo di Aldo Moro fu quanto di più tirannico si potesse costruire: Nessun avvocato, nessuna prova. Il tribunale del popolo (un popolo molto ancestrale, a dire il vero e composto solo da pochi brigatisti) decise per la pena di morte, pena che non esiste per nostra grande fortuna all’interno del codice penale italiano. Vorrei poter ricordare che il processo di Silvio Berlusconi è stato tra i più democratici e garantisti che sono stati effettuati in questo paese: avvocati, testimoni, elementi probatori analizzati in tre gradi di giudizio. Questo vorrei ricordare a chi avvicina la figura martirizzata di Aldo Moro a quella di Silvio Berlusconi. Ognuno ha la sua storia e i suoi processi. Silvio Berlusconi e i suoi “fans” potevano lasciare la scena con dignità. Non sono riusciti a fare neppure questo e hanno imbrattato la storia di un paese segnato da tragedie vere e da altre abbastanza ridicole. Potevano dire, semplicemente, “lo spettacolo è finito”. Probabilmente si sarebbero beccati anche l’applauso. Ma da gente che confonde il dramma di Moro con una sentenza di condanna per frode fiscale non si può pretendere che comprenda l’importanza dei gesti. Ho sostenuto esami di diritto, seguito lezioni di giuristi come Umberto Allegretti, Salvatore Satta, Stefano Rodotà che esortavano alla lettura di Bobbio, Beccaria, Hobbes, Rousseau, Montesquieu. Fra le cose apprese e rimaste nella mente, c’è un’astrazione da cui non riesco a sfuggire: “folli quei popoli che infieriscono sui corpi dei condannati alla forca”. C’è stato insegnato che non è cosa assennata per un paese affidare la selezione della classe politica alle caste occulte e alle élite, perché queste s’incuneano, come torrenti carsici limacciosi, nei centri linfatici del potere, senza aver ricevuto mandato democratico, godendo d’immunità piena e senza che alcuno mostri la vera faccia. Parlo di quel potere che appare impersonale, quello che sghignazza e si tappa la bocca, che dalla tormenta esce sempre indenne, pronto a riprendersi più di quanto avesse per qualche istante abbandonato. E’ il potere che affida ad altre armate, spesso ignare e senza estro, il compito di divulgare la notizia che i vessilli hanno ripreso a garrire sui bastioni della “legalità”. Temo sia altrettanto poco saggio affidarsi ai “processi catartici” di un corpo d’uomo ciondolante, ectoplasma del male, ritenendo in tal modo di esorcizzare le ossessioni che ci divorano. Ho il dubbio che il golem di Berlusconi renda a molti italiani le notti più insonni. La sinistra viene da taluni tacciata di conservatorismo; temo, invece, sia afflitta da perniciosa fissa e finanche da pulsioni reazionarie. C’è qualcosa che mi ha sinceramente irritato nell’addio di Silvio Berlusconi al Senato. Non è stata la pantomina dell’Onorevole Bondi e neppure la “sciantoseria “ dell’Onorevole Mussolini, cose di ordinaria amministrazione. Non sono state le signore bardate a lutto in segno di “spregio” nei confronti del popolo italiano (ricordo che la sentenza, passata in giudicato, è stata pronunciata in nome di tutto il popolo italiano) e neppure la sua stanca litania, peraltro scontata, dove ha promesso di non andare via, di continuare ad occuparsi dell’Italia. Anche queste cose ampiamente prevedibil in linea con il personaggio. Non mi ha destato paura il ghigno feroce di Verdini e dei Capezzone e dei Ghedini o dei Brunetta. No, non è stato quello a produrmi l’irritazione anche se, devo ammetterlo, ne avrei fatto volentieri a meno. Quello che, invece, ha suonato come qualcosa di irrituale, inusuale e, lasciatemelo dire, di cattivo gusto, è stata la fotografia, mostrata nella piazza “urlante” che rappresentava il Cavaliere con dietro il drappo delle Brigate rosse e sotto la scritta “prigioniero politico”, quasi a voler ripercorrere, attraverso quella fotografia, la storia del presidente Aldo Moro, divenuta un’icona fortissima per quelli della mia generazione. Io nei 55 giorni di Moro c’ero. Li ho vissuti terribilmente tutti e ne sento ancora oggi le conseguenze e le paure. Ricordo i giorni e i personaggi. Ricordo gli umori, i depistaggi, gli errori di valutazione, le lotte intestine all’interno della democrazia cristiana, le trattative sottotraccia dei socialisti, l’impossibilità di trattare con i comunisti, quelli più disponibili, quelli più duri, un paese in apnea, un mondo nascosto fatto di servizi segreti e logge massoniche. Di P2. Questo ricordo. Ricordo soprattutto (rileggete il bellissimo libro La tela del Ragno di Sergio Flamigni, Kaos edizioni) che nelle prime ore convulse del sequestro, il 16 marzo 1978, rilasciarono interviste politici, economisti, banchieri, tutti iscritti alla Loggia massonica P2. Quei giorni dove hanno parlato i mistici, quelli che avevano trovato, tramite una seduta spiritica cui aveva partecipato Romano Prodi (ma tu guarda) il covo di via Gradoli, dove pullulavano gli scettici, quelli che non hanno mai creduto alle parole di Aldo Moro in prigione; i filo brigatisti pronti quasi a giustificare questa orribile mattanza. Sono stati giorni bui, densi, neri. Nerissimi per la mia tarda adolescenza. Giorni che mi hanno segnato. Ma ricordo – e ho un ricordo nitido – che Aldo Moro non si dichiarò mai un prigioniero politico. Quando ieri ho visto la foto di Silvio Berlusconi (non più Onorevole) con dietro la scritta “brigate rosse” ho avuto come un fremito e un piccolo motto di rabbia. Aldo Moro non è chiaramente Silvio Berlusconi e le storie non si sono neppure sfiorate (anche se, a pensarci bene, il Cavaliere risultava iscritto alla loggia P2 ma, come dire, lasciamo perdere). La visione politica di Aldo Moro, per quanto non condivisibile (e io, personalmente non la condividevo) era, appunto una “visione politica” perché Aldo Moro era, a suo modo, un visionario, uno che aveva capito l’importanza di aprire alla sinistra, di fare un passo in avanti rispetto al vecchio e ormai sorpassato consociativismo. Insomma, Aldo Moro non è Berlusconi e tantomeno la Magistratura può essere rappresentata dalle brigate rosse. Anzi, questa è pura blasfemia. Le brigate rosse, nella loro fulgida follia politica (e senza alcuna visione) hanno rapito i giudici, li hanno feriti e uccisi. E i giudici, con il solito indomito coraggio li hanno processati e condannati. Vorrei poterlo dire a chi teneva stretto ieri, in piazza, quel cartello raffigurante un Berlusconi con dietro la scritta “brigate rosse”. Vorrei poter ricordare che il processo di Aldo Moro fu quanto di più tirannico si potesse costruire: Nessun avvocato, nessuna prova. Il tribunale del popolo (un popolo molto ancestrale, a dire il vero e composto solo da pochi brigatisti) decise per la pena di morte, pena che non esiste per nostra grande fortuna all’interno del codice penale italiano. Vorrei poter ricordare che il processo di Silvio Berlusconi è stato tra i più democratici e garantisti che sono stati effettuati in questo paese: avvocati, testimoni, elementi probatori analizzati in tre gradi di giudizio. Questo vorrei ricordare a chi avvicina la figura martirizzata di Aldo Moro a quella di Silvio Berlusconi. Ognuno ha la sua storia e i suoi processi. Silvio Berlusconi e i suoi “fans” potevano lasciare la scena con dignità. Non sono riusciti a fare neppure questo e hanno imbrattato la storia di un paese segnato da tragedie vere e da altre abbastanza ridicole. Potevano dire, semplicemente, “lo spettacolo è finito”. Probabilmente si sarebbero beccati anche l’applauso. Ma da gente che confonde il dramma di Moro con una sentenza di condanna per frode fiscale non si può pretendere che comprenda l’importanza dei gesti. Tra una trentina di righe vi parlerò dell'alluvione a Olbia e delle responsabilità della politica, però consentitemi di arrivarci un poco da lontano. Tra due anni, se tutto andrà bene, mio figlio Angelo Mario Giorgioni, di anni undici, potrà guidare l'Autorità portuale di Olbia, ente di governo dello scalo passeggeri più importante d'Italia per numero di arrivi e partenze. Tra due anni, Angelo avrà la licenza media. Esattamente come Fedele Sanciu, attuale commissario dell'Authority, nominato pochi mesi fa dal governo nonostante il suo curriculum di studi fermatosi alle scuole dell'obbligo. Nonostante le migliaia di laureati sardi con master e competenze specifiche a spasso per mancanza di lavoro. Nonostante il porto di Olbia attraversi forse il momento più difficile della sua storia, essendo passato in tre anni dai 5,8 milioni di passeggeri del 2009 ai 3,6 milioni del 2012, emergenza che il buon senso suggerirebbe dover essere affrontata da tecnici esperti con adeguata formazione. Ma Sanciu è uomo di partito: ex consigliere regionale Pdl, ex senatore Pdl, ex presidente della Provincia Pdl. Dove non arrivano i titoli, arrivano la tessera del partito, le amicizie, le feroci logiche di gestione del potere. Esattamente come accaduto ieri per Massidda, decaduto da presidente dell'Autorità di Cagliari ma issato nuovamente sulla stessa poltrona da commissario. Come si può pensare che questa politica del compromesso sia in qualche modo capace di risolvere i problemi e affrontare le emergenze? Questa classe dirigente serve solo a perpetuare sé stessa, senza neppure salvare la decenza e la faccia, imponendo con arrogante disinvoltura le proprie pedine nello scacchiere delle istituzioni. Ora parliamo di Olbia, dell'alluvione e di come la politica abbia gestito la pianificazione del territorio negli ultimi anni. Quando nel 1998 Settimo Nizzi varò la sua prima giunta comunale da sindaco, nominò assessore all'urbanistica l'architetto Enzo Satta. Che non è solo il padre della velina Melissa: Satta, nato a Buddusò nel 1945, dopo la laurea a Roma, il master ad Harvard ed esperienze di lavoro in tutto il mondo venne scelto dal principe Karim Aga Khan come suo principale collaboratore in tema di programmazione urbanistica. Era, insomma, uno dei più qualificati tecnici che il territorio potesse esprimere, chiamato a gestire una delle principali priorità dell'azione amministrativa: la predisposizione del Piano urbanistico comunale. Per come l'ho conosciuto io Enzo Satta è uomo scrupoloso, metodico e dotato di vasta cultura, cui molti rimproverano una certa tendenza allo snobismo. Una personalità di spicco, comunque la si veda. Satta venne cacciato dalla giunta pochi mesi dopo, nel settembre del 1999. Senza una spiegazione ufficiale, mai arrivata, per l'improvviso ritiro di quella delega. È bene precisare che in quello stesso anno l'Aga Khan aveva ceduto la proprietà del pacchetto azionario della Costa Smeralda, dato che eliminava ogni eventuale conflitto di interessi ed una possibile spiegazione per la rottura. Al posto di Satta, Nizzi scelse per il fondamentale assessorato all'Urbanistica un suo fedelissimo del tempo. Livio Fideli, di professione dentista. Fu il dentista Fideli ad illustrare nell'aula del Consiglio, il 24 agosto del 2004, il piano urbanistico comunale di Olbia, approvato due giorni dopo al termine di una seduta fiume tutta occupata dal precipitoso esame di migliaia di osservazioni presentate dai cittadini. Quel piano, cui lavoravano tre professionisti, era rimasto chiuso in un cassetto per anni. Ufficialmente, perché la disciplina regionale era troppo restrittiva. Poi, in quello stesso 2004, si sparse la voce della imminente approvazione della legge salvacoste e dell'intervento d'imperio della Regione, pronta a rilevare le competenze sulla pianificazione in quei Comuni che non si fossero dotati del Piano Urbanistico. Così, quello stesso Piano urbanistico venne tirato fuori dal cassetto, rimesso a lucido, definito in due mesi e poi approvato in tre giorni. Poco importa se poi la stessa Regione lo respinse, ritenendolo incoerente con quanto stabilito dalla salvacoste. Quel che conta di quel periodo storico sono la gestione della pianificazione del territorio e le competenze scelte per gestirlo. La violenza dell'alluvione non può cancellare le tracce lasciate sul terreno dalla storia: ricordiamoci, dunque, che per definire lo sviluppo di Olbia un dentista venne preferito ad un architetto di fama. Ho finito. "Mancanza di un qualsiasi titolo di studio comunque implicante il possesso di competenze anche genericamente raccordabili con la materia". E' uno dei motivi per cui il Consiglio di Stato, nello scorso settembre, aveva rimosso Piergiorgio Massidda, di mestiere specialista di fisiokinesiterapia, dalla presidenza dell'autorità portuale di Cagliari. Massidda era stato sistemato alla guida dell’Ap cagliaritana da Altero Matteoli, ragioniere, pure lui privo di “qualsiasi titolo di studio comunque implicante il possesso di competenze anche genericamente raccordabili con la materia”. Ma tant'è. Appresa la decisione dei giudici, Massidda aveva reagito elegantemente, contestando la sentenza e convocando i giornalisti per porre una domanda inquietante: come avrebbe potuto Cagliari rilanciare il suo porto e mettere paura alla spietata concorrenza? Che ne sarebbe stato dei progetti e dei posti di lavoro? Un casino serio. La gente per le vie di Cagliari era depressa. I fisiokinesiterapisti dell’intera isola, offesi dalla decisione dei giudici, avevano deciso di astenersi dal linfodrenaggio manuale a oltranza. Fortunatamente per il futuro dei nostri figli, al ministero del Trasporti siede oggi un uomo dotato di autentica genialità. Maurizio Lupi, ministro delle sporche intese, è riuscito a estrarre un cilindro dal coniglio (il contrario sarebbe troppo facile). Sarà infatti il commissario Piergiorgio Massidda a prendere il posto del presidente Piergiorgio Massidda, cacciato dai giudici in quanto privo “di un qualsiasi titolo di studio comunque implicante il possesso di competenze anche genericamente raccordabili con la materia”. Così, tutto resta esattamente come prima, alla faccia delle sentenze e del diritto, grazie a un semplice cambio di “etichetta”. D’altro canto, Lupi si era già distinto per la nomina di Fedele Sanciu, anch’egli privo di “qualsiasi titolo di studio comunque implicante il possesso di competenze anche genericamente raccordabili con la materia", a commissario dell’Ap di Olbia. E che ci voleva? Cagliari ritorna a sorridere e la fisiokinesiterapia perde un grande specialista. Il ricorso al Consiglio di Stato era stato presentato da un docente di diritto della navigazione, Massimo Deiana. Lui, il titolo “implicante il possesso di competenze anche genericamente raccordabili con la materia” ce l’aveva sul serio. Ma si sa, quando c’è di mezzo la politica, il titolo non serve. Basta cambiare l’etichetta. Perché prima o poi il cuore comincia a ridimensionarsi. E le lacrime si riposano. E la rabbia comincia a riprendere il letto di un fiume mai dimenticato. Perché gli sciacalli stasera non passeranno a calpestare le nostre storie e perché gli orchi non troveranno il cammino nella girandola delle parole. Noi siamo qui. Ad osservare, muti, la vostra terribile evanescenza, la vostra orribile faccia tosta, quella che sapete usare sempre. Tra matrimoni e funerali. Quella. Noi siamo qui. Per provare a ripartire, a rimetterci le scarpe e saggiare il nostro cammino. Pochi passi. Ma sinceri. Noi siamo qui. A dimostrare l’avversità per chi vede negativo, per chi non sa dipingere la tela del futuro. Noi siamo qui. E non chiediamo. E non piangiamo. E non parliamo. Abbiamo mani dure, nodose e bianche. Abbiamo forza e speranza. Abbiamo una valigia di desideri ma non vogliamo condividerla con chi non sa mantenere lo sguardo davanti alla nostra sofferenza. I giorni passano e le ferite si rimarginano. E il sole asciuga e il vento trasporta le nostre vite. I giorni passano e il sale di un mare forte non riesce a solidificare un domani con risvolti di tranquillità. Noi siamo qui. E ci saremo sempre. Tra le onde e le colline, tra il cisto e l’infinito. Non abbiamo niente da chiedere a chi non riesce a stringere le mani in maniera decisa e forte. Noi non dimentichiamo. Sappiatelo. Noi siamo l’onda spumeggiante di una memoria forte e indefinita. Noi siamo. Quell’acqua che ci ha inzuppato il cuore non ha cancellato le nostre storie, le nostre vite, le nostre forti ramificazioni ad una vita maestosa e degna. Noi siamo, ci siamo e ci saremo. A testimoniare. Per le nostre colline, il nostro mare, i nostri alberi e i nostri figli. Per la nostra terra. Sappiatelo. La vista panoramica di Olbia, che offre la tragica strada di Monte Pino, è molto bella. La città, cresciuta velocemente fino a triplicarsi nel giro di mezzo secolo, e raggiungere 60 mila abitanti, si trova all’imbocco di un lungo e frastagliato fiordo, che funge da porto ben riparato, e che guarda alla magnificenza della gigantesca montagna marina calcarea dell’Isola di Tavolara. Olbia è situata all’apice del ventaglio, al centro di una conca alluvionale coronata tutta intorno da cime granitiche. I corsi d’acqua, a carattere torrentizio, scendono dalla corona di monti a raggiera, ma non affluiscono ad un fiume principale; confluiscono, invece, indipendenti, proprio verso la periferia della città, che si trova così attraversata da ben 16 di questi corsi d’acqua, senza contare quelli fatti scomparire. E Olbia, crescendo disordinatamente, ha trascurato quel bacino idrografico tollerandolo a mala pena. Ha visto questi ruscelli e torrenti non come una ricchezza ma come un ostacolo, un fastidio, una trascurabile e innocua componente della natura, da far fuori al più presto. I corsi d’acqua sono stati costretti, ristretti, tombati, cancellati dalla geografia. Le case sono sorte tutte intorno e sopra di essi. L’asfalto gli ha ricoperti. Certamente oggi, con il senno di poi, con la città piangente, in ginocchio, si poteva pensare di far sviluppare la città in ben altra maniera. Ma la domanda a cui si vuole qui rispondere è: si tratta solo di cattiva politica, cattiva amministrazione, cattiva progettazione urbanistica, o c’è stata anche una violazione ripetuta e continuata delle normative vigenti? Non è un quesito da poco. E non solo per le responsabilità giudiziarie che potrebbero sorgere dalla risposta. Ma anche per la sostanziale gravità della cosa. Con l’infrazione di norme ben precise, non si può invocare la buona fede. Le norme che regolano gli interventi antropici nei pressi dei corsi d’acqua sono abbastanza chiare, nessun rischio interpretativo, nessun rischio di fraintendimento. Un cenno, giusto per capire. Una di queste leggi è vecchia, del 1904, ed ha un nome pomposo, Regio Decreto n. 523. E’ un testo unico sulle acque pubbliche, che fissa una serie di regolette molto semplici, tipo che non si può costruire ad una distanza di 10 metri dai corsi d’acqua, qualunque essi siano (art. 96). Aggiunge, anche (e qui appena appena la cosa si complica) “salvo che regolamenti locali non stabiliscano diversamente”. Ma la giurisprudenza ci giunge in aiuto, precisando che questi regolamenti locali devono derogare la norma in via del tutto eccezionale, ed essere “specifici”, ovvero relativi proprio alla regolamentazione della questione. Ora, ad Olbia, delle due l’una. O nel piano regolatore della città è prevista una regolamentazione della cosa, oppure no. Nel primo caso, si avrebbe una considerazione del problema con una elusione dolosa, nel secondo caso, una trascuratezza per colpa grave. In ambedue i casi, la sostanza non cambia. Si è consentito di costruire entro quella distanza che la norma stabilisce come minima per il normale decorso fluviale. Quindi, come si può vedere, la legge c’è e da tempo. Ma non è finita. C’è la matassa inestricabile della questione demaniale. Dunque, tutti i corsi d’acqua, compresi i rivoli, e persino i letti dei corsi d’acqua abbandonati per qualsiasi ragione, sono demaniali. Ce lo dice il Codice Civile, non una leggina qualunque (artt. 822 e ss). Cioè i corsi d’acqua, tutti (com’è stato poi precisato da una legge più recente del 1994, la n. 36), sono pubblici, e per giunta inalienabili. Non si possono vendere. Chi si è appropriato dei mappali del demanio? Com’è stato possibile ignorare gli spazi pubblici del demanio fluviale? Chi doveva controllare? Pensate un po’. Tutte le abitazioni, nessuna esclusa, che sorge sopra i corsi d’acqua intubati, o cancellati, in realtà sono di proprietà totale o parziale del demanio. E sono tantissime. In pratica l’ufficio del demanio, volendo, può andare presso costoro e richiedere la restituzione del proprio bene illegittimamente detenuto, oppure, come pare stia facendo, chiedere la restituzione del corrispettivo in denaro del terreno, a prezzo di mercato. Si tratterebbe, addirittura, di un reato penale, di quelli cosiddetti permanenti e che dunque non vanno prescritti, da parte dei detentori illegali del terreno demaniale. Se non fosse che costoro la truffa l’hanno subita da altri, se non fosse che costoro sono le vittime, e non i colpevoli. Poi sono arrivati i condoni, uno ogni dieci anni, che non potevano certo sanare l’insanabile. E invece lo hanno sanato, l’insanabile, a quanto pare. Non stiamo parlando di cose vecchie, della ricostruzione del dopoguerra, del boom economico degli anni ’60 o della crisi degli anni ’70. Stiamo parlando di sempre, di ora come di allora. Inutile aggiungere che questo andazzo, questa illegalità diffusa e persistente, ha visto tutte le amministrazioni comunali che si sono succedute protagoniste. Inutile aggiungere che, sul piano politico, l’epoca dei due mandati a sindaco del berlusconiano di ferro Nizzi è stata quella che più di ogni altra ha manifestato apertamente fastidio per le regole urbanistiche promuovendo una idea di liberismo alla quale molti cittadini di Olbia hanno aderito. Negli ultimi decenni, a Olbia, si è creata una strana convergenza di poteri e di interessi, un po’ come quei rivoli che tutti insieme scendono verso la città. Olbia è diventata la capitale di una idea di sviluppo quantitativa, dove l’edilizia la faceva da protagonista. Nizzi è stato il medico di Berlusconi quando questi si recava nella sua residenza estiva olbiese, e lo stesso ex premier con la sua famiglia aveva grossi interessi immobiliari nel territorio. L’ultimo condono, del 2004, promosso dal governo Berlusconi, sanava proprio vari abusi edilizi della residenza ufficiale estiva del Cavaliere, Porto Rotondo, comune di Olbia. Poi è arrivato Cappellacci, fortemente sostenuto e voluto da Berlusconi, ora Presidente della Regione e al centro di feroci polemiche, in questi giorni, per il suo nuovo piano paesaggistico che persegue una idea liberale di sviluppo edilizio. Tutto torna, insomma. Ma se fossero state rispettate quelle leggi, quelle semplici regole, frutto di esperienze maturate in tanti anni di osservazioni e promulgate da saggi legislatori del passato, la disperazione, la distruzione, il fango, il rimpianto, la rovina, tutto questo non ci sarebbe stato. In Italia, proprio i nostri governanti, negli ultimi anni, hanno insinuato l’idea che rispettare le regole è da fessi, e che esse sono una ingiuria alla nostra libertà. Invece, in questo e in altri casi, le regole, spesso, salvano vite umane. Se vi piace vincere facile fate la lista dei politici isolani, del Mezzogiorno o anche dell’intero Paese negli ultimi 60 anni e definite un ranking sulla base delle loro visioni e competenze esplicitate e messe alla prova da policies reali in diversi segmenti del vivere sociale, culturale ed economico. Stabilite pure una dead-line, una sorta di linea della povertà al di sotto della quale si trova il decimo girone dell’inferno, mai scritto da Dante, ma solo immaginato con l’affollarsi dei dannati che si torcono dal dolore infilando la loro testa dentro il proprio culo, in onore del peccato dell’arroganza del pensiero non supportato da vere energie. Infine, contate chi sta sopra e sotto questa linea: al di sopra il deserto o qualche rara perla simile ai pochi cactus nel deserto messicano; al di sotto l’enorme massa stretta in poco angusto spazio, come i bagnanti alla II fermata del poetto il giorno di ferragosto.. Insomma, che sia Pili, Cappellacci, Porcu o Vattelapesca a mano sinistra… il discorso cambia poco. La patente di inadeguatezza è presto consegnata, chiavi in mano, ieri come oggi. E sui discorsi di incapacità della classe politica concordo in pieno. Su Soru, il discorso è leggermente diverso: persone di questa caratura, con tali visioni, capitano rare volte nel paesaggio terrestre del Sud ma soprattutto, arrivano in ragione della chiamata dei più. Il carisma non si svela se non nei momenti e nei contesti in cui è ardentemente desiderato e fortemente invitato a rivestire ruoli specifici da folla ansimante. La fortuna volle, allora, che Giove entrasse in asse con Saturno… insomma, la faccio breve: Soru è stato una spanna oltre su molti per molti motivi non solo legati alle sue intime capacità; ma altrettante cause – spesso legate alla conseguenze della radicalità delle scelte prese in solitudine o di tratti di carattere e di pensiero che paradossalmente lo votarono alla fortuna – lo hanno condannato alla caduta. Punto. Ha perso e tentare di rinverdire quegli elementi di carisma che hanno aperto la sua porta di destino felice sarebbe triste illusione; un po’ come chiedere a chi ha dato danari a mamma Ebe per tanti anni di continuare a farle mandati di pagamento dopo le ripetute carcerazioni. È la logica del gioco carismatico, bellezza: la fiducia è merce così rara da nascere, accumularsi e gestire che, una volta persa, ridarle tono è cosa di difficoltà estrema. Quindi, niente scandalo se il figlio dei gestori di market continua a rivendicare come suoi elementi che ne hanno segnato il successo nel mercato e, in seguito (con questo assolutamente simile a Mr. B.), nell’arena politica: che cazzo dovrebbe fare, inventarsi qualcosa di nuovo quando ha reputato e giudica il PPR come elemento caratteristicamente identitario della sua esperienza di governo? Tornerà sempre su questi elementi, sarà un refrain continuo, anche in ragione del continuo assalto alla diligenza compiuto dalla Cappellacci Band. Il PPR è perfettibile, lo ricordano in tanti in questo disgraziati giorni. Il PPR si può adeguare in modo flessibile alle esigenze necessariamente eterogenee del territorio. Ma non si può MAI mettere a rischio vita alcuna pensando che sia la vita ad adeguarsi alle ragioni e alle regioni di certa economia, e di certa economia fatta di cemento. Questo no. E in ciò il PPR ha creato un serio argine, bisogna riconoscerlo. La politica ha perso credibilità perché vive e vegeta in una società parallela. Chi riesce a entrarvi, è immune dai meccanismi causa/effetto, almeno come noi, poveri stupidi, continuiamo a interpretarli. Può sbagliare e restare al suo posto, può rubare e scampare alla galera, può dirigere un settore cruciale del Paese senza avere alcuna competenza per farlo, può avere uno stipendio da favola e diventare famoso e potente semplicemente leccando e/o donando l’ormai inflazionato culo alla persona giusta. Una volta entrati nel giro, non si esce. E’ proprio difficile uscirne, occorre davvero impegnarsi a fondo. E’ come a teatro. Anche quando la rappresentazione fa cagare, si applaude comunque. Nessuno fischia più, non sta bene e ci mancherebbe, poverini, al limite un applauso tiepido. La commedia italiana fa pena perché gli attori sono dei cani. Ma, quando qualcuno stecca, viene difeso e sollecitato a restare a suo posto. Così la signora Cancellieri Anna Maria, che andrebbe cacciata con nota di biasimo dal popolo italiano perché gli unici sigilli che guarda sono quelli dei suoi amici potenti e delinquenti, è ovviamente rimasta al suo posto. Indignata per quella parola, sfiducia, così antipatica. Prima di lei, Alfano Angelino, con rara codardia, ha scaricato sul capo di gabinetto del suo ministero le responsabilità, tutte sue, della vergognosa gestione del caso Shalabayeva, una pagina infamante che grida vendetta se davvero le regole democratiche il diritto internazionale significano ancora qualcosa per qualcuno. Dimettersi? E perché mai? La società parallela non contempla dimissioni, tutto è possibile e non ci sono conseguenze, nessuno ti chiede conto e se anche te lo chiedesse è pur sempre in minoranza. In politica vige la logica del branco. Qualche lupo spaurito ulula il suo dissenso ma è lasciato al suo destino e, per evitare di tornare nel mondo degli sfigati, rientrerà presto nel branco con la coda bassa. E’ il mondo perfetto. Se ne fai parte, controlli un sacco di altre cose, perfino l’informazione. Bastano due lacrimucce spinte a forza, qualche frase di circostanza e puoi affamare i pensionati. Puoi costringere malati terminali a staccare il respiratore per mendicare un incontro con te e nessuno dei tuoi colleghi ti chiede di andartene al diavolo, avversari compresi. Puoi dire in faccia ai sardi che non chiuderai i poligoni tumorali e passare le vacanze qui, servito e riverito, slinguazzato e adorato. C’è la fila per entrare nel mondo perfetto. Che poi è un mondo concentrico. Vi risulta che la voce dimissioni sia contemplata in altri enti o istituzioni? Pensateci. E’ la formula perfetta. Qualsiasi risultato ottenga, il politico del 2000 non risponde a nessuno se non al suo branco, che lo protegge. Non c’è neanche più bisogno di farsi il mazzo in campagna elettorale, il sancta sanctorum ha già deciso chi sta dentro e chi no, chi vince la lotteria e chi dovrà accontentarsi del secondo premio oppure salterà un giro, magari per difetto di accondiscendenza verso i superiori. E’ un meccanismo perverso che sta avvelenando la società e portando il Paese verso la rovina. Questa non è più politica. E’ autoconservazione della specie, uno schiaffo alla logica che non ci porterà mai da nessuna parte. Cinque anni fa, la villa di Arzachena dove sono morti i quattro componenti della famiglia Passoni era stata travolta da un'altra piena del fiume. Allora andò bene, ma gli inquilini del tempo (anch'essi brasiliani) avevano raccontato del pericolo scampato.
Un assessore comunale, l'avvocato Rino Cudoni, formulò una richiesta all'ufficio tecnico per domandare quale legittimità e quali garanzie di sicurezza vi fossero nella sempre più frequente trasformazione in locali residenziali di scantinati destinati a tutt'altro uso. Nel caso specifico, quella cantina era stata concepita per essere un locale per la lavorazione delle carni. E, in definitiva, quella ricerca di chiarimenti significa che qualche preoccupazione esisteva. Però sull'approccio culturale ai disastri noto che certa informazione segue fedelmente l'esempio della politica. Si parla di soccorsi e contributi pubblici post emergenza, si parla poco o nulla di quel che l'uomo può fare per evitare o limitare i danni provocati da questi eventi atmosferici. E ora vengo al punto. Oggi il direttore de L'Unione Sarda sostiene che Renato Soru voglia "speculare sulla tragedia, cercando con astio e aggressività una rinnovata visibilità". Lo scrive commentando la gazzarra televisiva scatenata ieri su Rai Uno dal confronto tra Soru e Cappellacci. Per il direttore questi dibattiti televisivi sono un serio problema e non fanno bene alla Sardegna. Probabilmente si riferisce ai confronti basati sul conflitto tra due opposte visioni in tema di pianificazione urbanistica, un confronto che sta pericolosamente finendo per restituire attenzione al Piano paesaggistico regionale varato nel 2006 e per porre pesanti interrogativi sulla sua recente revisione. Il Ppr in vigore è certamente perfettibile nei aspetti tecnici - oggi Francesco Pigliaru, su La Nuova Sardegna, ne individua il punto debole nel suo impianto conservatore - ma resta l'emblema di un atteggiamento più rigoroso e responsabile nel rapporto tra ambiente e cemento. Ed è esattamente per questo motivo che Soru torna ad apparire con una certa frequenza in televisione. Ora facciamo un passo indietro. Quel Piano paesaggistico è stato, nei suoi quattro anni e mezzo di mandato a capo della Regione, la principale ragione dell'asperrima guerra tra Soru e L'Unione Sarda. Siccome si tende a dimenticare facilmente anche il nostro recente passato, sarà bene ricordare la giornaliera demolizione dell'opera di quella giunta compiuta da quotidiano e televisione di Sergio Zuncheddu, attraverso una linea editoriale ferocemente ostile a quel governatore. Non ci sarebbe nulla di male nell'atteggiamento di un organo di stampa che attacca a testa bassa la politica perseguita da un'istituzione. Dovrebbe, anzi, essere la normalità, purché si portino argomenti e fatti dimostrabili. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che l'editore Sergio Zuncheddu è anche un costruttore con interessi palesemente in conflitto con il giro di vite al cemento imposto dal Piano paesaggistico di Soru. Zuncheddu è il padrone delle Città Mercato, Zuncheddu è colui che ha costruito sulle coste di Olbia il gigantesco villaggio Olbiamare con porto turistico incorporato, Zuncheddu è l'ideatore del fallito tentativo di edificare un nuovo complesso residenziale sullo stagno di Porto Giunco, a Villasimius. Zuncheddu è anche il proprietario delle torri di Santa Gilla, a Cagliari, dove oggi hanno sede le redazioni del suo gruppo e che nel 2004 avrebbero dovuto essere acquistate dalla Regione, prima che Soru bloccasse l'operazione. È insomma evidente la totale incompatibilità di prospettive tra il padrone de L'Unione Sarda e l'indirizzo politico impresso da Soru alla sua giunta. E questa, purtroppo, resta la principale debolezza dell'informazione de l'Unione Sarda, quando affronta questi temi. Ora, di Soru si può pensare tutto il male possibile e pure a ragione, visto il suo carattere dispotico e la sua innegabile tendenza all'accentramento. Lo si può contestare per l'inaccettabile percentuale di assenze in Consiglio regionale, segnale orribile di disinteresse verso l'attività del parlamento sardo. Però non basta accusarlo di speculare per fini politici sulla tragedia intervenendo in uno show televisivo. Bisogna contestare i suoi argomenti nel merito, se si vuole apparire credibili. Specula perché dice sciocchezze per averne, forse, un ritorno politico? Soru non ha partecipato alle primarie del Pd ed è fuori dalla corsa alla Regione, come tutti sanno, cosicché al momento non compete in nessuna corsa elettorale. Si potrebbe essere tentati di credere che il vero problema non sia tanto l'asserito, deprecabile speculare sulla tragedia, quanto il ritorno di popolarità dell'ex presidente della Regione e delle idee da lui proposte in tema di urbanistica. Soru, nello stesso giorno, ha rilasciato un'intervista a Il Fatto Quotidiano e a Skytg24 dove ha sostenuto non apparirgli normale che una famiglia potesse vivere nello scantinato di una villa costruita sulle sponde di un fiume. Ha speculato sulla tragedia per avere espresso questo suo convincimento? O forse gli speculatori sono altri? Li ho visti stamattina sparsi come un nugolo di insetti. Oltre duecento bimbetti della scuola media a cui abbiamo offerto asilo politico per le condizioni del loro istituto, reso inospitale dall’alluvione. Noi siamo vicini a loro. Vicini territorialmente e vicini col cuore. Ho visto i loro occhi curiosi, ma anche smarriti. Vagavano con quell’ingordigia tutta infantile desiderosa di fagocitare il mondo, ignara forse dei disagi che la situazione porta con sé. Parlavano sottovoce, mentre percorrevano i corridoi che conducevano alla loro nuova sistemazione. Guardavano dal basso in alto i ragazzoni delle classi V e non solo per una questione di altezza, era uno sguardo sottomesso il loro. Timoroso e ammirato. Sono i bambini dell’Istituto Comprensivo, termine col quale si intende un immobile che accorpa diversi ordini di scuola. Solitamente scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado. Ogni manuale di pedagogia che si rispetti sconsiglia di provvedere all’accorpamento anche della scuola secondaria di secondo grado, perché le dinamiche comportamentali degli adolescenti mal si conciliano con quelle dei bambini. I nostri alunni hanno gli ormoni spettinati, sono desiderosi di dimostrare al mondo che ormai sono cresciuti, che sono in grado di decidere le regole e spesso, per urlare la loro presenza, quelle stesse regole le infrangono in una provocazione continua. Diciamo che i nostri ragazzi non sono tutti splendidi splendenti e, insieme ad una moltitudine di alunni bravi e rispettosi, ne custodiamo anche qualcuno che proprio bravo e rispettoso non è. Mi ero scordata un libro in macchina e, mentre mi accingevo a tornare in classe dopo il suo recupero, in un corridoio semideserto ho visto in lontananza uno di quei piccoli nuovi arrivi, solo e smarrito che probabilmente al rientro dal bagno non trovava più la sua nuova aula. O forse in bagno ci stava andando e non si orientava bene nella grandezza del nostro edificio. Dall’altro lato del corridoio uno di quei ragazzoni poco splendidi e splendenti anzi, diciamolo pure, abbastanza, opaco gli andava incontro. Sono rimasta lì ferma, un po’ nascosta, a monitorare la cosa. Con vent’anni di servizio sulle spalle ho avvertito che si stava per delineare una situazione che, per dirla in termini assolutamente attuali, presentava un livello di criticità abbastanza elevato. Il ragazzone si è avvicinato al piccolino, si è chinato e gli ha detto qualcosa che la distanza dai due mi ha impedito di sentire. Il bimbetto gli ha risposto qualcos'altro, con vergognosa fronte direbbe Dante. Non lo guardava in faccia, si osservava le scarpe. Era evidente che subiva quella presenza con disagio e soggezione. Fino a quando quello alto si è proprio genuflesso accanto a lui, gli ha sistemato la sciarpa che gli pendeva da un lato, lo ha preso per mano e sono andati insieme non so dove. Ed io allora sono rimasta lì un’altra manciata di minuti a ricacciare in gola quel nodo nodoso che m’impediva di inghiottire. Sono rimasta lì un’altra manciata di minuti a ripiegare la moltitudine di pensieri per metterla in tasca e custodirla con cura, ché simili emozioni non devono andare via in pochi istanti. Uno dei fenomeni più globali: uomini che fanno violenza verso donne che spesso, troppo spesso, subiscono in silenzio e solitudine; spesso, troeppo spesso, muoiono della stessa violenza. Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ed è giusto cercare di vedere questo dramma dal punto di vista mondiale, e non solo con occhio italico. Tra le diverse Istituzioni e organizzazioni che nel mondo si occupano di questa disgraziata condizione dell’umano genere, sia in termini di analisi statistica-sociale-psicologica, sia in termini di prevenzione, richiesta e attivazione fattiva dei diritti laddove questi latitano, assistenza psicologica, sociale e legale per le vittime e tanto altro lavoro di fondamentale importanza, c’è l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che produce uno dei pochi lavori capaci di analisi comparativa del fenomeno a livello globale, il Global and regional estimates of violence against women:prevalence and health effects of intimate partner violence and non-partner sexual violence (http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/85239/1/9789241564625_eng.pdf). Lo studio, pubblicato a giugno 2013, attinge a 26 diversi database e combina 185 studi relativi a 86 Paesi, talvolta difficilmente confrontabili tra loro. Si tratta del primo Rapporto che sintetizza tutte le indagini sugli abusi sulle donne realizzate nel mondo, mettendo insieme le informazioni relative ai maltrattamenti da parte del partner con i casi di violenza sessuale. Cosa dice il Rapporto? Che a livello globale, il 30% delle donne ha subito violenza domestica nel corso della vita, con valori regionali più elevati per Africa, Mediterraneo orientale e Asia dell’Est. In particolare (vedere la cartina), il tasso di donne che hanno subìto violenza dal partner nelle diverse aree del mondo riguarda rispettivamente, le Americhe per il 29,8%; l’Africa occidentale per il 36,6%; le Regioni del Mediterraneo orientale per il 37%; l’Europa occidentale per il 25,4%; il Sud Est asiatico per il 37,7%; le Regioni del Pacifico occidentale per il 24,6%. Complessivamente il 35% delle donne ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita e il 38% degli omicidi di donne sono stati commessi dai partner. Dunque, se il picco massimo si registra nei Paesi del Sud Est asiatico, anche nei Paesi ad alto reddito (Israele, Stati Uniti, Australia, Corea del Sud e la maggior parte degli Stati dell'Europa occidentale, come Germania, Svizzera, Svezia, Norvegia, Francia e l’Italia) una quota rilevantissima delle donne intervistate ha sperimentato la violenza sulla propria persona: il 27,9% delle tedesche ha subìto violenza fisica, contro il 12,2% dell'Italia, l'11% della Svezia e il 9,95% della Svizzera. Insomma, ci sono pochi dubbi sul fatto che quando si parla di femminicidio e di violenze le differenze di sviluppo socio-economico sembrano non avere peso: il tasso di violenza non dipende dal reddito ma la variabile da cui dipende maggiormente è l'educazione. Dalla ricerca emerge che negli ultimi 10 anni la violenza all'interno della coppia è aumentata in modo incredibilmente acuto: a livello globale il 38% dei femminicidi è commesso dal partner. Il dato è elevatissimo nel Sud Est asiatico (55%), benché anche in questa area del mondo povertà e ricchezza non servano a spiegare il fenomeno: anche tra le nazioni più ricche dell'area, il 41% delle vittime muore per mano del proprio compagno.Su 86 Paesi analizzati, lo Stato con il maggiore tasso di violenza è il Congo: qui il 56,9% delle donne ha subìto una qualche offesa fisica. Seguono il Bangladesh con il 48,7%, lo Zambia con il 39,6%, l'India con il 35,1% e la Colombia con il 33,4%. Se poi si guarda al dato Italiano (dati Istat) sembra non esserci una stretta correlazione tra una supposta cultura mediterranea del machismo e la violenza di genere: infatti, nel nostro Paese le quote più elevate di donne che hanno subito violenza fisica o sessuale da un uomo qualsiasi si rilevano nelle regioni del Nord, in alcune del Centro e, in particolare, nei centri metropolitani (42 per cento): in Emilia-Romagna e nel Lazio le vittime sono oltre il 38 per cento della popolazione femminile, in Liguria il 35,4 per cento (a fronte di un valore medio nazionale pari a 31,9 per cento). Complessivamente sono quasi 4 milioni le donne in Italia che hanno subito violenze fisiche, mentre 5 milioni sono state vittime di violenze sessuali e, tra queste, circa 1 milione ha subito stupri o tentati stupri. I partner (o ex) risultano responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica, e anche di alcune forme di violenza sessuale (in particolare gli stupri e i rapporti sessuali non desiderati ma subiti per timore di conseguenze). Il dato sconfortante è che solo il 7,3 per cento di coloro che subiscono violenze fisiche o sessuali dal partner le denuncia: per paura, senza dubbio, ma anche perché solamente una donna su tre le considera reati. Le quote di donne che sporgono denuncia sono inferiori alla media nazionale; non solo in tutte le regioni del Sud (a eccezione della Puglia), ma anche in alcune regioni del Nord (Piemonte 5,8 per cento e Emilia-Romagna 5,1 per cento). Se ci si riferisce solo a “stupri o tentativi di stupro”, la percentuale delle donne che si considerano vittime di un reato sale al 26,5 per cento, ma le denunce restano limitate al 4,1 per cento dei casi di violenza. Dietro i numeri (tanti, troppi) il segno del dolore, fisico e psichico di chi ha subito; quello degli affetti più cari che piangono la donna uccisa. Dietro i numeri l’urgenza di un universo di relazioni tra generi che necessita ancora di tanto lavoro educativo delle Istituzioni verso un mondo regolato dal rispetto di genere. Dietro i numeri la necessità di continuare nel solco del Decreto legge contro il femminicidio e la violenza sulle donne approvato recentemente dalle nostre Istituzioni. Non è poco ciò che si è riusciti ad ottenere con questo Decreto: l'aumento di un terzo della pena se alla violenza assiste un minore e/o se la vittima è in gravidanza e/o se la violenza è commessa dal coniuge (anche se separato) e dal compagno (anche se non convivente); l'arresto obbligatorio in caso di flagranza per reati di maltrattamento familiare e stalking; l’allontanamento del coniuge violento da casa; la querela irrevocabile la corsia giudiziaria preferenziale (i tribunali potranno adottare delle corsie preferenziali per i processi per femminicidio e per maltrattamenti); il patrocinio gratuito per chi è vittima di stalking o maltrattamenti e non si può permettere un avvocato; il permesso di soggiorno alle vittime straniere; l’informazione continua alle vittime sull'iter giudiziario del colpevole. Non è poco, ma resta il resto. Restiamo noi nel nostro quotidiano domestico e il necessario sforzo della costruzione e tutela di una cultura fattiva del rispetto reciproco. Le parole hanno un senso. Di questo ne era profondamente consapevole un intellettuale lucidissimo , forse il più grande del novecento: Pier Paolo Pasolini. In un articolo contenuto su “scritti corsari” , nel 1974 (uno dei miei libri sul comodino) Pasolini si sofferma su due parole, apparentemente vicine e, come dire, ottimistiche e positive: Sviluppo e progresso. Si chiede, in premessa, se le due parole siano da considerare dei sinonimi o se siano due fenomeni diversi che si integrano necessariamente fra di loro o, ancora, se indicano due fenomeni “opposti” che, solo apparentemente, coincidono e si integrano. Da queste premesse Pasolini ci accompagna in un viaggio molto interessante che seppure dobbiamo filtrare con gli occhi dei giorni nostri (sono passati quasi quarant’anni) ci porterà a comprendere alcune prese di posizione e polemiche che hanno alimentato la politica di questi giorni, soprattutto la politica sarda, alla luce della recente alluvione e conseguente disastro dovuto, essenzialmente alle scelte scellerate degli uomini (uomini, ahimè, comunque sardi). La parola “sviluppo” - secondo Pasolini - ha una rete di riferimenti che riguardano un contesto di “destra”. Pasolini sostiene, infatti, che a volere lo “sviluppo” è colui che ha ragioni di un immediato interesse economico e quindi ha interesse a produrre beni “superflui” da immettere sul mercato e rivenderli e chi acquista questi beni è un “consumatore d’accordo nel volere lo sviluppo perché per essi significa promozione sociale e liberazione”. Il progresso, invece, lo vogliono - sempre secondo Pasolini - “coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare” e lo vuole quindi, chi lavora e dunque è sfruttato.” Il progresso è una “nozione ideale là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico.” Ricordo queste cose perché sono importante anche se, lo capisco, rischiano di essere complesse nei passaggi e nei ragionamenti, ma necessarie per comprendere quello che oggi è accaduto e che nasce dalle parole che divengono scelte politiche. Perché di questo si tratta: si può sostenere lo sviluppo a tutti i costi o, come si dice oggi, con una correzione ideologica quasi naturalistica “sostenibile”, oppure si può scommettere tutto sul “progresso” anche se (e lo ricorda sempre Pasolini) a quanto pare non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo. Subito qualcuno potrebbe obbiettare che questa differenziazione oltre ad essere ideologica e di parte è superata dagli eventi. Ne è convinto anche Pasolini nell’articolo del 1974, cancellando le false ideologie e schieramenti e mettendoci davanti ad un’atroce realtà: la destra sostiene lo sviluppo e lo mantiene ogni qual volta è al potere. Oggi si direbbe che fa cose di destra, lecite per carità, ma di destra. Il problema è però un altro: la sinistra che vuole il ”progresso” per governare accetta “lo sviluppo” e, soprattutto accetta questo tipo di sviluppo stigmatizzato da Pasolini come industrializzazione totale. Certo, le cose sono cambiate, i muri sono crollati e parlare di tecnologia borghese oggi fa senz’altro sorridere ed è sicuramente un modo di vedere le cose probabilmente superato. Ma non è superata l’analisi lucida dell’articolo dell’intellettuale scritto - lo ricordo - nel 1974. Da anni, in qualche modo, soprattutto nelle realtà locali abbiamo assistito a governi di destra o di sinistra (meglio: di centro destra e centro sinistra) ed ognuno di essi ha parlato di sviluppo del territorio. Magari qualcuno di sinistra si è soffermato sul progresso e sull’essere progressista e non conservatore. Di fatto però, quello di sinistra (o di centro sinistra) quando ha potuto governare si è comportato proprio nello stesso modo di Lenin che, dopo una campagna all’insegna del progresso, una volta ottenuta la vittoria nella rivoluzione, ha cominciato a parlare di grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Insomma, ho letto e riletto le parole scritte da Pier Paolo Pasolini e mi è sembrato giusto parlare da queste premesse per poter concludere un semplice ragionamento perpetrato da tutti in questi anni nel nostro paese, nella nostra regione, nei nostri comuni: si è parlato di sviluppo e in nome di questa parola si è costruito dove non si doveva e poteva costruire, ci sono stati i condoni per permettere lo sviluppo del paese, abbiamo privatizzato (e continuiamo a farlo) per ottenere lo sviluppo, continuiamo a discutere di sottosviluppo e contrapponiamo lo sviluppo equo, sostenibile (a mio parere, sviluppo sostenibile è un ossimoro). Nessuno, insomma, parla più di progresso, del concetto di progresso, di quel voler progredire partendo dalle cose costruite in precedenza. Noi, confondiamo le parole e anziché provare a comprenderle e soffermarci, ci riempiamo la bocca di concetti poco conosciuti e deleteri: in nome dello sviluppo abbiamo costruito nei fiumi, abbiamo allargato le città abbandonando i centri storici, abbiamo costruito sulle spiagge, sui fiumi, abbiamo elevato autostrade deturpando il paesaggio, tutto per rincorrere uno sviluppo che oggi si scopre insostenibile. Abbandonando quel progresso fatto di piccoli passi, di attenzione alle cose. Si progredisce se si conosce, e si mantiene se si è progrediti in maniera dolce e non selvaggia. Il progresso è dedicato al futuro con gli occhi del passato, lo sviluppo è la velocità senza radici. Dovremmo cominciare a soffermarci sulle parole e sui concetti. Dovremmo cominciare a chiedere a chi ci governa cosa intende fare di noi, del futuro dei nostri figli: vuole lo sviluppo o vuole il progresso? E in base a questo dovremmo cominciare a scegliere. Dovremmo ritornare alla politica, a quella seria. Non è più il tempo degli slogan o delle parole macinate e rigettate in un palco. Non è più il tempo dei sorrisi e degli imbonitori. Le parole hanno un peso e determinano le scelte e il futuro e decidono il colore del nostro orizzonte. Non dimentichiamolo. Dov’è finito il sole? L’umidità entra nelle ossa, il cielo è sempre grigio, la pioggia continua a cadere su Olbia. Ho il suono delle sirene fisso in testa, il bagliore dei lampeggianti si riflette sulle pareti. Ho sentito dolore, rabbia, tristezza, sconcerto, disperazione, angoscia. Ho visto aiuto, calore, sorrisi, conforto, amore, solidarietà. C’è tutto in questa tragedia. C’è il Paese che non funziona: quello delle auto blu che viene a fare presenza con visite sprint ed elargire spiccioli; quello che organizza imponenti esercitazioni sulle emergenze e poi, quando capita quella reale, nessuno sa cosa deve fare; quello che lancia allerta meteo come fossero bruscolini per sentirsi al riparo da qualsiasi responsabilità penale, non sia mai che il processo sulla mancata evacuazione della popolazione dell’Aquila faccia proseliti; quello che incassa le tasse ambientali e ne destina una briciola, l’1%, alla sicurezza del territorio; quello che chiede ai Comuni di gestire i conti per benino e poi li costringe a tenere in banca 50 milioni che dovrebbero essere spesi sulla sicurezza; quello che ci guarda da lontano e che racconta ai telespettatori del servizio pubblico che il fiume Cedrino ha travolto Arzachena, che non censura le parole di un’europarlamentare imbecille e ignorante alla quale è concesso di offendere impunemente un intero popolo; quello che invia un ministro dei Trasporti sui luoghi del dolore e che il giorno dopo lo vedi ridere e scherzare all’inaugurazione del suo nuovo partito, dove si trova decisamente più a suo agio, uno che starebbe meglio fisso ai talk show; quello che scarica sui Comuni tutte le responsabilità; quello che costruisce scuole sopra i canali e meno male che quando scoppia tutto i bambini se li sono appena portati via i genitori; quello che il fango ce l’ha in casa ma ormai c’è talmente abituato da non vederlo nemmeno; quello che vuole farci credere di avere la coscienza pulita. E poi c’è il Paese che funziona: quello che si butta a nuoto per salvare gli altri; quello che ruba le barche per perlustrare le case; quello che lavora giorno e notte per aiutare gente sconosciuta; quello che finisce di spalare il fango e riprende a fare il pane per distribuirlo gratis; quello che si mette in ferie per distribuire aiuti; quello che prende una nave e va ad aiutare dove serve; quello che non riesce a perdonarsi di non aver potuto salvare chi chiedeva aiuto; quello che non ha più niente ma ti regala comunque un sorriso; quello che le scuole sono chiuse e allora ci si alza alle sette e si va a spalare fango nelle case; quello dei nostri vecchi che vivono con quattro soldi e mantengono i nipoti. Il Paese che funziona siamo noi, la gente comune. E forse, mia adorata Olbia, è arrivato il momento di guardarsi negli occhi. Abbiamo spensieratamente abboccato a ogni amo, per decenni. Abbiamo semplicemente fatto finta di niente, seguendo le sirene della crescita e mettendo insieme blocchetti dovunque. Abbiamo considerato i letti dei fiumi come ostacoli da deviare, interrare, intubare, deviare perché ci si doveva costruire sopra. Dimenticando il buon senso, la logica, persino la saggezza popolare, ci siamo accodati a personaggi la cui ignoranza era pari solo alla loro brama di danaro e potere. E questa è una responsabilità che non può essere trascurata, se davvero vogliamo imparare la lezione. Ma diciamolo che la colpa è anche nostra, che siamo vittime e carnefici, che siamo stati in parte artefici del nostro destino. E diamo un’occhiata generale alla situazione, a 360 gradi. Non avere programmazione (Olbia non ha un piano urbanistico) significa mettere in condizioni la politica di decidere discrezionalmente chi può costruire e dove può farlo. Essendo la politica uno strumento nelle mani di interessi singoli o corporativi, è evidente che ciò rappresenta una fonte di potere immenso. Le briciole sparse tutto intorno al piatto principale rappresentano la ricompensa per chi ha creduto, votando nella giusta direzione, di aver fatto la scelta giusta per sè e i suoi amici e familiari. Questo sottobosco di presunti furbetti va dal professionista al manovale. Olbia è sempre stata una città devota al blocchetto, tutta proiettata in quel vortice di sviluppo che, dalla fine degli anni ’60, ha prodotto una crescita esponenziale del tessuto urbano, senza freni né regole. Qui abbiamo sedici fastidiosi corsi d’acqua assediati dalle case e diciassette quartieri abusivi condonati, molti dei quali hanno condizioni di urbanizzazione da terzo mondo. Lo dico perché in uno di questi quartieri ho abitato per pochi mesi, in affitto, prima di fuggire a gambe levate. I rubinetti, per capirci, erogano l’acqua che servirebbe per irrigare i campi, le strade sono dissestate e senza asfalto, manca la pubblica illuminazione, le fogne sono affidate agli autospurgo. Posti dove si alternano fango e polvere. E questo andazzo non ha risparmiato la “perla” di Olbia, il litorale di Pittulongu, presa d’assalto dal cemento. Un intero paese abusivo è sorto alle spalle delle spiagge, interi stagni sono stati cementificati, così come i corsi d’acqua che avevano una funzione essenziale per gli equilibri naturali. Olbia non si è curata troppo di quel che stava accadendo. Era una storia da manette ma quando la magistratura (sempre lontana, troppo lontana da qui) se ne accorse, era già tutto (pre)scritto. Come abbia fatto a non accorgersene prima, la giustizia, resta un autentico mistero. Di demolizioni non si è mai parlato eppure quello scempio, in un’area ad altissimo rischio idrogeologico, doveva essere abbattuto, stroncato sul nascere. Invece è stato legalizzato. Così i furbi hanno vinto ancora. Dietro questo trionfo di cemento c’è un’intera classe politica che si è alternata alla guida di Olbia negli ultimi 40 anni, complice il silenzio/assenso di una città in altre faccende affaccendata. Una decina di giorni fa, prima del disastro, leggevo la relazione di un sindacalista sulla crisi del mercato immobiliare. C’era scritto che Olbia, allo stato attuale, presenta 4000 case invendute. Significa che la bolla è esplosa. Ma, anziché fermarsi a ragionare, sembra che l’unica via di uscita sia continuare a costruire, perchè il comparto non può fermarsi, perché i soldi devono continuare a girare. Vendi e costruisci, costruisci e vendi e non ci si può bloccare. Ora la ruota si è fermata sul serio e occorre ripensare il futuro. Noi olbiesi dobbiamo fare la nostra parte, senza più deleghe in bianco, scegliendo i nostri rappresentanti con la testa anziché con la pancia, controllandoli e contestandoli quando serve, partecipando alle scelte e non subendole, facendo tesoro della lezione. Lo dobbiamo a chi non potrà rivedere il ritorno del sole. Che arriverà, prima o poi. Il prossimo disastro annunciato. di Fiorenzo Caterini Capoterra, 1999. Villagrande, 2004. Capoterra, 2008. Olbia, 2013. Ogni 4 o 5 anni. Questa è la spaventosa regolarità con la quale la Sardegna viene colpita dalle alluvioni. Una regolarità che non lascia scampo. Questa è la peggiore che si ricordi, si dirà, almeno per numero di vittime, il che potrebbe lasciare pensare che si tratti di un evento tanto episodico quanto catastrofico. E invece no. La prossima alluvione potrebbe anche essere peggiore. Occorrerebbe spiegare, infatti, a chi, soprattutto amministratori e politici, si affannano a dichiarare l’eccezionalità dell’evento, di modo che le responsabilità politiche vengano offuscate dal destino cinico e baro, che, in realtà, non si tratta di eccezione, ma di una crescita negativa del fenomeno, dovuta ad una progressiva antropizzazione del territorio alla quale si unisce l’incognita sempre più concreta, invero, dei cambiamenti climatici. E’ quindi il peggioramento progressivo dei due fattori, l’uno climatico, l’altro nella gestione del territorio locale, che crea un allineamento di cause congiunte dall’effetto devastante. Altro che evento millenario. Ma i fiumi di parole seguono i fiumi di fango. Non si può, invece, archiviare la questione con la logica dell’emergenza e della solidarietà momentanea. E’ ora di prendere il toro del dissesto idrogeologico per le corna. Tanto per incominciare, stop alle costruzioni nelle aree a rischio. Questo a valle. Ma poi occorre andare a monte, e vedere quali sono i fattori predisponenti del dissesto. E si scopre che disboscamento più o meno antico, abbandono delle aree agricole, cattiva manutenzione dei corsi d’acqua, strade, asfalto, cemento e quant’altro sono le cose che rendono le aree a rischio che si trovano sotto ancora più a rischio. Questo perché, in realtà, la visione che si ha della programmazione e della politica che guida quella programmazione è scomposta per settori. Non si ha una visione unitaria, “olistica” del territorio. Se si costruisce dove non si deve, se si continua a buttare fiumi di finanziamenti nelle industrie inquinanti con il pretesto dell’occupazione, se non si trovano i soldi per bonificare le aree inquinate, e per mettere in sicurezza le zone a rischio idrogeologico, è perché tutto il modello economico è giunto al suo esaurimento. Ci troviamo di fronte ad una transizione, insomma, prima lo si capisce, meglio è. La parola d’ordine, oggi, deve diventare bonifica e riconversione. Puntare sulle prerogative del territorio, sul paesaggio, sull’ambiente, sull’agroalimentare, sulle vocazioni tradizionali, sulla cultura, sulla Sardegna, insomma. Si deve puntare sulla Sardegna. Una battaglia culturale, oltre che politica. Effetto serra, riscaldamento globale, sviluppo locale insostenibile, industrie inquinanti, speculazione edilizia, dissesto idrogeologico, in fondo, sono la stessa cosa, la stessa visione corrosiva dello spazio, lo stesso modo di intendere la crescita umana attraverso il consumo, la distruzione delle risorse. Bachisio Bandinu, all'incontro di presentazione del libro di chi scrive, sulla storia del disboscamento della Sardegna, ieri sera a Olbia, ha parlato di identità dei sardi che è soprattutto psicologica. "Deo seo sardu". Proclami di sardità. Scarsa, invece, l'identità "economica" e soprattutto "politica". Eppure sarebbe un sogno vedere la nostra piccola isola, la nostra piccola Sardegna, prendere per le spalle il mondo con il suo esempio, far vedere al resto della terra che si può riconvertire l’idea di sviluppo, da necrosi inarrestabile, a spicchio di orizzonte consapevole e pulito. E’ solo un sogno, ovviamente, in attesa di essere svegliati dal prossimo disastro annunciato. "I Sardi hanno la forza e le capacità per rialzarsi, troviamo anche il coraggio di interrogarci e correggere gli evidenti errori nelle scelte di pianificazione urbanistica e di saccheggio del territorio. Per rispetto delle tante vite perse in questi giorni drammatici, da domani ripensiamo un modello di sviluppo che non lasci macerie e disastri ambientali in eredità alle generazioni future" (Silvio Lai, Segretario regionale PD, indagato nell’inchiesta bis sui fondi ai gruppi del Consiglio regionale della Sardegna ) Sara' un caso. Non lo so, ancora non riesco a cogliere pienamente le implicazioni di questa vicinanza. Magari e' solo un caso. Nel mio dizionario di italiano il termine "pretesa" e' posizionato a leggera distanza dal termine "prete". Magari e' solo un caso. Pretesa significa "ciò che si pretende, esigenza; di chi chiede cosa eccessiva". Ancora oggi non smetto di ringraziare mio padre per aver evitato di rispondere direttamente ai miei infantili "cosa vuol dire?", rimandandomi ad ogni occasione alla lettura del dizionario. E' sempre istruttivo, anche quando ci si sente sicuri del proprio sapere, ritornarci, scandagliare le parole ed esplorare le sue possibili declinazioni magari ancorando i concetti a soggetti diversi. Un po' il gioco di Calvino.. Cosa accade se il soggetto di una pretesa così intesa diventa la classe politica regionale che, direttamente o indirettamente (ma è la stessa cosa..), ci governa in questo frangente? Accade ciò che e' ben espresso nella lingua inglese con il temine tragi-comedy: "a tragedy with a comedy element", una tragedia con elementi comici, laddove - a mio parere - la tragedia e' l'esito e gli elementi comici i passaggi delle azioni che ivi conducono i protagonisti e, purtroppo, gli spettatori-cittadini. Con quale pretesa questi "governanti" pensano di essere ancora legittimati a ricoprire i loro ruoli, ad essere riconosciuti e creduti nelle loro parole (il concetto di azione mi sembra inappropriato e troppo impegnativo in tal caso) laddove rimandano a possibili soluzioni della tragedia che si sta consumando questi giorni nella vita di migliaia di cittadini, così come nella nostra economia, nella vita dei lavoratori, così come in quella di moltissimi imprenditori? Com'è possibile pretendere di essere creduti nelle parole spese (molte) e azioni intraprese (poche) nella presa in carico delle sedimentate problematiche di un territorio disperato come quello isolano quando non si è in grado di giustificare pubblicamente - non giudiziariamente - l'uso di danari pubblici dedicati ad attività specifiche? Quando si è segretari regionali di un partirò che ha firmato la proposta di legge per una gestione "più dinamica" del territorio (Proposta di Legge n.542/2013 "Norme urgenti in materia di usi civici, di pianificazione urbanistica, di beni paesaggistici ") ?Proprio ciò che serve all'Isola, senza dubbio: la cessazione di una fetta incredibile di usi civici, forte tutela dell'integrità ecologica del territorio, e il possibile welcome alla speculazione edilizia. Quando si parla di ritardo di sviluppo economico spesso si scende - almeno dalle mie parti - ad un livello di analisi micro. Si cerca, cioè, di capire quali sono gli schemi cognitivi, gli atteggiamenti e, infine, i comportamenti che presiedono alla incapacità di attivare sui territori circoli virtuosi di crescita e sviluppo. Uno di questi, analizzato da tempo, è l'indeterminatezza, la scarsa definizione dei tempi nelle relazioni con gli altri attori economici o delle stesse istituzioni pubbliche nei confronti dei primi. Insomma, il problema è che nessuno ha la possibilità di pianificare con certezza i suoi investimenti, le sue spinte al risparmio, le sue relazioni perché nessun altro è capace di esplicitare chiaramente i tempi della direzione di certe azioni (siano esse economiche, di policy e così via...). Sarà capitato a tutti, facendo un'incursione nel banale del proprio quotidiano, di avere un problema con l'idraulica domestica, o con gli infissi, o con la muratura.. e richiedere l'intervento di uno dei molteplici lavoratori del settore. Solitamente i lavori non vengono conclusi in giornata e, sull'uscio di casa, spaventati dall'idea del caos lasciato a casa per troppo tempo e ansiosi di vedere risolto il problema , quando si pone la fatidica domanda allo specialista - "quando ci si rivede?" - la risposta standard su cui si sbatte il muso è "Non si preoccupi, già torno!!". Ecco, è soprattutto il "Non si preoccupi" associato al "già torno" che pone sero problemi... Gli attori economici o quelli istituzionali non hanno il senso dell'importanza del tempo degli altri, non riescono a cogliere il valore della sincronia, il valore collettivo oltre che personale.. Così, sommate une alle altre, le risposte "Non si preoccupi, già torno!!" riescono a costituire uno dei più potenti fattori di ostacolo alle relazioni virtuose e alla costruzione di un bene comune fondamentale, la fiducia reciproca. <photo id="1" /> Questa me l'ha raccontata il mio amico Luca Zichina, soccorritore-volontario a Olbia. Una vecchia esce da quel che resta della sua casa. Alle sue spalle, la catastrofe è una montagna dal profilo irregolare, una catasta di mille cose ammonticchiate: materassi, sedie, tavoli, cuscini eccetera eccetera. La vecchia esce con un cofanetto tra le mani, lo abbraccia come fosse una persona cara. Lo apre, mentre intorno a lei tanta gente aggiusta e sistema. Dentro c'è il servizio buono di posate. Le estrae una ad una, le lava una ad una innaffiandole con l'esile filo d'acqua concesso da un rubinetto. Le lustra ad una ad una. Poi le ripone nel cofanetto di velluto blu e le mette al sicuro, lontane dalla montagna della catastrofe. Ché un giorno la vita tornerà normale e altri giorni lieti verranno, assieme agli ospiti da saziare onorandoli delle posate buone, nelle domeniche di festa. |
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July 2014
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