Il mare ha sempre colori diversi e contorni univoci: il mare ti abbraccia e ti avvolge. Ci sono però diversi “tipi” di mare e di “spiagge”. Non ho mai creduto ai concorsi del tipo: la spiaggia più bella del mondo, l’acqua più chiara, più pulita, il caraibi vicino a te. No, non ci ho mai creduto ma a leggere le “bandiere blu” appena consegnate per il 2014 qualche dubbio mi sovviene. Intanto, in Sardegna quattro bandiere blu. Solo quattro su 269 spiagge sparse per l’italia. Va bene, ci può stare, esulo dal sorridere nel vedere certe spiagge che ho visitato (Latina per tutte, dove il mare pareva un effimero ricordo e quell’acqua appariva dipinta con un indaco vischioso) ma a leggere le quattro bandiere blu della Sardegna rimango quasi senza parole: Quartu S.Elena, il poetto; Oristano, Torre grande; Santa Teresa di Gallura, la rena bianca e per l’Ogliastra Tortoli. Quattro spiagge due delle quali, per la verità molto affollate e amate dal gran pubblico domenicale: Torre grande e il Poetto di Quartu quello che, per fortuna, non è stato distrutto dal ripascimento dell’assessore che colpì solo quello cagliaritano. Belle spiagge, il Poetto lo frequento di tanto in tanto perchè è comodo, vicino alla città, ma da qui a dire che merita la bandiera blu ce ne vuole. Vorrei qualcuno passasse per Bugerru, cala pecora, per esempio, o Cala Cipolla verso Chia o, ancora Is Arenas, Scivu o le spiagge inarrivabili della mia Asinara. Ecco il mare ha sempre colori diversi e costruisce orizzonti fantastici: ma ci sono mari con onde più forti e acque docili da osservare. Potrei elencare moltissime spiagge della nostra isola e potreste farlo anche voi. Non credo a questo strano concorso. Hanno consegnato la bandiera blu a spiagge, in Italia, dove mi rifiuterei di appoggiare il dito del mio piede (abituato a ben altro). Però, come dire, me ne faccio una ragione e ricerco il mio mare non attraverso le bandiere blu ma solo attraverso il mio sguardo forte che sa riconoscere i veri sussurri del mare.
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Nel nostro mondo vige un retaggio popolare che identifica la carne come “status symbol” del benessere. E’ il motivo per cui, durante le feste, ancora oggi, le abbuffate carnivore sono una tradizione perdurante. In realtà, nonostante il salutismo crescente, il consumo di carne è tuttora sproporzionato rispetto ad una idea di sana ed equilibrata alimentazione. Ma questo valido motivo non è quello che ha ispirato la recente proposta di legge che vorrebbe il divieto di macellazione degli animali con meno di sei mesi, accompagnata dalla immancabile animalista salottiera con tanto di agnellino in vista. Proposta puramente propagandistica, che punta sul sentimento innato di pietà che tutti gli esseri viventi hanno nei confronti dei cuccioli. Come se macellarli al settimo mese potesse cambiare qualcosa, se non gettare sul lastrico qualche allevatore sardo o meridionale. Sono sicuro che se la proposta avesse colpito un comparto tipicamente padano, non sarebbe mai stata fatta. La strage pasquale degli agnelli fa ribrezzo, ma gli allevamenti intensivi del nord, con la sofferenza che producono agli animali e i guasti che provocano alla salute degli uomini, fanno orrore. Ma in realtà questa proposta nasconde una idea di natura completamente deformata dal consumismo, una natura che, da un po’ di tempo a questa parte, è estranea al destino degli uomini. E’ preferibile mangiare cibi in scatola, carni triturate e macinate dove ci finisce di tutto, con bestie anabolizzate, tenute in batterie e in allevamenti intensivi, nutrite con cibi chimici, che carne sana, allevata all’aperto e con cura, oserei dire, umana. L’immagine del pastore che preleva un agnello da mandare al macello è piuttosto cruda. Ma è una immagine reale, che fa parte di un mondo dove un’economia di sussistenza produce cibi che ancora oggi si possono definire commestibili. Ma per costoro gli animali domestici si dovrebbero distinguere in due distinte categorie: quelli da macello, che non devono avere un’anima ed essere dei supporti fisici da ingozzare di roba chimica; e gli animali giocattolo, buoni per la compagnia, da vezzeggiare e coccolare. Nessun spazio per gli animali ruspanti, anacronistici sia per il ciclo della produzione di carne che per il buon cuore ipocrita degli umani. La visione tipicamente occidentale e tecnocratica di una natura intesa come semplice serbatoio di risorse da prelevare, che però non deve interferire nella vita degli umani, trova in questa forma di aristocratico distacco la sua manifestazione più ingannevole. Quello che si vuole spacciare per amore della natura, in realtà, è esattamente il contrario. E’ un rifiuto, è una separazione per linee parallele di quei cicli vitali che una volta univa uomini e natura in un unico imprescindibile destino. Qui, gli umani (benestanti, cittadini e borghesi) da una parte, con in braccio i loro cuccioli, tutti nutriti di bocconcini di carne industriale; dall’altra una natura, con gli uomini che ancora ci stanno dentro, sporchi, cattivi e persino scabrosi. Noi, puri, depilati e profumati non ci mescoliamo con codesta natura. Noi siamo quelli del mulino bianco, della capretta di Heidi e del delfino curioso. Di là mosche e puzza di formaggio, sofferenza che unisce uomini e animali in un unico destino. Un mondo artefatto, finto e sofisticato che spezza l’armonia naturale delle cose, con il suo lascito di nevrosi e depressione. Forse ci vogliono trasformare, pure noi, in polli da batteria, nutriti di cibo chimico, fino a diventare prodotti definitivi del consumismo. Intanto la propaganda che molto rende all’immagine del politicante, rischia di danneggiare seriamente una intera categoria sociale già in affanno. Io preferisco i pastori che condividono con il gregge le asperità di una esistenza in comune, che gli animalisti da salotto moralmente partecipi dello stesso sistema che sfrutta, senza coscienza, i cuccioli di esseri umani nei paesi economicamente più poveri. Morale della favola. Ciascuno è libero di mangiare quello che vuole, senza imposizioni di legge. Ammiro i vegetariani che non mangiano carne per ragioni morali e culturali, senza imporre nulla agli altri. Da un punto di vista della salute, direi, però: mangiate meno carne, che troppa fa male. Ma quel poco che ne mangiate, che sia roba sana e naturale, non imposta dal consumismo e dalla propaganda. Io non mangio agnelli, neppure a Pasqua. Ma dovendo scegliere, li preferirei ad un hamburger americano o ad un wurstel tedesco. Non so se sia per via di qualche “deformazione” congenita della mia forma-mentis oppure per via di ciò che essa ha raccolto e catalogato, sotto forma di “esperienza”, per essere così com'è. Fatto sta che a me l'ordine troppo ordinato, le cose o persone messe in fila in modo geometrico e seguendo degli schemi dei quali non ne comprendo la funzione, ha da sempre dato un enorme fastidio. Così è per la campagna, quella tutta perfetta, dove non cresce un arbusto o una pianta senza che la mano di uomo non ne diriga il verso e la forma, dove l'erba viene rasata tutta allo stesso livello ed i solchi sembrano tracciati con la riga. Così, piano piano e da totale autodidatta, mi sono documentato sui vari tipi di erba e di coltivazioni, arrivando sino al punto di decespugliare ogni anno, anche più d'una volta, risparmiando quelle che ritengo si “erbe selvatiche”, ma non di certo “infestanti”. Le prime che risparmiai sin dalla prima volta, furono le piccole orchidee selvatiche che nel mio terreno crescono ancora copiose e i ramoscelli di menta selvatica, il cui profumo mi colpì subito non appena fui io, a colpirle con quel devastante filo di nylon. Poi imparai a conoscerne altre e risparmiare anche quelle, permettendo così la loro naturale re-inseminazione nel terreno. La borragine, nutrimento essenziale e vitale per le api del mio vicino (ma anche per le monzette di nuova leva e le tartarughe), che non mancano mai di visitarmi; la “meliagra”, la porcellana e l'erba cipollina, l'alloro ed il lentisco, l'olivastro o la sorba. Nell'orto poi, lo sbizzarrimento era totale. I filari di pomodori o di fave non erano mai dritti, ma li disponevo semmai a seconda dei venti dominanti e dell'ombra disponibile sotto gli ulivi, così per tutto il resto degli ortaggi ai quali ho sempre dedicato poche cure, totalmente biologiche e poco invasive. Una cultura contadina totalmente “personalizzata” che chi veniva a visitarmi si sentiva in diritto di criticare, sorrisini beffardi e giudizi devastanti tipo “ma perché non lasci perdere, non fa per te!”. Salvo poi cambiare opinione quando si rendevano conto che le mie fave, i miei pomodori e le mie verdure avevano un sapore ed un gusto decisamente superiore a quanto coltivavano loro nelle simmetriche file piantonate da sostegni di ogni genere, dal ferro arrugginito sino alla plastica più invadente in plotoni ordinati quanto innaturali per me. Io utilizzo, quando lo utilizzo, il bambù. Altrimenti lascio che la pianta si rinforzi e sorregga da sé. Capirete quindi la mia gioia, oggi, nel sentire parlare sempre più spesso di “orto sinergico” e di quanto tutto quel disordine ordinato a cui ho sempre dato attenzione e quella dose di selvaticità garantita alle piante potessero essere alla fine un sistema vincente, salvifico in molti casi. Ancora più felice nel leggere questo: «L'Agricoltura Sinergica è un metodo di coltivazione elaborato dall'agricoltrice spagnola Emilia Hazelip. Si basa sul principio, ampiamente dimostrato dai più aggiornati studi microbiologici, che, mentre la terra fa crescere le piante, le piante creano suolo fertile attraverso i propri "essudati radicali", i residui organici che lasciano e la loro attività chimica, insieme a microrganismi, batteri, funghi e lombrichi. I prodotti ottenuti con questa pratica hanno una diversa qualità, un diverso sapore, una diversa energia e una maggiore resistenza agli agenti che portano malattie; attraverso questo modo di coltivare viene restituito alla terra, in termini energetici, più di quanto si prende, promuovendo i meccanismi di autofertilità del suolo e facendo dell'agricoltura un'attività umana sostenibile.» (http://agrisinergica.altervista.org/) Regole che nessuno, oltre alla Natura stessa, mi ha insegnato e che sto applicando -con le dovute molle e cautele- anche ai rapporti umani con, devo ammettere, degli ottimi esiti. Buona Felicità Disordinata a tutt*, piante, elementi ed animali* compresi. Da alcuni anni, all’inizio della primavera, percorrendo la Sardegna, è possibile notare al bordo delle strade uno strano fenomeno. L’erba assume un indefinibile colore giallastro e finisce per seccarsi. E’ l’effetto del glifosate, un potente diserbante che riesce a interrompere le funzioni vitali delle piante fino alle radici. Sostanza chimica che viene immessa dall’ANAS per ragioni legate alla sicurezza e come obbligo derivante dall’Ordinanza Antincendi, che obbliga gli enti gestori delle strade a ripulirle dalle piante infestanti per ridurre il rischio di eventuali incendi. Nonostante le proteste dei cittadini, tale pratica prosegue, anche per via della carenza di risorse causate dalla taglio della spesa, che vede gli enti pubblici cercare di risparmiare il più possibile sui costi. Non è bello vedere la morte vegetale sul ciglio delle strade. Ma quello che si vede, in realtà, non è che la punta di un iceberg, se paragonato alle sostanze chimiche che l’uomo utilizza, ormai da anni, nell’agricoltura. Il glifosate, che noi vediamo distruggere ogni forma di vita ai bordi delle nostre strade, non è altro che la metafora più tangibile di una armonia tra uomo e natura che si è interrotta. L’uomo si è sputato fuori dal ciclo naturale delle cose, accumulando disgrazie. Nell’era dei cacciatori raccoglitori, la natura era talmente sterminata che l’uomo prelevava quello che gli serviva senza intaccare la risorsa ed anzi, spesso, formando nuovi equilibri stabili con il mondo delle cose naturali. Successivamente alla rivoluzione neolitica, con la nascita dell’agricoltura, l’uomo ha imparato a trasformare la terra ricavandone risorse a proprio consumo, ma riproducendo, quasi imitando la natura, quella forma ciclica che ne garantiva un certo equilibrio. La rotazione agraria tra cereali e leguminose, con il concime naturale offerto dal pascolo, e la raccolta dei rifiuti organici, ivi comprese le deiezioni umane delle città, ha garantito per secoli una certa “chiusura del cerchio”, per utilizzare la fortunata espressione di un padre dell’ecologia moderna, Barry Commoner, con una limitata dispersione entropica. Con la rivoluzione industriale, e con l’economia di mercato, cambiò la percezione stessa che gli uomini avevano della natura. Una strana frenesia colpì l’animo umano, per cui incominciò ad avere senso solo la crescita continua, l’accumulo di risorse materiali, la capacità di spendere denaro. Sopra ogni cosa, sopra ogni valore. Teorie economiche, tecniche e filosofiche iniziarono a concepire la natura come una semplice esternalità slegata dal destino degli uomini. L’agricoltura tecnocrate e razionalista considerò la terra come un semplice supporto da arricchire con sostanze esterne. Ecco allora arrivare l’azoto e altre sostanze chimiche che aumentarono la produzione ma che rendevano il campo agrario sempre più squilibrato e debole, vulnerabile agli attacchi parassitari e alle erbe infestanti. Un nuovo circolo, stavolta vizioso, si insinuava nella catena alimentare degli uomini, tutta incentrata sulla quantità del prodotto. Pesticidi, diserbanti e fertilizzanti chimici di produzione industriale diventarono protagonisti dell’alimentazione umana. Il veleno, silenzioso è invisibile, entrò così nelle nostre case, nei nostri piatti. Valga, tra le altre statistiche recenti, sapere che una malattia degerativa e incurabile come la SLA, colpisce principalmente due professioni continuamente a contatto con le sostanze chimiche dei campi: i calciatori e gli agricoltori. La coscienza civile cresce e noi, oggi, con la raccolta differenziata, contribuiamo a chiudere un po’ quel cerchio che l’uomo, da qualche tempo a questa parte, aveva spezzato, fornendo concime all’agricoltura che altrimenti andrebbe sprecato. Nel frattempo l’agricoltura biologica prende piede in un sempre maggior numero di acquirenti disposti anche a spendere qualche cosa in più, all’occorrenza. La cifra culturale del mondo moderno, infatti, è l’eccessivo valore attribuito al denaro.. Ma questa visione, con il tempo, sta cedendo il passo a una nuova consapevolezza civile, che da valore anche ai beni immateriali, alla ricchezza umana, alla qualità della vita, alla salute. Almeno lo spero. Arriverà un bel giorno in cui nessun glifosate verrà sparso più per le strade e neppure entrerà silenzioso e velenoso nei nostri piatti. Come molti ormai sanno, il punteruolo rosso non è un attrezzo da lavoro dipinto, ma un insetto, un coleottero. Il rhynchophorus ferrugineus è un animale micidiale. Attacca le palme e le distrugge completamente. Le larve, con il loro rostro, scavano il legno interno interrompendo le funzioni vitali. Nonostante la ricerca scientifica in tutte le maniere stia cercando di combatterlo, esso appare invincibile. Eccetto agli Iatmul della Papua Nuova Guinea, come vedremo, che utilizzano il più tradizionale dei metodi. Quando il punteruolo parte non fa prigionieri. Distrugge tutte le palme senza lasciarne viva una nel raggio di chilometri, a causa di una capacità di propagazione e di proliferazione mostruosa, in grado di far viaggiare per chilometri milioni di esemplari in breve tempo. Cagliari, “città delle palme”, ormai è devastata, ma la bestia sta risalendo l’isola e in breve tempo raggiungerà anche il nord. Il danno economico è enorme, a causa del valore delle palme che ornamenta strade e giardini pubblici e privati. Al momento nessuna specie di palma pare indenne da questa sciagura, eccetto, forse, la palma nana, la specie endemica della Sardegna, ossia l’unica che si trova allo stato naturale, spontaneo. Siccome la natura non fa nulla per caso, mi sono domandato da cosa derivi questa invincibilità, questa spietatezza nella propagazione. Mi sono domandato quale meccanismo evolutivo può consentire ad una specie di distruggere completamente la fonte del proprio nutrimento. E’ come se i leoni uccidessero tutte le gazzelle e gli gnu: morirebbero di fame. Eppure il punteruolo si comporta così. Una cosa contro natura, spiegabile, però, con l’artificiosità del nostro habitat. Infatti, per poter capire, dobbiamo confrontare l’habitat originario, naturale, del punteruolo, con quello nostro. Ho riflettuto a lungo e ho formulato questa ipotesi. Il punteruolo si evolve come nemico naturale della palma da cocco, la quale ha una particolare forma di propagazione, legata agli arcipelaghi e alle isolette del Pacifico. Infatti le noci di cocco vengono trasportate dalle onde da una isoletta all’altra, resistendo tra i flutti per diversi mesi. Colonizzano perciò le isolette con popolamenti che, partendo dalla spiaggia, si insinuano all’interno. Il punteruolo è stato costretto ad adeguarsi all’habitat della palma da cocco, sviluppando così anch’esso una grande capacità di proliferazione per potersi spostare da un’isola ad un'altra. Ma in quell’habitat frammentato e diviso la capacità rigeneratrice della natura consente un equilibrio; le isolette, infatti, in breve tempo, rigenerano il proprio popolamento di palme una volta che il punteruolo è stato costretto ad emigrare per assenza di cibo. I primi squilibri si sono avuti con la coltivazione della palma da cocco e delle altre palme industriali. Da lì il punteruolo, non trovando più ostacoli naturali alla propria propagazione, ha iniziato la sua diffusione nel mondo, causata, principalmente, dalla negligenza dell’uomo. Infatti è stato l’uomo a trasportare inconsapevolmente esemplari di palma infetti in giro per il mondo. Dove non arriva la natura, ci pensa l’uomo. Allo stesso modo, nonostante ci siano sanzioni amministrative accompagnate da finanziamenti a pioggia per la profilassi della fitopatologia, pare che siano in pochi ad applicarla. La legge prevede che al primo segno di patologia la palma debba essere distrutta per impedire la diffusione dell’animale. Ma sembra che, una volta la malattia abbia infestato le proprie palme, pazienza, ci si disinteressi di quello che possano fare dopo. Il punteruolo rosso, dunque, è una specie di super insetto che si è evoluto in condizioni ecologiche che lo hanno portato, per la propria sopravvivenza, a sviluppare queste caratteristiche che, per le palme che arredano le nostre città e i nostri giardini, sono mortali. Ma, natura a parte, la negligenza degli uomini, ancora una volta, è risultata determinante. Pare che al momento ci sia solo un sistema per combattere questo animale, e ce lo insegna una popolazione della Papua Nuova Guinea, gli Iatmul. La competizione alimentare. Gli Iatmul, come ormai altre popolazioni del pianeta, si nutrono abbondantemente delle larve dell’insetto, considerate una prelibatezza. Se i nostri vermi del formaggio sanno di formaggio, vi lascio immaginare che sapore possano avere le larve di insetti che si nutrono di palma. Indovinato, di cocco. Ricchissimi di proteine, ferro e zinco, peraltro. Forse, un giorno, quando l’abbondanza di cibo che contraddistingue il nostro opulento, sprecone, lagnoso mondo occidentale verrà meno, si riuscirà a salvare qualche palma. Non facciamoci fregare le ultime due cose che ci restano. di Fiorenzo Caterini La Sardegna si sta svuotando. Fabbriche chiuse, siti inquinati, filo spinato, villaggi turistici fantasma. Niente di più triste e spettrale che vagare in un villaggio turistico d'inverno. Ma, da qualche anno a questa parte, a causa soprattutto del caro traghetti, anche d’estate gli affari non vanno mica tanto bene. Ci restano due cose. La manodopera, ormai, è tutta forestiera. Ma per forestiera non intendo immigrati, non intendo gente che comunque abita nell’isola, spende i soldi guadagnati nei nostri negozi, usa i mezzi pubblici e manda i figli a scuola, consentendo a quei servizi di sopravvivere per tutti. La manodopera di questi villaggi proviene da agenzie che catapultano questa povera gente sfruttata e malpagata giusto il tempo, i due o tre mesi, necessari per la stagione estiva. Gente che non ha neppure modo di uscire dal villaggio e spendersi i soldi per una birra o un caffè. Nessuna ricaduta economica, nessun beneficio per la località che ha ceduto una porzione preziosissima del suo paesaggio. In compenso, tratti di costa sono occupati da questi villaggi, e preclusi ai sardi e ai turisti. E’ un senso di estraneità che mi prende, nel vedere questi villaggi. Di sardo non c’è nulla. Persino i prodotti tipici, in vendita all’interno, sono ridotti nei minimi termini. Ci restano due cose soltanto. Eppure questo è il modello di sviluppo che ancora ci viene offerto da Cappellacci tenuto per mano da Berlusconi. Campi da golf e centri benessere. Tradotto: villaggi turistici aperti 3 mesi all’anno. Si dirà, ma almeno 6 mesi di edilizia, un po’ di ritorno ci sarà. Poco, davvero poco, anche le maestranze edili, ormai, sono forestiere. Il sistema è lo stesso. Giusto da lavorare per qualche geometra, che spesso, sono gli stessi che amministrano i comuni costieri. Chissà perché. Il nuovo PPS, sbandierato come piatto forte della campagna edilizia del centrodestra, prevede una notevole apertura verso questo modello di sviluppo ormai ampiamente superato. Un modello di sviluppo che prevede benefici per gli affaristi e meno delle briciole per i disoccupati e i lavoratori. In compenso, gravi rischi corre il nostro ambiente, e con esso, le speranze per uno sviluppo basato su un uso corretto del territorio. Teniamo duro. Tanto oltre certi limiti non si può andare, l’impianto normativo nazionale e comunitario, e lo stesso PPR, che ha resistito a tutte le più impensabili battaglie legali dimostrandosi giuridicamente solidissimo, impedirebbe qualunque esagerazione, qualunque stravolgimento della norma e conseguente devastazione ambientale. Ma come si sa, siamo in Italia. Fatte le leggi, trovati gli inganni. Per capire come i fautori del nuovo PPS intendano scardinare l’impianto normativo esistente, consentendo a milioni di metri cubi di cemento di riversarsi lungo le coste, è sufficiente scorrere il testo delle Norme Tecniche di Attuazione. Scorrerlo tutto, e giungere fino alle norme transitorie. Si, quelle norme che nessuno legge, che sembrano inutili, ma che tali non sono. Perché in Italia, le cose transitorie, durano anni e anni. Specie quando fanno comodo ai furbi e agli amici dei furbi. Lì è previsto il lasciapassare agli affaristi e agli speculatori del cemento. In quelle norme transitorie è previsto il via libera ai campi da golf , con tutte le strutture edilizie connesse, nonché alle cosiddette opere di interesse pubblico, ovvero gli alberghi e i “centri benessere”, anche sul mare. In teoria, una valanga di cemento potrebbe cambiare definitivamente il volto della Sardegna, relegandola ad una sorta di legione straniera a noi stessi, priva di volto, di paesaggio, di economia propria. I sardi relegati in fazzoletti di spiaggia, accalcati tra loro. Una norma, a mio parere, illegittima, perché non si può deregolare alla fase di transizione la gestione del vincolo paesaggistico, è folle, oltre che, appunto, antigiuridico. Le Norme Tecniche di Attuazione del Nuovo Piano, quello “dei Sardi”, è intanto sparito dal sito della Regione, non si trova più. Alla voce corrispondente si ritrovano le vecchie norme del PPR. Sicuramente un “errore di sbaglio”. Oppure sono io che proprio non le trovo. Oppure si ha paura di mostrare questa voragine pronta ad accogliere la peggiore valanga di cemento della storia della Sardegna. Meglio tenere tutto nascosto, sottovoce, farlo trapelare solo alle persone giuste. Che infatti di una certa compravendita strana di terreni, lungo le coste, se ne ha sentore, se ne ha notizia. Attenzione. Non facciamoci fottere la Sardegna. Mentre si chiacchiera di stupidate elettorali, di futili polemiche, mentre i sardi sono distratti, mentre si inseguono chimere di improbabili indipendenze e ci si accanisce per difendere la pianticella, questi ci fregano la Sardegna, ce la portano via. Ed è gente che fa sul serio. A molti hanno portato via il lavoro, altri sono costretti a vivere nella precarietà, altri ancora hanno solo ombre nel futuro, specie i giovani. Ecco, non facciamoci fregare le ultime due cose che ci restano. La terra più bella del mondo. La speranza. L’esempio che racconta il giornalista Michele Serra nella sua “amaca” odierna è tanto triste quanto lampante. Una giunta comunale di un paese ligure a rischio di dissesto idrogeologico, che ha fatto le cose bene, ha pensato al futuro mettendo in sicurezza il paese, evitando il cemento nelle zone a rischio, che ha probabilmente salvato le case dal disastro, non è stata rieletta. In Sardegna, se vogliamo, è successa la stessa cosa con la giunta regionale di Soru, che ha emanato il primo piano paesaggistico in Italia, un primato di cui la Sardegna dovrebbe andare fiera e camminare a testa alta. Non solo, quel PPR è unanimemente riconosciuto dagli esperti come uno dei migliori in assoluto, capace di tutelare il territorio e nello stesso tempo di creare benefici effetti sul sistema economico. Come si usa dire ora, è “perfettibile”, ma intanto è stato un buon punto di partenza. Naturalmente quella giunta ha perso le elezioni. Mi rendo conto che nei periodi di crisi fermare il cemento, o almeno convertirlo in opere pubbliche, in scuole, ospedali, non è facile da spiegare. Mi rendo conto che se uno sta annegando gli si offre un salvagente, non un istruttore di nuoto. Però i salvagente sono finiti. Il patrimonio della Sardegna è il suo territorio. E’ il nostro capitale. Continuare a costruire sulle coste o nelle campagne porta qualche beneficio immediato, ma a lungo andare impoverisce il sistema. Le coste perdono valore sul mercato immobiliare, il paesaggio svilisce, l’ambiente perde le sue caratteristiche originali, i turisti vengono sempre meno. Per urbanizzare le campagne puntellate di villette occorrono una montagna di soldi pubblici, che finiscono per gravitare inevitabilmente sui contribuenti. Il regime fondiario dei terreni, che dovrebbe essere agricolo ma di fatto è edificabile, impedisce alle imprese agricole di stanziarsi nel territorio. Aumentano i rischi di dissesto ecologico e ambientale con tutto quello che ne consegue in termini di costi economici e anche vite umane. In Sardegna, storicamente, si è preferito ritirare il capitale, piuttosto che gli interessi. Diminuendo il capitale, diminuiscono gli interessi. E bisogna nuovamente ricorrere al capitale, il territorio con il suo ambiente. Un circolo vizioso che diventa un sistema perverso: non si creano alternative sociali, lavorative, di modo che il mattone diventi l’unica frontiera. L’agricoltura non decolla, viene disincentivata per creare povertà e arrendersi al mercato immobiliare. Il turismo viene confinato lungo le coste. I paesi si spopolano, alimentando quel mercato immobiliare nelle periferie cittadine. Così, si accontentano, si gettano ciambelle di salvataggio a coloro che gravitano attorno al mondo dell’edilizia, costretti dalla mancanza di alternativa, e si fanno gli interessi dei grossi affaristi, degli speculatori, dei massoni, che spesse volte, anzi, la stragrande parte delle volte, vengono da fuori della Sardegna. E’ un balletto, governato dagli affaristi e dai politici messi apposta per sostenere questi affari. E anche una forma di moderno e subdolo colonialismo. Per dirla in soldoni, non ci sono più ciambelle di salvataggio. Perché, per quanto si possa ancora drogare l’edilizia, il mercato si sta fermando, e sta esplodendo la bolla delle unità immobiliari invendute. Occorre, anche nel comparto, cambiare prospettiva, incentivando i lavori pubblici, come le scuole, che nel contempo sostengono lo sviluppo del capitale umano, e agevolare le ristrutturazioni nei centri storici ma non solo, anche nei piccoli centri. Ma in Italia, e purtroppo anche in Sardegna, si ha uno scarso senso civico, un debole senso del bene collettivo. A volte i sardi, spinti da quel residuo di appartenenza alla propria terra, alla propria cultura, paiono comprendere, e si rimettono in cammino verso un obbiettivo comune. Camminano verso quell’orizzonte, inciampano, cadono, si rialzano, zoppicano, disorientati, ma avanzano, lentamente, ma avanzano. Ora è da un po’ che abbiamo la faccia in terra. Sarebbe anche ora di rialzarsi. E di imparare a nuotare, finalmente, che siamo un’isola in mezzo al mare. Ontani, nutrie e il tragico limite del ridicolo. di Fiorenzo Caterini Sui media nazionali, in questi giorni, è rimbalzata una notizia clamorosa. L’alluvione che ha colpito l’Emilia, nel modenese già devastato dal recente terremoto, è stata causata da un piccolo roditore, la nutria. Pare che la causa sia proprio questa, almeno dall’insistenza con la quale viene ripetuta la notizia. Anzi, con quel burocratese o politichese furbesco tipico delle dichiarazioni di tecnici e politici, trattasi di “possibile concausa”. Che però restando l’unica dichiarata, finisce, nell’opinione comune, per diventare l’unica causa. La colpa è delle nutrie e degli animalisti che le proteggono. Ma non è finita: le frane della Liguria, causate dalla stessa drammatica ondata di maltempo, pare siano state causate dalle volpi e dai tassi. Quale la connessione tra questi animali e gli eventi disastrosi? Certamente questi animaletti non possono, ovviamente, essere la causa dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici. Neppure dell’uso del suolo che negli ultimi decenni ha raggiunto, dappertutto e a maggior ragione nel sovrappopolato nord Italia, livelli eccessivi e preoccupanti. Neppure possiamo imputare loro di aver trasformato il territorio con una rete di canali, strade, ponti, campi coltivati e capannoni industriali, ville e villette più o meno regolari, asfalto e cemento. Nulla di tutto questo possiamo imputare a questi animali. Neppure possiamo imputare loro di aver condotto male la manutenzione degli argini. Eppure lo stesso ente che controlla gli argini del bacino del Po, l’AIPO, ha lanciato la sua accusa. La colpa è delle nutrie. Anzi, “possibile concausa”. Anche in Sardegna, subito dopo la tragica alluvione, qualcuno, qualche sindaco in particolare, aveva tirato fuori una storia simile. La colpa è degli animali protetti, e delle piante, gli ontani, che vegetano lungo gli argini, e infine della Forestale che proibisce. Una idiozia sospesa tra malafede ed ignoranza. Che come spesso succede, serpeggiando tra la gente, diventa pure luogo comune, che diverse volte è rimbalzato, di ritorno, alle mie orecchie. E così sarà anche per nutrie. Poi è venuta la volta delle associazione degli agricoltori. Anche loro ad accusare le nutrie, e a rivendicare rimborsi per i danni all’agricoltura causati da questo roditore. Poi sono arrivati i politici. Il leghista, immancabile, anche lui ad agitarsi contro le nutrie, e contro gli animalisti “di sinistra”, con la sua bella interrogazione parlamentare. Poi è arrivato anche Giovanardi, ex Ministro, anche lui contro le nutrie in una accesa dichiarazione. Forse chiederanno i danni alle nutrie, alle volpi e ai tassi. Che non hanno diritto di replica. Questi animali, è l’accusa, scavano delle gallerie indebolendo gli argini e favorendo le frane. Dare la colpa alle nutrie ribalta le responsabilità in modo pretestuoso: la colpa non è della nostra negligenza, ma degli animalisti che non ci fanno intervenire. E dato che questi animali sono un problema per gli agricoltori, solleviamo un po’ di buriana politica, così ci facciamo propaganda sopra. Le alluvioni, in Italia, paese dal cronico dissesto idrogeologico accentuato da una storica cattiva gestione del suolo e del territorio, sono sempre esistite. Anche prima che, negli anni ’70, le nutrie, provenienti dal Sudamerica ed allevate per la loro pelliccia, fossero rilasciate nell’ambiente, una volta passato di moda il “castorino”. Ho visto le immagini drammatiche della piene del Secchia, nel modenese, e mi hanno ricordato quello che da poco è successo in Sardegna. Lo stesso Po ha raggiunto livelli di guardia. Neppure se tutte le nutrie, i tassi, e le volpi si fossero messe insieme a fare la danza della pioggia, avrebbero potuto causare ondate di piena simili. E l’argine del Secchia che è crollato, era sostenuto da una barriera in cemento. Se per caso qualche cunicolo delle nutrie avesse provocato qualche debolezza, in quel punto, doveva essere comunque monitorato. Ma la colpa è delle nutrie. Però in Sardegna le nutrie non ci sono, ma ci sono gli ontani. In Emilia gli ontani non ci sono, ma ci sono le nutrie. Qualcosa a cui addossare le responsabilità, a ben guardare, si trova sempre. Ben oltre il senso del ridicolo. Si voni Deu e li carabbineri, a fine aprile io ed un gruppo di amici tenteremo la traversata della Sardegna in mountain bike. Non pedalando sulla 131 ma seguendo sentieri e mulattiere. Attraversando paeselli, borgate e oceani di silenzio delle nostre campagne Percorreremo la traccia orientale segnata sulla Guida al Mountain Biking in Sardegna, pubblicata dalla Regione nel 2009 e che trovate, in versione digitale, sul sito Sardegna Digital Library. È un eccellente lavoro realizzato secondo la tecnica del road book: ogni cancello, ogni incrocio e ogni deviazione sono indicate con precisione assoluta. La Guida propone un itinerario nord sud sulla costa orientale, un altro su quella occidentale e diverse possibilità per congiungere le due piste. Trascorro le giornate fantasticando su questa avventura. Cercheremo di concludere la missione in una settimana, individuando sei tappe e pernottando in bed and breakfast o in qualunque altra struttura ricettiva offrano i luoghi delle soste. Perché lo facciamo? Perché non esiste un modo migliore per godersi il continente Sardegna, per gustare fino in fondo ogni paesaggio essendone parte. Perché, da un anno, sono presidente di un'associazione sportiva attiva nel settore del cicloturismo. Perché sono convinto che la bicicletta sia una risorsa inesplorata ma potenzialmente ricchissima, per il nostro turismo. E niente affatto povera, come comunemente si crede. Perché dopo i quarant'anni si ha il bisogno di trovare conferme, dal proprio fisico e della propria mente. Cercheremo contatti con le varie amministrazioni dei centri che attraverseremo. E magari proporremo l'itinerario a chi ci si volesse cimentare, magari identificandolo con un marchio. "Sardegnapedalando", per dire il primo che mi viene in mente. Immagino decine di bikers ogni settimana che affollano l'entroterra della Sardegna e tutti i piccoli centri dotarsi di una qualche forma di accoglienza stabile, con prodotti, creazioni e storie del loro mondo. Una Cortes Apertas tutto l'anno. Magari con qualche incentivo dalla Regione per facilitare lo sviluppo di questo settore. Considerate che oggi, 18 gennaio, sono andato a correre in maniche corte: il termometro segnava 20 gradi. Significa che nella nostra magnifica Isola si può accogliere il cicloturista tutto l'anno. E che dove la cultura della bicicletta è più radicata - cioè nei paesi del nord Europa - in questo periodo sono sommersi dalla neve e tengono le bici in cantina. Il turista della bicicletta ha normalmente grande rispetto per i luoghi: la maggiore garanzia di quanto vado asserendo è che è disposto a faticare per guadagnarsi un panorama. E dopo la fatica viene sempre tanto appetito e altrettanta voglia di esplorare e divertirsi. Chiedo a chi si contende la guida della Regione di riflettere su questa risorsa e di valutare se non sia il caso di investirci qualche soldo. Magari pensateci mentre pedalate. Schiarisce le idee. Ho dichiarato guerra al carpobrotus acinaciformis. Carpoche? Carpobrotus acinaciformis. E’ una pianta grassa, semirampicante, strisciante. Fa dei bei fiorellini, e per questo i turisti continentali, dal lontano Sudafrica, l’hanno portata in Sardegna, e innestata nei giardini. Poi si è sparpagliata per l’isola. E’ una pianta infestante, una sciagura. Ma fa bei fiorellini. Quando parte non la ferma nessuno. Colonizza le garighe costiere, che in Sardegna sono ricchissime di biodiversità e di endemismi floristici. La meravigliosa flora sarda viene così invasa da questa disgrazia, soffocata da questa pianta che striscia nel terreno e ogni tanto fittona e si divide, si ramifica in due, tre tentacoli, a formare una rete che corre al ritmo di decine di metri all’anno, passando sopra tutto, rocce e cespugli, sotto la terra, giungendo fino alle ultime pietre salmastre, fino alla spiaggia. I turisti ne acclamano la fioritura tanto appariscente quanto insulsa, mentre la flora rara ed endemica sotto scompare, soffocata. Io gli ho dichiarato guerra a questa sciagura, ma mi rendo conto che l’impresa di debellarla è ardua, e la presa di coscienza della gravità della cosa è ancora all’inizio. Fa bei fiorellini! Capisco perciò le battaglie di Roberto Bolognesi sulla lingua sarda, che scompare come la preziosa flora sarda, soffocata dall’italiano, dall’inglese, dalla televisione e dalla scuola. Bolognesi, inascoltato, si è reso conto di una cosa. Un’intuizione suffragata da dati statistici. Comparando i dati sulla dispersione scolastica, si è accorto che essa era maggiore nelle regioni a minoranza linguistica, come la Valle d’Aosta, per cui ha messo in correlazione i due fatti, giungendo a sostenere che vi sia una stretta correlazione. Bolognesi è un linguista, e io, che ho studiato antropologia, non lo avrei mai detto. Io, che ho studiato antropologia, avrei messo in correlazione la dispersione scolastica della Sardegna con una sottovalutazione della cultura sarda, della storia, della civiltà nuragica, degli scrittori sardi, di Grazia Deledda. Un minore interesse per materie e programmi scolastici strutturati sulla cultura italiana. Una regione come la Sardegna, che ha una cultura stratificata, millenaria, accentuata dall’isolamento geografico, produce un codice che è linguistico e culturale che cozza con un codice linguistico e culturale esterno. Sono strutture mentali che gli antropologi come Levi – Strauss hanno studiato, mutuandole proprio dai linguisti, come De Saussure. Antonio Pigliaru senior, il grande intellettuale sardo degli anni ’60, che ha studiato il codice di leggi non scritto della barbagia pastorale, mi avrebbe capito. Ci avrebbe capito. Il figlio di Antonio, Pigliaru Francesco, che è un economista, ha messo al primo punto del suo programma elettorale l’istruzione. E qui è d’accordo con Bolognesi, e con me. Poi ha dichiarato guerra alla dispersione scolastica. E qui è d’accordo con Bolognesi, e con me. Poi ha detto che bisogna investire risorse contro questo fenomeno. Una roba da economisti, insomma. E l’accordo con Bolognesi termina qui. Sia Cappellacci che la Murgia si sono espressi per un impegno a favore della promozione della lingua sarda. La convinzione è quella di un doveroso omaggio a qualcosa che non nuoce, non solleva diatribe contro. Se non interne. Niente come la lingua sarda, infatti, pare dividere gli osservatori e gli specialisti. Eppure, Bolognesi ce lo insegna, la lingua di un popolo è l’elemento base della condivisione sociale, è la struttura elementare e primitiva di una società. La divisione dei linguisti sul tema pare la diretta manifestazione di quell’ansia di redenzione, dello stesso disorientamento creato dal vuoto linguistico, dalla sua assenza e dalla sua sostituzione con una sovrastruttura linguistica a suo tempo imposta. Recuperare il tessuto linguistico originario significa favorire processi positivi di ricostituzione di una comunità, che poi non è altro che la base per ritrovare obbiettivi determinati, un ruolo nel mondo, una missione comune. La frammentazione politica di oggi, con miriadi di partitini, con una marea di candidati, con le forze dell’area sardista-indipendentista sparpagliate su tutti i numerosi fronti, non è solo il prodotto di una difficoltà di scorgere obbiettivi comuni chiari. E’ qualcosa di più profondo. Non sappiamo cosa siamo, non sappiamo chi siamo. Ci sono mancate sotto i piedi, nella transizione tra un passato storico ed un futuro incerto, delle certezze strutturate, sociali, culturali, e linguistiche, perse per strada e ritrovabili, sopravvissute, qua e là. Intanto il carpobrotus acinaciformis, la pianta maledetta, tentacolare, avanza, cancellando dalla faccia della terra la preziosa flora sarda. Ho deciso di assestarmi sulla linea difensiva, nei pochi luoghi superstiti, incontaminati, e di non farla passare, maledetta pianta infestante. Ma non so, da solo, quanto ancora potrò resistere. Durante il corso per agenti forestali, ci proiettarono le immagini di una preziosissima e superprotetta farfalla, con una grande valore sul mercato dei collezionisti. Un mio collega, seduto a fianco, trasalì quando si rese conto che avevano usato, fin da ragazzi, la larva di quella specie per andare a pescare nei fiumi. Ricordo che anni fa, durante un convegno, manco a farlo apposta, il Prof. Francesco Pigliaru, l’attuale candidato Presidente del centrosinistra, spiegò, con diversi esempi, che le risorse sono tali solo se si riconoscono. E’ il caso dei terreni costieri dell’isola che, anticamente, venivano dati in dote alle figlie femmine in quanto meno produttivi. Terreni che iniziavano già, negli anni ’60, ad avere un valore inestimabile. L’altro giorno parlavo con un imprenditore tedesco, ormai vicino alla pensione, che aveva girato il mondo e aveva deciso di fermarsi nel luogo più bello che aveva incontrato, la Sardegna. Lo rimproveravo, invero, per un po’ di disordine nel suo terreno, macchine abbandonate, rifiuti, piccoli abusi edilizi. Mentre gli redigevo il verbale, si giustificò spiegandomi che quello stato di abbandono era dovuto ad un periodo di depressione, superato poi dalla notizia che la figlia, di 18 anni, aveva deciso di venire a vivere con lui in Sardegna e di attivare l’impresa agricola che avevano sempre sognato. Ora, pensare di fare agricoltura in Sardegna e nell’aspra Gallura non è facile. Pochi gli aiuti, pochi i terreni adatti, difficoltà logistiche. Gli chiesi, per curiosità, che progetti avesse. Mi parlò di una specie di aloe, la pianta officinale, che è spontanea dell’isola e che cresce benissimo in quei terreni. Un’ottima idea, pensai, l’aloe è una pianta dai molteplici usi che va per la maggiore. Poi mi parlò del cisto. Tu prendere me in giro. No taffero, io no prendere te in ciro, qvesta è ferità. Il cisto è la pianta maledetta dei pastori e dei contadini sardi. E’ la pianta che ricresce nei terreni poveri e percorsi dal fuoco, una pianta infestante difficile da debellare. Nella tradizione sarda, il cisto, è "lu mucciu, maccia mala, su bruttu, su mudregu". Il cisto è “lo sporco” in un terreno. Che poi qualche funzione protettiva e rigeneratrice ce lo abbia anche lui, è secondario. Io folere coltifare cisto, taffero. Tu spiegare me che fare con cisto. Allora mi disse che con le foglie e i fiori di una varietà di cisto (cistus incanus) è possibile ricavare una tisana molto apprezzata e pregiata in Germania e nei paesi del nord Europa. Una bevanda ricchissima di proprietà benefiche. Controllai su internet. Era vero. Un chilo di cisto, foglie e fiori, arrivava a costare anche 50 euro. Ero sbalordito. E anche un po’ imbarazzato, che fosse un tedesco a insegnarci, a noi sardi, cosa farne del maledetto cisto. Noi in Sardegna fare tanti tipi di liquore, col mirto, col cardo, col corbezzolo, ma le tisane non ci piacciono molto. L’isola di Budelli, quella della Spiaggia Rosa, è stata acquistata all’asta da un miliardario neozelandese. Prima era di una società fallita. Prima ancora era di altri e così via fino alla notte dei tempi. Budelli non è mai stata pubblica da quando esiste l’Italia. Però è protetta da mille vincoli e su di essa nulla può essere costruito. Nulla. È chiaro?
La parte costiera poi, compresa la Spiaggia Rosa, è già pubblica e non era in discussione alcuna privatizzazione. Quindi il miliardario ha comprato 160 ettari di macchia come ce ne sono tanti in Sardegna. Il Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena ha deciso però di intervenire e di farsi regalare l’isola con 3 milioni di Euro pubblici. Fino a qui avevo già detto nel post linkato sopra. Era il 5 novembre 2013. Poi è successo che: si è mosso Pecoraro Scanio, Alfonso Pecoraro Scanio. Ha fatto una raccolta di firme e una campagna di stampa ingannevoli, che hanno portato circa 90.000 persone (100.000 per la Questura, 120.000 per la Juve) a firmare perché Budelli non venisse svenduta e privatizzata. Maddeghè? 90.000 persone hanno abboccato in buona fede firmando un appello falso: che Budelli restasse pubblica. Budelli non poteva restare pubblica perché non lo era mai stata. Al massimo poteva diventarlo. La normativa sui tagli alla spesa pubblica però prevede che la Pubblica Amministrazione non possa acquistare terreni e immobili da privati. Quindi serviva un’eccezione, una deroga, una manovra all’italiana. È così successo che la Commissione Ambiente del Senato, su pressione di SEL, di certa stampa da mulino bianco e della lobby verde, ha deciso di stanziare 3 milioni di Euro per consentire al Parco di regalarsi un’isola. Di fronte a tale delirio c’è stata la reazione indignata del Comune di La Maddalena, di Federparchi (no, dico, Federparchi), del FAI e di Legambiente, che reputano inutile spendere soldi per 160 ettari di campagna già tutelati e ritengono quei tre milioni meglio spendibili in altre cose. La Commissione Ambiente della Camera li ha ascoltati e ha ribaltato lo scenario cassando l‘acquisto di Budelli e destinando quei soldi per metà alle bonifiche nell’ex Arsenale e per metà ad altre aree protette della Sardegna. Sembrava tutto a posto. Poi è arrivato Boccia, uno che ha il cognome che si merita. La Commissione Bilancio della Camera, da lui presieduta, ha ri-ribaltato la frittata tornando allo scenario precedente: il Parco può comprarsi Budelli. Alla faccia delle bonifiche nell’Ex Arsenale di La Maddalena inquinato dallo Stato (Ministero della Difesa) per quasi un secolo e depredato da fornitori dello Stato (la Cricca del G8) che dovevano risolvere un problema e l’hanno aggravato. Alla faccia della fatica a reperire i fondi mancanti per completare l’opera di pulizia. Alla faccia delle urgenze nella tutela ambientale in tutta la Sardegna, tra assetto idrogeologico, lotta agli incendi, desertificazione, scomparsa di specie ecc. Alla faccia della serietà. Di tutte le cose che si diranno sull’affaire Budelli, una vorrei restasse ben impressa nella testa di chiunque: da oggi nessuno potrà più dire che il Parco Nazionale faccia gli interessi della comunità maddalenina e, più in generale, dei sardi. Tre milioni di euro, destinati almeno in parte alle Bonifiche nell’Ex Arsenale militare, sono stati dirottati per consentire l’acquisto di un pezzo di campagna più protetto dell’Area 51. Questo significa che, in questa Italia, un capriccio irrazionale conta più dell’urgenza di ripulire un sito da sostanze inquinanti e renderlo finalmente fruibile per fini turistici, e per far girare un po’ l’economia della Gallura. Parco e Comune a La Maddalena fanno scintille da sempre e il colore politico non c’entra. Non c’è mai entrato una mazza. Il dramma di questo rapporto assurdo tra enti pubblici è tutto nei principi, nell’architettura giuridica che sorregge il Parco. Questo ente -oggi è definitivamente dimostrato- può desiderare e ottenere dallo Stato cose che vanno nettamente contro gli interessi vitali della comunità locale. Ricordo a tutti che senza bonifiche le opere realizzate per il G8 non potranno essere utilizzate da nessuno e continueranno a marcire come stanno già facendo, con grande scandalo della stessa stampa che, non capendo bene come stanno le cose, ha difeso l’acquisto di Budelli come se fosse una cosa intelligente. Il Parlamento, dal canto suo, ha dimostrato ancora una volta che molti dei suoi membri prendono decisioni senza capire nulla delle cose che votano, senza approfondire e senza preoccuparsi di danneggiare le comunità locali che invece dovrebbero difendere. Un’ultima riflessione la vorrei dedicare al mio ex partito, il PD. Questo minestrone di incapacità in cui annaspano molte persone perbene è riuscito, nella persona di certi suoi parlamentari sardi e non -contattati per l’occasione- a negarsi (si dice così quando cerchi qualcuno e questo fa finta di non essere in casa?) di fronte alle richieste di dialogo da parte del Comune e di molti suoi iscritti. Hanno preferito quasi tutti dare ascolto alle pressioni esercitate da Repubblica, che ormai è l’organo del Partito (credo che Silvio Lai sarà d’accordo con me). Il PD ha dimostrato ancora una volta di essere un partito che col territorio non ha nulla a che fare, ma che con le lobbies si intende benissimo, il che non è neanche illegale; è solo demenziale. Si, demenziale; perché il PD è quello stesso partito che poi i voti non li va a chiedere solo alle lobbies, ma li chiede alle comunità, ai militanti, ai dirigenti. Salvo poi ricordarsi di ascoltare solo la pancia delle lobbies facendo finta che al territorio è meglio non rispondere e non dare troppe spiegazioni. Fantozzi, a questi, gli fa un baffo. Ecco alcune parole (rigorosamente in ordine alfabetico) che si sentiranno nel corso del 2014 in Sardegna. Alcune sono parole vecchie, stantie, altre nuove, nuovissime. Bisogna saper miscelare tutto, anche con una dose di ironia. Buon anno a tutti. ABBANOA. Un nome nuovo per qualcosa di antico: l’acqua. Più che nuova doveva essere di tutti. Molta confusione, molti debiti, molta, troppa burocrazia. Un gigante quasi inutile. Un disservizio caro, carissimo, da rivedere. Una delle prime cose da affrontare nel rinnovato Consiglio Regionale. BARRACCIU : Nel bene e nel male è la protagonista del 2013 e lo sarà anche dei primi mesi del 2014. Ha sbagliato quasi tutte le sue mosse e non è riuscita a sfoderare un briciolo di passione. Solo unghie verso chi l’ha affossata. Ma lei, da ottima politica d’altri tempi ha trattato. Per la Sardegna? Probabilmente per se stessa. A maggio ci saranno le elezioni europee e più avanti quelle nazionali. Dalla panchina scalpita e il PD langue. CAPPELLACCI E’ un mistero come una persona così mediocre sia riuscita a convincere Berlusconi per la seconda volta a candidarsi come governatore della Regione Sardegna. Al primo giro ha maramaldeggiato con il sorriso. Oggi ci racconta tutto nel libretto “detto, fatto”. Soprattutto fatto ma rischia di rivincere nonostante i suoi guai giudiziari e la possibilità di un’eliminazione giuridica con la mannaia “Severino”. DODDORE Nel senso di Doddore Meloni. Se lo meriterebbe un libro Doddore. Per la sua idea così scombussolata, così narcisistica e incredibile, per quel suo maluentu che lo ha trasportato nel sequestro di persona più disneyano della Sardegna. Bisognerebbe raccontarla, prima o poi questa storia. Ci vorrebbe un buon disegnatore di fumetti. ELEZIONI. Quelle del 2014. Soprattutto le regionali. Saranno il monopolio delle notizie dei prossimi mesi. Scontri e veleni, amicizie interrotte, inimicizie sedate, candidati senza macchia e molta paura, candidati imputati e impuniti che continueranno a mostrare il loro sorriso. Se i sardi fossero davvero diffidenti, chi ha un avviso di garanzia dovrebbe non prendere un voto. Ma tutto quello che si racconta sui sardi, si sa, è solo in parte vero. FUOCO. Ce la dovrebbero spiegare questa storia degli incendi, prima o poi. Del business degli incendi, dell’estate passata a sentire il rumore dei canadair che volteggiano i nostri cieli. Ce la dovrebbero spiegare la storia di una Sardegna desertificata per scelta e non per grazia divina. Il libro di Fiorenzo Caterini “colpi di scura e sensi di colpa” prova a spiegarla questa strana storia e quel libro merita la lettura. GIGGIRRIVA . Lo hanno cercato come futuro governatore, risolutore dei problemi dei minatori, mediatore tra l’ALCOA e gli operai, speranza di un nuovo riscatto e un nuovo scudetto. Gigi Riva è stato un grande giocatore di pallone. Grandissimo. E nel 2014 compirà settanta anni. Non chiediamogli altro. HOTEL. Sono quelli sparsi nei litorali della nostra isola. Sempre più vuoti e sempre più in crisi. Lavorano ormai solo pochissimi mesi l’anno, nonostante il clima e le potenzialità di una terra che non riesce a ridisegnare un futuro. Non c’è solo mare dalle nostre parti. Vero. Ma neppure il mare sappiamo più offrire. INDIPENDENTISMO. Parola che usano tutti. Cappellacci, per dire, parla di zona franca e scrive in sardo al Presidente del Consiglio Letta. Speriamo tutti in una nuova Catalogna ma, al massimo, riusciamo a costruire uno spot su “affora sa bluetongue”. Sull’indipendenza dovremmo riuscire, un giorno, a fare un dibattito serio e distinguere la storia, la cultura ed il folklore. L’ultimo, a quanto pare ci riesce molto bene. LINGUA BLU . Al di la dello spot impresentabile e davvero esilarante, qualcuno dovrebbe spiegare il business dietro la lingua blu e la peste suina. Questo voler, a tutti i cosi, tenercele queste strane epidemie. Dovremmo riuscire ad analizzare meglio le questioni e provare a debellarle senza “aiutini” e senza spot elettorali. L’assistenzialismo procura voti ma non risolve i problemi. MURGIA. Nel senso di Michela. Io a Michela voglio bene. Perché sa narrare, sa raccontare e sa scrivere molto bene. Sa cucire le storie e sa cucinare. Passare una giornata con Michela Murgia arricchisce e riporta al buonumore. Ci scommetterei su Michela Presidente. Ho solo paura possa incrinarsi la voglia di narrare e discettare. Non vorrei perdere una grande scrittrice. Non so. Però io, a Michela voglio molto bene. E ci scommetterei. NARRARE. E’ il verbo più bello di questa terra. Che riesce ancora a confrontarsi con le parole. Ci sono belle cose in giro, belle storie, bei romanzi. Dovrei citarli tutti ma non voglio. Conosco gli scrittori e conosco il loro/mio narcisismo. Però, davvero, leggete i libri degli scrittori sardi. Dentro questa terra riusciamo ancora a narrare. OSTENTARE. E’ il verbo del 2013 e spero definitivamente scomparso nel 2014. L’ostentazione dei politici, quelli che regalavano le mont-blanc, acquistavano libri rari, quadri d’autore: voler dimostrare di essere i migliori, i più raffinati, mentre i sardi si disperavano e si disperano per un posto di lavoro. Piccoli borghesi cinici e bari. Una classe politica che ostenta il nulla dovrebbe essere spazzata con forza dagli elettori. Questo però è solo un mio auspicio. PARTITO DEMOCRATICO SARDO. Diciamocelo. Nel Pd sardo si fa a gara per chi vince l’oscar del miglior Paperino. Sconclusionati, pasticcioni, vendicativi, “babbasoni”, inutilmente seri, poco pragmatici, senza nessuna strategia con la speranza di vincere le elezioni senza mettere nessuna squadra in campo. Magari funziona, ma la gente, ormai, ha deciso per altri lidi ed altri litorali. Alla prossima. QATAR. Quelli degli stazzi, in attesa dei milioni, nella speranza di costruire un nuovo Eden, una nuova costa Smeralda. Bisognerebbe spiegare a lor signori che la dignità non si acquista come a MONOPOLI per mettere mattoncini come se fossimo a LEGOLAND. ROMANZI. Se sappiamo narrare e sappiamo scrivere riusciamo anche a pubblicare. Sono molti i romanzi di scrittori sardi e molti parlano della Sardegna. Avere un presidente scrittore servirebbe a dimostrare che le parole, a volte, hanno anche un peso politico. Chissà. Magari qualcuno, su questa storia ci scriverà un libro. Prima o poi. STAZZO. E’ la parola gallurese per me più bella, più malinconica, più poetica. Mi piacciono i nomi “lu vaccileddi” “Austinacciu” “Scupetu” “la rena bianca” “Pirrigheddu”, “Lu lamaddjoni” . Sono parole che sono poesia e ricordi. E terra gialla, verde, dura, forte. E’ Sardegna. La mia Sardegna. TERRA. Dovremmo amarla e coccolarla meglio la nostra terra. Annusarla in tutti i suoi profumi, fotografarla negli occhi in tutti i suoi colori. Dovremmo abbracciarla e non consegnarla a nessuno la nostra dolce e cruda terra. UTA. Sarà l’anno dell’apertura del nuovo carcere di Cagliari e la chiusura del vecchio Buoncammino. Il nuovo complesso è stato costruito a Uta, molto lontano dalla città. Lo ritengo un grosso e imperdonabile errore. Non dobbiamo avere paura dei detenuti. Dobbiamo avere paura degli errori. Ma questa è un’altra storia. VACANZE. Questa storia della Sardegna luogo di vacanza mi sembra un’enormità. Dovremmo rivedere i canoni della nostra terra e dovremmo smettere di stare zitti quando qualcuno ci dice: “Vivi in Sardegna, beato te”. Accompagnatelo davanti al mare, mettetegli una valigia in mano e ditegli, senza urlare troppo: “Adesso nuota”. O al massimo, telefona a Cappellacci e chiedigli della sua magnifica continuità territoriale. ZIU PEPPEDDU. In fondo, in ogni anno c’è sempre un saggio che ci racconta le piccole cose, le piccole storie. Zio Peppeddu è la metafora di tutte le storie e di tutte le parole di un’isola che ha polmoni buoni per potersi permettere di respirare per i fatti suoi. Dovremmo solo avere più coraggio. Questo ci racconta zio Peppeddu. Ma lo racconta piano. Buon 2014 Le favole vanno raccontate. Perché massaggiano il cuore e allontanano, almeno per un attimo, le nostre paure per un oggi duro e per un domani con le saracinesche ancora chiuse. E’ passato solo un mese e qualche giorno dall’alluvione che ha distrutto un pezzo di Sardegna, che ha infranto i cuori, che ha centrifugato le anime. Quel giorno, il 18 di Novembre, quell’acqua ha modificato pezzi della mia infanzia. Sono originario di Priatu, località Austinacciu dove, per anni mi recavo in vacanza dai miei nonni. Monte di Pinu era la montagna più alta della mia adolescenza. Quei monti – meglio quei muntigghj – hanno fatto parte del mio amore per la terra, per i luoghi. Quegli stazzi assolati e nudi sono stati la musica delle mie parole. Priatu è un piccolo paese, una frazione prima comune di Calangianus e oggi comune di Sant’Antonio di Gallura. Si conoscono tutti a Priatu. E mi conoscono. D’estate, nella tarda adolescenza, ero quello che acquistava tutti i giorni la Nuova Sardegna e l’unica copia di Repubblica. Ero la felicità del barista. Due giornali in un giorno e, sopratuttto uno nazionale. Da piccolo ero “lu fiddolu di” e, nel mio caso ero “lu fiddolu di lu colciu Franciscu”. Priatu è la metafora del mondo. Tutto accade in quel contesto e se da quelle parti non succede significa che non esiste. Quel giorno, il 18 novembre 2013 Veronica Gelsomino, 24 anni, rientrava a casa dove ad aspettarla c’era Tommaso Abeltino, suo fidanzato da sempre. Da quando erano bambini. Perché il mondo di Priatu prevede l’amore sin dall’infanzia. Ci si promette fedeltà negli anni e si disegna il futuro fatto di figli, una casa, un camino, i dolci, li cucciuleddi, il tempo che si trasporta lento e inesorabile, silente. Priatu è come Macondo: un crocevia di vite sospese, che non si muovono; vivono in quell’universo dolce e minimalista. Tommaso, quel giorno aveva appena telefonato, preoccupato per il temporale. Veronica aveva risposto subito. Mancavo dieci minuti all’arrivo a casa. Ma i dieci minuti passano. Il tempo si ferma. Non corre. Mentre il cuore comincia a ruzzolare e disperdersi. Partono i soccorsi e scoprono una voragine. L’auto di Veronica, accartocciata nel fango dopo un volo di trecento metri. SI è aperta la strada, l’auto è stata divorata. Gli uomini sono sempre convinti di essere invulnerabili, invincibili e non si siedono mai ad osservare la loro stoltezza. Per tutti veronica è morta. Ma non per Tommaso. Per lui Veronica è viva, deve essere viva, la deve riportare a Priatu, alla sua dolce Macondo dove, ha deciso, la sposerà. E le promesse, fatte a qualsiasi Dio vanno mantenute. Veronica, seppure acciaccata, si salva e ieri, primo giorno di inverno Veronica e Tommaso si sono sposati davanti al sindaco di Sant’Antonio di Gallura. Non potevano aspettare oltre. Lui spera di avere un lavoro stabile. Lei ha ancora il ricordo del boato, delle viscere, del buio, del terrore. Ne sono usciti e oggi tutta la redazione di Sardegna Blogger augura agli sposi un futuro sereno e dolcissimo nella Macondo di Priatu. Avvidecci sani. I ricci nel golfo di Cagliari sono praticamente estinti, e i pescatori cagliaritani stanno invadendo la zona di pesca dei colleghi oristanesi, i quali, ovviamente, reagiscono. Ci sono stati già scontri, feriti, minacce gravi. Le Forze dell’Ordine sono nella massima allerta e presidiano i luoghi di contatto. La tensione è alle stelle, si teme il peggio. Come si è giunti a questa situazione, che è nello stesso tempo una catastrofe ecologica e sociale? I ricci di mare non sono solo quella cosa spinosa che ci punge i piedi al mare o la prelibatezza che degustiamo in ristorante. Essi sono un fondamentale elemento dell’ecologia marina. Diverse specie di pesci della famiglia degli sparidi, come saraghi ed orate, se ne nutrono, e quindi tutta la catena alimentare marina soffre della contrazione dell’echinoderma. Da alcuni anni la Regione sarda, a causa del dilagare dell’abusivismo nella pesca del prelibato animale, l’ha regolamentata con delle norme e un calendario, che fissa misure, modi e tempi. Si può pescare da novembre a maggio purché in regola con tutte le autorizzazioni, non più di 3000 ricci a coppia (pescatore più assistente). Mentre ai dilettanti vige il limite di 50 ricci, il tanto per una spaghettata. Inoltre non si possono pescare ricci sottomisura, immaturi, meno di 5 centimetri. Queste regole si sono rivelate del tutto inadeguate a tutelare la risorsa, come un conto molto semplice, matematico, è stato fatto. Oltre ai pescatori specializzati nei ricci vi sono anche i pescatori subacquei professionisti. A questi si aggiungono gli abusivi, quelli che non pagano le tasse, che in una certa percentuale sfuggono al controllo, che il mare è grande. Infine si aggiungono i tanti dilettanti. Un numero spropositato di pescatori ogni giorno razziano l’echinoderma che, come noto, è piuttosto lento alla fuga. Nel frattempo è esplosa la ricciomania a Cagliari e altri posti. Una tradizione sempre esistita, quella della degustazione col vinello, il pane e il limone, ma che, nell’ultimo periodo, si è trasformata in una sorta di moda rustico-chic. I chioschi del Poetto, specie nelle belle giornate, sono presi d’assalto. E ciò ha ingenerato l’aumento della domanda del prodotto, anche nei ristoranti e nei negozi di specialità. Ci sono stati degli studi per verificare il carico della risorsa? Evidentemente no. E se ci sono stati erano sbagliati. Evidentemente. Oppure non sono stati rispettati, evidentemente. Spesso la politica non sa dire di no. Dire di no significa impopolarità, contestazioni, ripercussioni negative nei media e di conseguenza alle elezioni. Ma ogni tanto, dato che è il suo mestiere, anche al politico è dato di dire di no. In questo caso, le autorizzazioni concesse, e le quantità consentite, sono sovradimensionate, praticamente follia pura. Nel dire sempre di si, il politico si rende simpatico, appare buonista, ma poi crea danni devastanti. Uno degli ambiti in cui il politico accontenta l’elettore è la caccia, ad esempio. Regolarmente, tutti gli anni, il calendario venatorio viene cassato dai giudici per delle norme illegittime, fatte per accontentare i cacciatori. E chi ci rimette è l'ambiente, come sempre. Poi viene il dramma della peste suina. Altro ambito dove non si riesce, a quanto pare, a dire di no. Finché ci saranno i rimborsi per i suini morti di peste, il problema non si risolverà, con gravi danni per una delle più produttive filiere dell’agro-alimentare sardo. Ma questo lo sanno tutti, è chiaro a tutti, ormai. Infine, lasciamo costruire dappertutto, anche lungo il corso dei torrenti. Ma di questo ne abbiamo già parlato, ultimamente, anche troppo. Purtroppo. Ma nessuno ha il coraggio di dire di no. Oggi va di moda la politica del sorriso, del dialogo, della pacca sulla spalla. La Sardegna che sorride. Nel frattempo, i pescatori, alla quale non si è saputo dire di no, si ammazzano tra di loro. "Leine aveva sempre il capo chino sul banco. Ad ogni lezione prendeva furiosamente appunti senza mai fermarsi, all'inizio avevo avuto persino il sospetto che scrivesse d'altro. Veniva da un altro Comune, doveva integrarsi e recuperare un certo handicap nei programmi. Ma poi, vedendone crescere il profitto sino all'eccellenza, ho avuto la certezza che tutto il tempo delle lezioni lei lo dedicasse a soddisfare un inesauribile bisogno di sapere. Con questa determinazione si era conquistata la stima e la considerazione di tutta la classe". La professoressa Marina Pala ha appena finito di tratteggiare il suo ricordo di Leine. Se avessi dato retta fino in fondo al furore cresciuto in quegli istanti dentro di me, avrei stretto i pugni ed urlato di rabbia al cielo, avrei insultato con le parole più livide un destino così bastardo da spezzare la vita di una ragazza, una ragazza di sedici anni che della sua esistenza non voleva sprecare neppure un minuto. Ma sono rimasto in silenzio, perché per quanto strano possa sembrare oggi è stata una giornata di festa. Un mese esatto dopo la morte di Leine, travolta assieme a tutta la famiglia dall'alluvione, i ragazzi delle scuole medie di Arzachena hanno dedicato la loro giornata a lei. Hanno ascoltato la lezione di educazione ambientale estratta dal libro "Colpi di scure e sensi di colpa", presentato ieri da Fiorenzo Caterini, si sono posti delle domande sulle loro responsabilità di custodi del paesaggio e hanno piantato quattro alberi. Quattro alberi. L'omaggio ai caduti non è una lapide, fredda e marmorea. No, è un esile carrubo, un cucciolo di albero la cui punta arriverà forse a sfiorarvi le ginocchia. Se voleste dedicare un pensiero, una preghiera, un minuto della vostra vita a Leine, Cleide, Weriston e Isael Passoni, da oggi potete farlo. Trovate le quattro piante dedicate alla loro memoria nel parco alle spalle del nuovo palazzo comunale di Arzachena, in via Paolo Dettori. Bisognerà accudirlo, l'alberello di Leine Passoni. Non risparmiare premure e attenzioni perché il suo fusto cresca sano e robusto, più forte di insidie e minacce.. Esattamente come Leine stava provando a fare con la sua vita, prima che l'onda la spezzasse. Dopo la disgrazia ecco soccorrere le cause dello scetticismo, se non addirittura del cinismo, e della superficialità, se non addirittura dell’ignoranza. Hanno incominciato a riemergere i discorsi degli ex amministratori di Olbia, come Nizzi, che ha lasciato intendere che non esiste una via di mezzo tra la speculazione edilizia senza scrupolo e le demolizioni. Come se non si potesse prevedere uno sviluppo urbanistico che mantenesse almeno un minimo di scrupolo, rappresentato dalla fascia di rispetto di dieci metri dai corsi d’acqua previsti dalla legge. Scherziamo? Sai quanti metri quadri di prezioso terreno edificabile sarebbe andato perduto? Per cui si minacciano le ruspe. O speculazione, o demolizione. Cosa scegliete? Ma in queste ore, con le acque calme, i paladini dell’ignoranza e del menefreghismo rifanno capolino. Vuoi vedere che la colpa è degli uccelli protetti, che non si possono fare i lavori di pulizia dei corsi d’acqua, dichiara un altro sindaco, questa volta del Nuorese. Ma quando mai! Qualcun altro tira in ballo la Forestale, che non fa tagliare gli ontani, le belle piante che ornano i corsi d’acqua sardi. E che hanno una importante funzione di sostegno degli argini. E che comunque si possono benissimo tagliare con una semplice autorizzazione. Poi ne esce fuori un altro, che prende ad esempio il muro che in Giappone ha salvato un paese dallo tsunami, che il cemento non è così male. Come a dire, costruiamo e poi facciamo altri muri. Una analogia che non calza neppure come i cavoli a merenda. Ora il rischio di tutta questa ondata di scetticismo e ignoranza è quello di finire per contrapporre in una sterile dicotomia natura vs artificialità. Premetto che ci sono degli ambiti così antropizzati che soltanto con dei correttivi artificiali si può porre rimedio e difendersi dallo strapotere della natura. Detto questo mi rendo conto che quando c’è di mezzo la fregola del dio denaro non si può dare per scontato nulla, anche le nozioni scientifiche più banali vengono rimosse. Mi propongo, pertanto, di fare un ripassino sul tema “alluvioni perché”. Ed è bene ricordare due elementi. Primo. Se avesse piovuto ad Olbia come ad Orgosolo ora staremo piangendo un disastro molto maggiore, una carneficina. Secondo. Il centro storico di Olbia, con le case più antiche, non è stato minimamente interessato dall’alluvione. Dunque, se Orgosolo e il centro storico olbiese sono restati intatti, significa che l’evento pluviometrico non è stato così “millenario” come si sono affrettati a dichiarare i governanti sardi. Evidentemente è la città moderna che soffre di una predisposizione all’evento. In generale quando si antropizza un ambito naturale occorre mettere in conto una dialettica perenne con le forze della natura. Sottovalutare questa conflittualità perenne è da stolti, o da furbi, a seconda dei punti di vista e di chi ci guadagna. Olbia è stata costruita negando la presenza della natura, annientandola. Non è stato previsto minimamente l’effetto di una pioggia torrenziale che, lo ricordiamo per non dare nulla per scontato, non riguarda l’abitato, ma il bacino imbrifero che converge sulla città. In pratica è pericoloso quello che piove su Monte Pino e sugli altri monti che coronano la pianura paludosa di Olbia. Ma l’antropizzazione della città ha riguardato anche le campagne circostanti, punteggiate di lottizzazioni con case e strade. Questi fenomeni antropici moderni si sommano alle cause storiche che hanno determinato l’aridità della Sardegna, predisponendola alle alluvioni e agli incendi, che si rincorrono alimentandosi a vicenda. Come il disboscamento, tema notoriamente a me caro. Una cinta boscata attorno alla città avrebbe impedito il disastro. Perché gli alberi, specie quelli autoctoni, regimano il corso delle acque. La pioggia cade sulle chiome che proteggono il suolo, che con il tempo si è fatto soffice e spugnoso e assorbe l’acqua. Terreno che viene trattenuto dalle radici. La pioggia si incanala lentamente verso i ruscelli che sono in grado di raccogliere l’acqua anche nella massima piena. Diverso se la pioggia cade direttamente sul terreno denudato. Scivola via velocemente e si raccoglie in fiumane straordinarie che scendono a valle. Ma se al terreno nudo, che comunque ha una sua capacità di assorbimento, sostituiamo l’asfalto e il cemento, ecco che la pioggia non viene assorbita dal terreno e, rimbalzando sul selciato duro e impermeabile, acquista velocità innaturale. Se a questo aggiungiamo che il naturale decorso delle acque viene ostruito dalle case e in particolare dalle strade, abbiamo la formazione di dighe le quali spesso cedono alla furia delle acque. Si accumula l’acqua a monte di queste ostruzioni e scende giù a valle con ondate anomale. Il disastro di Olbia, si chiarirà meglio, pare causato in gran parte proprio da quest’ultimo fenomeno. Altri centri come Pirri, Capoterra, Terralba, Villagrande, e tanti altri, hanno ciascuno delle specificità a rischio: terreni paludosi, disboscamento a monte, corsi d’acqua capricciosi troppo vicino, torrenti tombati sotto il paese senza considerare bene la portata d’acqua massima. Ma Olbia sembra sintetizzare gran parte di questi fattori di rischio, tutti insieme. Le canalizzazioni della città sono assolutamente inidonee a raccogliere queste acque che non sono regimate a monte. La situazione è molto seria, anche perché non vi sono gli spazi per costruire degli argini artificiali idonei a contenere fiumane di questa natura. Forse occorrerà pensare a canalizzare l’acqua fuori dall’abitato con grandi opere idrauliche. A spese dei contribuenti, ovviamente. Milioni di euro, ovviamente. Perché l’amico dell’amico non poteva perdere quei dieci metri quadri di terreno edificabili. E c’è chi ci ha costruito una carriera politica, sopra quei dieci metri quadri edificabili. Alla faccia degli uccellini protetti e degli ontani. Incontro per caso un amico ingegnere. Lo incontro mentre risponde alla domanda di un conoscente.
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July 2014
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