Voglio raccontare una storia. Che non andrebbe raccontata. E neppure vissuta. Potrebbe essere nascosta tra le pieghe della fantasia se non fosse che, invece, parte da una notizia vera. Ve la voglio raccontare per provare a comprendere dove si annida la dignità, dove la giustizia e il futuro. Dentro questa storia non c’è neppure un vincitore. Tutti colpevoli. Dannatamente colpevoli. Anche chi questa storia ve la sta per raccontare. E’ la storia di Deborah, quarant’anni, di Sassari, una ragazza come tante, con qualche difficoltà, come tante, con dei figli da crescere, come tante e da qualche anno viveva in un alloggio popolare nel quartiere di Li Punti, a Sassari. Non trova lavoro Deborah ed è costretta a recarsi in Sicilia, dove qualcuno le ha promesso qualcosa. Starà via due mesi. Lascia la casa, la casa popolare ottenuta grazie alla graduatoria penosa e poco dignitosa, troppo lunga per poter accontentare tutti. Lascia la casa ad una conoscente, anche lei senza un lavoro e senza una casa. In difficoltà, come ce ne sono tanti. Quando ritorna, dopo qualche mese, Deborah non riesce più ad entrare nel proprio appartamento. Hanno cambiato la serratura e quella casa è occupata da altri. Quasi sicuramente la sua conoscente, senza una dignità ben delineata, ha “venduto” per poco, forse per niente, la casa ad altre persone che l’hanno occupata. perché anche loro sono in difficoltà e anche loro sono senza casa. Hanno gettato tutti i mobili, tutti i vestiti, tutti i ricordi di Deborah e le hanno chiuso, letteralmente, la porta in faccia. Deborah, allora, si rivolge alla Questura, ai carabinieri, inscena una protesta e si mette lì, davanti alla porta della sua casa ottenuta legalmente attraverso la graduatoria del comune. Comincerà lo sciopero della fame e decide di continuarlo fino alla morte se qualcuno non le restituisce la propria abitazione. Tutti vanno a sentire le ragioni ma è il Magistrato che deve prendere la decisione, denunciare chi si è impossessato abusivamente della casa e per fare questo ci vuole tempo. Adesso il comune di Sassari ha sistemato Deborah per qualche giorno in un albergo e spera di risolvere velocemente la questione. Probabilmente gli abusivi saranno denunciati, ci sarà la polizia che dovrà occuparsi della cosa e quelle dieci persone resteranno senza casa, in attesa, in sospensione. Sconfitti. E’ una storia terribile, angosciante, una storia da dimenticare, se fosse possibile. Ma non è plausibile girarsi sempre dall’altra parte. Dicevo che abbiamo perso tutti. Ed è vero: noi che facciamo finta di non vedere, noi che non riusciamo a fare un piano abitativo degno di questo nome, noi che non sappiamo più guardare le cose con una visione più normale, più vicino a queste terribili necessità. Perché dico noi? Perché siamo noi, tutti noi ad avere attuato questa politica: chi vota e chi governa. E anche chi non vota e se ne frega. E’ una storia che molti vorrebbero non raccontare, che dentro Facebook non ci fa una bella figura tra i cagnolini e i gattini e i vari “mi piace”. Ma andava raccontata. E ricordata. Chiedete conto, in questi giorni, soprattutto a Sassari a tutti i candidati che vi chiedono il voto: “Ma tu, a la conosci a Deborah?”
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La parola di questi giorni è, indubbiamente, “trattativa”. Si è trattato con Genny ‘a carogna? E chi lo ha fatto? Con quale mandato politico? Tutto questo discutere e discettare mi ha portato indietro nel tempo: esattamente a trentasei anni fa. Proprio il 5 maggio del 1978 le trattative con le Brigate Rosse erano praticamente chiuse. Non ci credeva più nessuno. Probabilmente Craxi tentava di dialogare con frange estremiste di Potere Operaio e con Franco Piperno. Nulla più. Il comunicato numero nove, consegnato il cinque maggio 1978, parlava di “esecuzione della sentenza”. Eppure in quei cinquantacinque giorni si misurarono due grandissime scuole di pensiero: quelle favorevoli a trattare e quelle “conservatrici e irremovibili.” Non si tratta con il nemico e con gli assassini. Non si tratta con le brigate rosse. Questa visione ortodossa racchiudeva la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista italiano. Non tutti gli uomini di quei partiti a dire il vero. Per la trattativa, invece, c’erano quelli del “Manifesto” e molti socialisti. Eugenio Scalfari e la sua “Repubblica” erano assolutamente contro ogni possibilità di mediare e discutere con gli uomini delle brigate rosse. Io, nel 1978 avevo diciannove anni e, diciamolo, ero per la trattativa. Si parlava di salvare la vita di una persona e istintivamente avrei lottato per qualsiasi vita. Così come oggi. Facevo anche un ragionamento politico e, per quei tempi, squisitamente ideologico: avrei preferito Aldo Moro vivo. Sicuramente il corso degli eventi e della storia avrebbe intrapreso strade molto diverse. Oggi, però, la situazione è fondamentalmente diversa. Si doveva giocare una partita di calcio. Non c’erano vite da barattare, solo un pallone per provare a trascorrere un attimo di tranquillità. E poi, diciamocelo: Genny ‘a carogna non ha lo stesso peso politico delle brigate rosse. Nel senso di credibilità. le BR sono state sicuramente più feroci e, purtroppo, più coerenti. Questo ragazzo tatuato, gonfiato, abbronzato, con una maglietta oltraggiosa non era assolutamente credibile. Non si poteva trattare e non si doveva venire a patti per una partita di calcio. Invece, incredibilmente, “uomini degli apparati” (ma chi erano?) si sono avvicinati, hanno discusso, mediato, hanno trattato. Lui, dall’alto della sua posizione, fisicamente ma non intellettualmente apicale, ha speso poche parole e ha deciso che si, si poteva fare. Ha alzato il pollice in alto. “I like” e lo spettacolo è cominciato. E’ il segno dei tempi. Una volta si discuteva di trattare con uomini “assassini” e crudeli, uomini che avevano ingaggiato in nome di un popolo inesistente una battaglia contro lo Stato. Oggi si tratta con uomini “arroganti”, uomini che hanno come valore una battaglia contro se stessi e contro la loro terribile solitudine. Nel 1978, a diciannove anni ero per la trattativa, per salvare una vita umana. Oggi, davanti a Genny ‘a carogna, non riesco a trovare le giuste note su un pentagramma terribilmente stonato. Vorrei trattare per uno sport colorato, dove tutti siano avversari durante la competizione e incredibilmente uniti quando si sente il fischio finale. Vorrei poter dire che anche Genny, in fondo, ha le sue motivazioni. Che però non trovo. E che, sinceramente, non riesco a comprendere. Da piccoli, almeno ai miei tempi, i giochi erano circoscritti e limitati alle poche cose che in quel tempo si possedeva: pallone, palline, tappi di bottiglia, figurine, gessetti, plastilina, corde varie e molta fantasia. Un giorno eravamo pirati ed un altro cow boy o principesse o maghe o sacerdotesse. Si costruivano storie, si disegnavano scenari e trascorrevano le serate in attesa della fantomatica “tivù dei ragazzi” pronta a rimettere tutto in ordine e regalare altri attimi di fantasia. Ecco, ai miei tempi, c’eravamo inventati, per gioco, un mondo parallelo dove non esistevano i cattivi, dove tutti dovevano contribuire al bene comune e dove nessuno poteva litigare. Pena l’esclusione da quel mondo. L’avevamo chiamato il pianeta degli amici della terra perché ritenevamo che il suolo calpestato, gli alberi, i fiumi, le montagne, fossero di nostra proprietà e anche noi, come dicevano i vecchi Apaches, facevamo parte della terra. Figli della terra, quindi figli di Gaia. Avevamo dodici anni e molte lentiggini e brufoli di contorno ai nostri sogni. E avevamo diritto a disegnare quello strano mondo. Leggendo la notizia, davvero singolare, dell’imprenditore a cui hanno sequestrato, a Sassari, l’auto con targa contraffatta, come il tagliando dell’assicurazione e il passaporto, tutti intestati al fantomatico Regno sovrano di Gaia ho pensato, per un attimo, fosse uno dei miei vecchi amici che aveva realizzato il sogno: quello di regalare alla fantasia i colori della realtà. Ho anche pensato ad uno scherzo di buontemponi: la targa era davvero apprezzabile per la sua fattura. Invece, a quanto pare, gli appartenenti al Regno esistono davvero e non sono tenuti a rispettare le leggi dello Stato italiano, in quanto essi sono sovrani di loro stessi. Per sancire questo distacco, a quanto pare, compilano un documento da inviare al Presidente della Repubblica (che non riconoscono). In questo documento ci sono delle dichiarazioni davvero incomprensibili e legate a crediti che ognuno di noi, all’atto della nascita dovrebbe ottenere dallo Stato. Ecco perché, secondo i sudditi di Gaia niente è dovuto allo Stato Italia. Se non è goliardia non è, perlomeno nelle spiegazioni, alta finanza o analisi sociologica. Dunque è una scelta di persone capaci di intendere e di volere che si autoproclamano sudditi di un regno per il quale tutto è bellissimo, tutto è semplice e dove tutto funziona perfettamente. Mi verrebbe da chiedere ai felici appartenenti al regno di Gaia come sono gli ospedali dalle loro parti, come si vota, ci saranno le primarie, oppure tutto è lasciato all’autodeterminazione dei popoli? E la benzina quanto cosa? Pagheranno le accise nel regno di Gaia? E che lingua si parla in questo Regno, apparentemente senza confini? Quale scuola, quale università, quale arte si dipana nel loro mondo? Perché, in fondo, siamo tutti minimalisti e pragmatici. Non grandi portatori di filosofia e neppure profondi conoscitori di economia, politica o fisica e chimica. No, per fare un mondo, per creare l’algoritmo di uno Stato basta un passaporto, una targa e un’assicurazione che non esiste. Come il famoso “non compleanno” di Alice nel paese delle meraviglie. Una visione onirica della vita. E se il nostro suddito di Gaia avesse investito un pedone sulle strisce pedonali come si risolveva la questione? Non avrebbe riconosciuto le strisce italiane? Se non si pagano le tasse nessuno contribuirà ai servizi perché, molto probabilmente, quei servizi sono garantiti da altri: come per esempio il comune di Sassari. Dove il suddito di Gaia manda suo figlio a scuola, ha il medico di fiducia, getta il sacchetto della spazzatura nel cassonetto della sua via, utilizza gli ospedali e gli asili nido, l’asfalto dove la sua auto cammina, le rotonde, i semafori, i musei senza voler contribuire minimamente allo Stato che non riconosce. Il buon suddito di Gaia non è, come sembra, un buontempone, un personaggio in cerca d’autore. E’ una piccola sanguisuga che, anziché rispettare le regole minime della comunità in cui vive, tenta di inventarsi mondi paralleli e virtuali. Una volta, da giovani, giocavamo per ore, fino a stancarci. Ma avevamo capito le regole e il senso del gioco. E che cosa fosse la realtà. E’ notizia di qualche giorno fa che il Corpo Forestale dello Stato ha sequestrato alcuni animali di un circo in tournè in Sardegna. Il maltrattamento agli animali oggi è un reato piuttosto serio, punito dal codice penale con pene abbastanza severe. Però è un reato difficile da determinare. Applicato alla lettera metterebbe in discussione tutto il rapporto tra uomini e animali, allevamenti, animali domestici, cani da caccia, animali da lavoro. Però gli animali da circo sono costretti a vivere situazioni che, oggi, possono essere ormai considerate anacronistiche. Però la fortuna storica del circo si basa su quella particolare attrazione che gli uomini hanno degli animali umanizzati. L’imitazione del comportamento umano da parte degli animali attrae gli uomini, che lo preferiscono alla visione naturale. Basta vedere come appena venga postata la foto di un comportamento umanoide di un animale, ad esempio un abbraccio, si riempia di likes e di commenti del tipo “lo dico sempre che gli animali sono meglio degli uomini”. Fateci caso. Si elogiano gli animali nel momento in cui l’animale imita l’uomo. Questa attrattiva per gli animali umanizzati è la stessa che ha fatto la fortuna dei fumetti di Disney e di tutti gli altri cartoons e pupazzi vari. Se l’animale fa l’umano, è buono. In realtà, i comportamenti umanoidi degli animali, sono il frutto di uno stravolgimento della loro natura. Si tratta di animali “imprintati”, cresciuti in cattività. Noi li scambiamo per comportamenti belli, con la nostra morale antropocentrica, ma in realtà dietro si cela una storia di abbandono e allontanamento dal proprio habitat naturale. La retorica dell’animale buono migliore degli uomini, sapendolo, perde tutto il suo fascino. Io non so se gli animali sono meglio degli umani, certamente non sono così contradditori, contorti, e ipocriti. Perché al centro di questa attrazione per gli animali umanoidi ci sta questo antropocentrismo con tutto il suo peso, che riempie, ancora oggi, i circhi con leoni e tigri seduti su una seggiola. Però è una visione del rapporto uomo e animale sempre più anacronistica, sempre meno attrattiva e suggestiva. Sarebbe ora di ristabilire delle regole di gestione degli animali in cattività che evitino certe aberrazioni. I bambini si divertono con i clown e gli acrobati. E anche noi impariamo a godere degli animali veri che si comportano da animali, e non da pupazzi del Muppets Show o come fumetti di Topolino. Scienza e poetica del bacio sulla bocca Di Fiorenzo Caterini Alcuni sostengono che la poesia arriva laddove scienza e filosofia non giungono. Penso sia vero. L’intuito e il sentimento acuto fondono il nucleo dell’atomo con la mente. Ed è vero che, spesso, la scienza, soprattutto quella di stampo accademico, è costretta da regole e procedure che ne impediscono la piena espressione. Ma siccome la fluidità del sapere umano ci offre variabili imprevedibili, ecco ritrovarmi, per una volta, a ragionare invertendo i termini della questione. Mi trovo a ragionare, cioè, su quanto la spiegazione scientifica di questioni attinenti l’argomento più decantato dalla poesia, l’amore, in realtà riesca ad andare ben oltre quanto pensato dai poeti. A dispetto dell’idea che l’amore e le sue componenti possano essere comprese solo con un grande sforzo spirituale, la razionalità scientifica raggiunge vette di spiritualità idealistica forse impossibili da raggiungere dalla poesia, ben oltre, direi, le banalità di apostrofi rosa e simili. In particolare sul bacio. Che possiamo suddividere, in sintesi, in due categorie. Il bacio sociale, quello degli amici e dei parenti; e il bacio sensuale. Il bacio sociale non è altro che la conversione culturale di una preziosa attività sociale che rinveniamo nei primati. I gruppi di scimmie, infatti, attraverso l’aspirazione d’aria con schiocco delle labbra, si ripuliscono vicendevolmente dai parassiti. Questa cosa può sembrare tutt’altro che poetica, me ne rendo conto, ma ha proprio in questo il suo valore. Per superare la barriera del ribrezzo, infatti, occorre un legame sociale che nasca da motivazioni interiori molto forti. La società, come organismo complesso, si fonda su questi legami che, col tempo, la cultura antropologica trasforma in affettivi. Anche la carezza, se vogliamo, ha la stessa funzione, di spulciare il pelo del compagno. Non a caso sono i capelli la parte più accarezzata. E fin qui stiamo dentro la poetica del bacio sociale. Ora veniamo invece al bacio sensuale, quello sulla bocca, per intenderci. Qui, per fortuna, i parassiti non c’entrano nulla. Gli umani sono animali molto sensuali. Hanno una necessità evolutiva molto particolare, quella di dover seguire per molti anni la prole che, a differenza delle altre specie, ha necessità di molte cure parentali. Il piacere del sesso serve ad alimentare un sentimento di legame per la coppia (o di un gruppo parentale), che così, restando unito, garantisce la sopravvivenza della prole e quindi della specie. Niente di poetico, per il momento. Quello che va oltre la semplice spiegazione scientifica, è la sublimazione del bacio come elemento primigenio del rapporto tra genitori e figli. Il bacio, infatti, è la trasformazione culturale di quel passaggio di nutrimento che avviene tra genitori, specie la madre, e i figli, durante la crescita. La forma primigenia di amore è dunque quello figliale, e nel corso dell’evoluzione questa chimica sentimentale, fondamentale per la sopravvivenza della specie, si è trasferita anche al compagno, con l’aggiunta del piacere fisico derivante dall’attività, fondamentale per la sopravvivenza, rappresentata dalla sessualità. Una miscela potentissima, amore primigenio e attrazione fisica, capace di devastare l’anima delle persone. Questa cosa la trovo di una bellezza straziante. Sapere che il bacio rappresenta la forza vitale, il nutrimento simbolico della vita e, soprattutto, il prendersi cura l’uno dell’altro come una materia unica, come un fluido ininterrotto di energia, è sconvolgente, e fa capire quanto l’amore, scomposto nel suo elemento più semplice e preliminare, sia una forza che racchiuda, in sé, tutta l’essenza della generazione e della stirpe. Ecco perché, deviazioni ludiche o edonistiche a parte, il primo bacio sulla bocca ha quasi il significato dell’apertura del patto sulle quali stabilire le prime regole non scritte. Il bacio è dunque una manifestazione promettente di reciproca attenzione e tenerezza, è il prendersi cura dell’altro, il nutrirlo, come si farebbe con il proprio bambino. Infatti, dopo il primo bacio, è tutto un vezzeggiamento infantile, ciccino e piccolino mio, trottolino e pucci pucci. Si torna bambini, ma non per caso. L’amore, dunque, ci rende bambini e genitori nello stesso tempo, e ci stringe in una morsa che è di solidarietà molto stretta, vitale. Il potente motore del piacere fisico, che la natura ha messo a disposizione della riproduzione, alimenta questo legame. Ecco perché, mi direte, le coppie in crisi non si baciano più, e neppure con l’amore mercenario. Ma come in tutti i fatti della cultura umana, la cosa funziona solo se c’è un elemento assolutamente fondamentale: la reciprocità. Senza reciprocità, non si va da nessuna parte. Altro che apostrofo rosa. Dell’amore per gli altri. L’occasione era interessante. Un sociologo come Luigi Manconi, una ricercatrice presso A buon diritto onlus come Valentina Brinis, un Ministro come Anna Maria Cancellieri che ha ricoperto i ruoli di ministro dell’Interno e, attualmente, Ministro della Giustizia, davanti ad un tavolo nel salone degli eventi della Nuova Sardegna a parlare di immigrati raccontati nel libro scritto a due mani da Luigi Manconi e Valontina Brinis (Accogliamoli tutti, Il saggiatore € 13) Detto così potrebbe essere anche un discorso scontato, un narrare che parte dalla tragedia del 3 ottobre 2013 quando 368 persone si stima siano morte. Non è, dunque, un dato certo. Da questo punto ci si rende conto che la materia è difficile, complessa, dura, a tratti sconvolgente. Per spiegare quel “si stima”, Luigi Manconi ricorre ad un dato storico, di quando ad emigrare eravamo noi: «Dal 1861 ad oggi sono emigrati, nel mondo, 38 milioni di italiani ma, secondo altri studi, sarebbero circa 42 milioni. Vi è un’approssimazione di quattro milioni.» Di uomini. E di cuori. E di affetti. Quattro milioni di storie sconosciute, che nessuno riuscirà mai a raccontare. Come per le 368 persone figlie di un destino approssimativo, anonimo, di identità non conosciute. Perché poi, infine, è di uomini che ci stiamo occupando, delle loro storie, delle loro vite, delle loro esistenze. E delle loro morti. Manconi snocciola dati, prova a razionalizzare la pancia dei pensieri di chi, invece di dire “accogliamoli tutti”, come il provocatorio titolo del libro, urla quasi quotidianamente “andatevene tutti a casa”. Eppure, in Italia abbiamo bisogno di loro, abbiamo bisogno delle loro braccia, abbiamo bisogno delle badanti. Si calcola, per esempio, che su 60 milioni di italiani 12 milioni appartengono alla fascia d’eta compresa tra i 65 e i 105 (Manconi, cavallerescamente e giocosamente dice tra i 65 e l’infinito), molti di essi hanno una badante (sono circa 1.700.000 le badanti straniere in Italia) e, nei prossimi anni il numero si incrementerà di ulteriori 750.000. Siamo un paese di vecchi e, solo grazie agli stranieri, l’incidenza demografica non si appiattisce. Tra l’altro – ed è un dato sociologicamente rilevante – la crescita degli stranieri in Italia si è rallentata perché arrivano meno stranieri e molti di loro presenti da qualche anno abbandonano il paese. Paradossalmente potremmo affermare di essere un paese con pochi stranieri e solo gli stereotipi fondati su assunti ideologici ci fanno pensare il contrario. Manconi ci racconta, inoltre, di una scarsa concorrenza nei posti di lavoro – almeno finora – tra italiani e stranieri perché questi ultimi sono stati utilizzati per le mansioni più umili, proprio perché in Italia esiste un sistema produttivo non adeguato e ha bisogno, essenzialmente, di mano d’opera non qualificata, quasi tutta straniera. E’ possibile che questo scenario sia destinato, tra qualche anno, a modificarsi soprattutto se perdurerà la recessione. E’ anche vero che in alcuni casi la convivenza è stata dolorosa con episodi di razzismo eclatante, ma gli episodi di inclusione sociale sono assai più numerosi e tutti ben radicati nel territorio. In realtà Manconi sottolinea la “mala politica nazionale” in contrasto con tutte le buone pratiche esistenti nel sistema locale come, per esempio, il progetto Benénnidas, istituito presso il comune di Sassari dal 2007 che prepara gli aspiranti collaboratori domestici a mansioni di assistenza agli invalidi, agli anziani e ai bambini, oltre che ai lavori di pulizia e di cura della casa. Un progetto diventato “best pratics” e citato, a buon diritto, all’interno del libro. Un libro che chiede e si chiede e accetta molte risposte, accende provocazioni e pone come proposta il permesso-lavoro annuale per garantire il diritto-dovere di un emigrante a cercare una soluzione alla sua richiesta di dignità. Oggi, invece, in Italia, esiste ancora il reato di clandestinità. «A chi sostiene che è un reato esistente in altre nazioni democratiche ricordo sempre che ci sono, nel mondo, undici paesi considerati di democrazia avanzata dove persiste ancora la pena di morte e quindi non è una buona ragione», dice Manconi aggiungendo, subito dopo: «Noi abbiamo cancellato lo Stato di diritto, dove si prevedeva il reato quando c’è un atto che lede terzi o interessi collettivi protetti. Oggi, con questo reato utilizziamo una condizione come quando si condannavo i vagabondi, i giudei. Potremmo, per assurdo, introdurre il reato di povertà.». Manconi racconta, infine, il dramma dei CIE (centri di identificazione per l’espulsione) centri che lui e Valentina Brinis conoscono molto bene e sanno di trovarsi davanti a delle vere e proprie galere. Ma, decisamente peggiori perché sono dei “Non luoghi” dove esiste il “non tempo” utilizzato solo ed esclusivamente per soddisfare le esigenze fisioligiche basilari: mangiare, dormire, urinare, defecare. Perché dovremmo aprire le porte ai fratelli immigrati? Perché, come afferma Cécile Kyenge nella prefazione al libro «l’immigrazione non può essere semplicemente osteggiata, né banalmente subita. L’immigrazione va governata. Solo così può diventare una risorsa.» Della risorsa “straniero” chiaramente non se ne discute né in Italia e né tantomeno in Sardegna. Nella campagna elettorale è un tema davvero marginale. Eppure, almeno da queste parti, dovremmo parlarne. Per amore dei nostri tanti emigrati, per le loro sofferenze, le loro sconfitte, le loro umiliazioni subite. Per provare a raccontare il mondo con molti più colori e più occasioni: culturali, spirituali, musicali, storiche. Per raccontare un mondo dove le terre, una volta erano tutte unite. Per raccontare un mondo dove il mare non deve più essere utilizzato per restituire corpi ma come momento di viaggio, di avventura, di scoperta. Di amore. Vanno a scuola insieme, tenendosi per mano. Occupano lo stesso banco biposto, una accanto all’altra. Hanno entrambe il grembiulino a quadretti e lo zaino pasticciato a contenere libri e quaderni dove giacciono, adagiate sul fondo, un’infinità di briciole della merenda che spesso s’insinuano tra le pagine del diario. Giocano insieme alla ricreazione e non diresti mai che ad una delle due hanno strappato la fanciullezza. Non immagineresti mai che ad una delle due hanno mutilato i genitali. Non sappiamo se per farlo abbiano usato un bisturi o un rasoio, oppure un coltello, o anche una pietra appuntita, una scheggia di vetro o di legno. Perché solitamente sono questi gli strumenti per effettuare l’operazione. Poi le hanno piegato i margini della vulva e li hanno accostati usando gomma arabica, zucchero, chiara d’uovo. Se invece non rientrava nella categoria delle fortunate, hanno usato le spine d’acacia. Hanno però avuto l’accortezza di lasciare una piccola apertura per la fuoruscita di urina e sangue mestruale, motivo per cui la bambina terrà quel cilindretto di legno lisciato finché la cicatrizzazione avrà compiuto il suo corso. Se tutto il processo arriva a termine senza intoppi e la piccola non andrà incontro a qualche emorragia, ad infezioni di varia natura, a qualche ascesso, ulcera, cistite, anemia, infertilità, si ha la certezza che una volta adulta non proverà mai eccitazione. Non un barlume di piacere. Non un accenno di orgasmo. Ed ecco che, dopo aver depredato con un’ignobile razzia la spensieratezza dell’infanzia e scippato il futuro appagamento sessuale, il bisogno di alcune società patriarcali di negare e controllare la sessualità femminile giunge a compimento. E cadiamo in errore se pensiamo che queste barbarie da noi non esistano, perché proprio nel nostro paese sono oltre 35 mila le donne vittime di mutilazioni genitali. E circa un migliaio quelle destinate a subirlo. Esiste un numero verde, gratuito, (800 300 558) che accoglie segnalazioni e notizie di reato realizzate sul territorio italiano. Le mutilazioni genitali nulla hanno a che vedere con le tradizioni e la cultura di un popolo. Dovrebbero essere contemplate alla voce “Torture” ed essere contrastate con la stessa forza e accanimento. Ché non bastano le feste per l’integrazione col cous cous gratis per tutti! Doveva essere capodanno anche per lui, forse il peggiore trascorso nella sua breve vita. Non è morto, no. Ma c’è andato molto vicino. Ed ancora cammina nella labile linea di confine che separa il nostro mondo da quell’altro. Ed è in questo mondo che avrebbero dovuto scrivere “Lasciate ogni speranza o voi che entrate, non in quell’altro, perché non è necessario delegare responsabilità attribuendo le responsabilità ad una fonte superiore del male: l’uomo è assolutamente abile ad infliggere qualsiasi crudeltà. Soprattutto quando la sua vittima è inoffensiva. Quel farabutto che la notte di San Silvestro ha trasformato un gattino randagio in un divertimento, usciva dalla discoteca. Aveva ballato tutta la notte, ma non è bastato. Aveva forse bevuto e brindato con gli amici, ma non è bastato. Aveva corso come un pazzo e fatto i 200 all’ora, ma non è bastato Gli ha legato un potente petardo alla zampina e si è divertito a guardarlo mentre girava su stesso cercando di liberare l’arto da quella morsa che gli dava fastidio. Poi ha acceso la miccia. E lui ha cominciato a correre all’impazzata perché il sibilo ed il calore sempre più vicino alla sua carne l’hanno gettato nel panico. Poi quel petardo è esploso, facendo un fracasso assordante. E’ saltato in aria, dilaniando quella zampetta e spargendone brandelli nell’aria. C’è sempre un gran parlare di violenza in televisione e nei giornali, ma dove risiede la diversità tra quella inflitta agli uomini o agli animali? L’unica differenza è la vittima! E’ una di quelle notizie che, probabilmente, passerà veloce e quasi sottovoce. Di quelle che i razzisti leggeranno fischiettando per poi andare immediatamente oltre, a leggere l’oroscopo e le previsioni del tempo. Volteranno la pagina del quotidiano sollevando un sopracciglio e convincendosi ancor di più delle loro radicate opinioni - che sarà mai? L’avrebbe fatto chiunque -. Di quelle notizie che per loro, i razzisti intendo, non fanno notizia. Perché una rondine non fa primavera, si diranno facendo spallucce. Perché non si può attribuire il ruolo di eroe ad un lurido nomade di un altrettanto lurido campo rom. Sennò come si fa a sostenere la tesi che sono tutti brutti, sporchi e cattivi? In effetti uno zingaro lercio come Sedrik Dori di 23 anni vede un’auto che sfonda la ringhiera di un ponte precipitando nell’acqua, e lascia frettolosamente la sua roulotte per tuffarsi a salvare la donna che era alla guida della vettura, sotto lo sguardo attonito di decine di connazionali della malcapitata, non riuscirà col suo gesto a sgrassare il sudiciume che accompagna la fama della sua gente. Perché sennò come si fa ad affermare con convinzione che sono tutti brutti sporchi e cattivi? Ditelo ai nostri connazionali vicentini che questa mattina si sono goduti lo spettacolo dal ponte, senza nemmeno togliersi il cappotto. La vita è come un test, uno di quelli che si trovano nelle pagine centrali delle riviste femminili. Hai presente quelli tipo grappoli d’uva con acini quadrati? Devi saltellare da una casella all’altra: se hai risposto SI alla domanda 3, vai alla domanda 4. Se hai risposto NO vai alla domanda 7. E se ancora la risposta successiva non si allinea al sentire comune, il tuo profilo è “stramba”. Proprio come in un videogioco, l’esistenza di una persona deve passare per fasi ben ordinate, dove ognuna è propedeutica alla successiva. Il primo stadio prevede il termine degli studi, fatto ciò si passa alla ricerca di un’occupazione, poi è la volta di un marito, quindi una casa acquistata con un mutuo sgranocchiato dai due stipendi, un figlio, un avanzamento di carriera e poi, eventualmente, un secondo figlio. Ma se succede che la tua vita non ha seguito, per scelta o per casualità, il summenzionato iter allora potrà capitare che andrai al matrimonio di tua cugina e tutto il parentado ti domanderà: “Quand’è che finalmente verremo al tuo?” Perché, siccome ti sei avvicinata pericolosamente all’età nuziale, il tuo orologio biologico dovrebbe segnalarti crudelmente che sarebbe ora che ti trovassi un coglione qualsiasi col quale sfilare mascherata fino all’altare, distribuire confetti ai parenti e brindare con le braccia incrociate. Poco importa se, dopo qualche tempo di entusiasmo per la nuova vita, scivolerai nella faticosa sopportazione della sua presenza in casa, se andrete in pizzeria e mangerete guardando ognuno il proprio piatto, se le conversazioni si ridurranno a mere comunicazioni di servizio, se la relazione sarà basata sull’incomprensione reciproca. Nella migliore delle ipotesi, l’unione si potrà dire riuscita quando imparerai a litigare con armonia. Ma una società degna di essere definita tale, si fonda sulla famiglia e i tuoi genitori, se nei paraggi, si affretteranno a rispondere: “Ma figurati, non è certo fatta per il matrimonio!” E non si capisce se le loro parole siano accompagnate da orgoglio o vergogna, più probabile la seconda ipotesi però. A dispetto di tutte le tue rassicurazioni, continueranno ad immaginarti nella solitudine della tua dimora, scontenta e inappagata della piega ormai irreversibile che ha preso la tua vita. Suppongono, anzi, hanno la certezza che la tua passione per gli animali e le cure che riservi loro siano la sublimazione di una maternità insoddisfatta. Non potranno mai capire che la tua vita va benissimo così com’è. Che quella libertà estrema, difesa con le unghie e coi denti da innumerevoli relazioni sentimentali pronte a fagocitarla, ora non la cederesti per nulla al mondo. Che l’autogestione anarchica è un privilegio dal sapore sublime. Che la tua zitellaggine, interrotta periodicamente da relazioni a tempo determinato, è talmente cronica da aver reso quasi superflue le tue ovaie. E anche se ami i bambini, il tuo amore si limita al tempo utile per far sbocciare un sorriso sulle loro labbra agitando un sonaglino o battendo le loro manine e non te ne frega nulla di averne uno tutto tuo. E comunque i parenti smetteranno di rivolgerti quella domanda idiota quando tu, durante un funerale, rivolgerai loro il medesimo quesito. Un brano dei Pink Floyd e questo sole mattutino di dicembre sono il preludio migliore, in auto, all'inizio di un viaggio. Dalle mie “vie traverse” sbuco sulla 131, sono le 10:10 del mattino, è domenica e il traffico è davvero quasi zero. Scorrevoli anche le rotatorie, così sino al budello (come chiamo quella genialata infame e pericolosa di sottopassaggio verso Cagliari), anzi prima, un paio di chilometri prima, sul rettilineo dove il traffico si fa un po' più intenso fra un raccordo e l'altro. Guido con la solita attenzione, comunque, sono in corsia di sorpasso e davanti a me vi è una renault, di fronte strada libera ma questa continua a stare sulla corsia di sorpasso. Provo a lampeggiargli coi fari, nulla. Faccio per spostarmi a sorpassarla sulla destra, metto la freccia, rientro, e questo mi cambia corsia davanti... Gli sparo tre bei colpi di clacson, insistenti, e lui si rimette di scatto in corsia, mentre lo sorpasso sulla destra incrociamo lo sguardo per un attimo, gli mimo, energicamente, di guardare avanti e dietro mentre guida, non per aria, e proseguo. Percorsi nemmeno duecento metri, mentre ero sulla corsia di sinistra per immettermi nel sottopassaggio, la stessa renault mi sorpassa a destra, vedo distintamente gesticolare l'autista e il passeggero, discutono animatamente, mentre raggiungiamo praticamente lo spartitraffico rientra a sinistra, tagliandomi ancora una volta la strada e costringendomi a frenare di colpo per evitarlo. A quel punto i miei gesti ed i colpi di clacson diventano più espliciti, il tipo prosegue facendo finta di nulla, noto che in auto c'è pure un bambino, lo vedo andare da una parte all'altra dell'abitacolo, sul sedile di dietro, evidentemente senza cintura. Io dovrei proseguire verso sud, lui si immette per Sassari senza indicarlo, decido di seguirlo anche se allungo il mio cammino. Nelle curve delle rotatorie di via Budapest taglia la strada ad un altro paio di auto, che lo strombazzano e bestemmiano per bene. Lo seguo. Svolta, ancora una volta senza indicarlo con le frecce che sembra non avere, per Via Parigi e subito per via Washington, finalmente usa l'indicatore di direzione e svolta in via Bovet, rallenta, trova parcheggio subito, io mi fermo poco distante. Scendono in tre dall'auto, ancora discutendo tranne la bambina, che mi passa vicina dirigendosi di corsa verso la chiesa, i genitori la seguono battibeccando ancora, la messa è cominciata e loro sono in ritardo, ecco perché litigavano. Amen La Spagna sale nella macchina del tempo e con l’approvazione del disegno di legge contro l’aborto, si catapulta indietro di almeno trent’anni. Trecentosessanta mesi di lotte femminili, conquiste, obiettivi raggiunti con fatica vengono in un sol colpo buttati nel cesso. Ora io vorrei capire una cosa, come può una nazione credere che rendendo nuovamente illegale l’aborto il numero dei bimbi non nati possa subire un calo in favore di quelli che invece vedranno la vita. Pensano che sia assimilabile al divieto di fumo nei ristoranti e che, dopo la legge, l’equazione lineare dovrebbe essere “non posso abortire e quindi me lo tengo”? Ma questi delinquenti lo sanno che dietro la decisione di interrompere una gravidanza c’è una quantità di dolore che nessun uomo è in grado di immaginare. Che, al netto di rari ed isolati casi riguardanti scelte incoscienti e superficiali, la quasi totalità delle madri che ha abortito ha sperimentato un vero e proprio lutto. Perché dietro ogni bambino non nato ci sono notti insonni e lacrime e rabbia e paura e resa. E per quelle mamme il loro bambino sarà sempre tale, anche se hanno scelto di non vederlo mai, e non il “prodotto abortivo” che viene descritto nei fogli della burocrazia. Forse gli uomini non lo sanno, ma le mani di una mamma in una sala d’aspetto che attende paziente il suo turno per porre fine alla sua gravidanza, stanno per tutto il tempo posate su quell’accenno di pancia, anche quando è poco più prominente dell’esito di una colite. E restano poggiate lì, con delicatezza, fino a che quella donna non scomparirà dietro il vetro della porta del reparto di ginecologia. E non sanno che sicuramente lei piangerà per tutto il tempo, e anche dopo. Perfino quando avrà il cuore così anestetizzato da non riuscire più a versare una lacrima non trascorrerà un solo giorno della sua vita in cui non dedicherà un pensiero, anche fugace, a quel bambino che portava in grembo. Gli spagnoli dovrebbero sapere che quando una donna è approdata a quella decisione, a torto o a ragione, è perché evidentemente rappresentava l’unica via percorribile. E quella donna la via la percorrerà fino in fondo, anche quando la possibilità di un’interruzione di gravidanza le verrà negata in ambito ospedaliero. Cambieranno le modalità, non verrà rivisto l’obiettivo. Lo Stato, che dovrebbe tutelarla, diventerà nemico costringendola a ricorrere alla geografia della clandestinità. Perché se viene disconosciuto un basilare diritto di scelta, la situazione impone al groviglio di valori di quelle donne a rimodularsi rispetto alla necessità di trovare una qualunque via d’uscita. Ed ecco che ritornerebbero alla ribalta i luoghi improvvisati e malsani frutto di sistemi che, sulla necessità e sulla disperazione delle donne, hanno costruito ingenti fortune. Vogliamo tornare all’assunzione di decotti di prezzemolo oppure ricorrere alla tossicità dello zafferano? Cosicché quel feto talmente avvelenato venga sputato fuori dall’utero? Altrimenti le iniezioni di acqua saponosa, iodio o fenolo che sortirebbero lo stesso effetto. O anche un’altra opzione: quella meccanica. E allora via libera all’introduzione di tamponi, di lamine, cannule, addirittura chiodi e raschiatoi con l’incognita, tutt’altro che remota, di barattare la propria vita con una setticemia. Sono grata alla mia esistenza che mi ha preservata da un’eventualità cosi dolorosa e se fosse capitato non so davvero cos’avrei deciso. So solo che avrei voluto la possibilità di scegliere. Sono consapevole che questo post mi renderà abbastanza impopolare, però non posso più tacere: il calcio non mi piace. Cioè non è che semplicemente non lo apprezzo, lo odio proprio. Non mi capita mai di seguire una partita, se non in occasione dei mondiali. E un piccolo strappo alla regola ogni quattro anni lo faccio esclusivamente per assaporare l’atmosfera goliardica e campanilista che si respira in quel frangente, non certo per godermi lo spettacolo della gara in sé. Odio la melodrammaticità del calcio, l’esagerazione, i tifosi imbizzarriti, la platealità dei falli, le urla dei mister, la disperazione del gol subìto e la sproporzionata contentezza di quello inflitto agli avversari. Non mi piacciono i tifosi i cui neuroni per 90 minuti rotolano insieme al pallone. Ho avversione per quell’urlo “gooooool” strillato fino a raschiare le corde vocali, unito agli sguardi da invasati e le carotidi che si trasformano in autostrade. Mi stanno sulle balle anche arbitri e giocatori e, crepi l’avarizia, pure i guardalinee. I primi perché secondo me avrebbero voluto fare i giocatori, ma non avevano la stoffa ed hanno ripiegato in un’attività simile, ma che resta comunque un surrogato: anziché inseguire il pallone corrono appresso ai giocatori I calciatori perchè, secondo me, avrebbero voluto fare gli attori di soap opera. Infatti, se malauguratamente entrano in contatto con un avversario, danno prova della loro celata vocazione. I guardalinee perché serve una propensione prepotente alla coglioneria per stare impalati per tutto il tempo della partita a sorvegliare che una riga bianca non venga oltrepassata dalla palla. Quando tiravo di scherma e la mia guardia non era perfetta, il maestro ci infilava il fioretto nello spazio ricavato dalla distanza tra i miei piedi e lo agitava vorticosamente frustandomi i polpacci fino a farmi venire i lividi. E in un campo di calcio io ho visto uomini col cerchietto per i capelli. Cos'altro c’è da aggiungere? Quando hai un amico come lui ti senti speciale. E’ la nostra amicizia a renderci speciali. Ti conosco da tanto tempo. Inizialmente ci siamo osservati a distanza, come galletti da combattimento, indecisi se starci sulle palle o piacerci. Una via di mezzo non era contemplata con due caratteri come i nostri. Poi, senza quasi accorgerci, ci siamo trovati ad essere uno il punto di riferimento dell’altro. Un’amicizia così ti dà il diritto di chiamare a notte fonda se hai un problema che ti toglie il sonno. Ti dà il diritto di guardare con aria di sufficienza tutte le ragazze che gli sbavano dietro e pensare: - Per me è asessuato, ma è il mio migliore amico, l’ho conquistato molto più di voi! – E t senti speciale quando lui rinuncia ad una notte di sesso per trascorrere il tempo con te, fino a notte fonda, a parlar di cazzate. E ti senti speciale quando si rivolge a te come se parlasse ad un compagno di squadra. E ti senti speciale quando sai che ti ha difesa a spada tratta contro chi ha osato criticarti, anche se poi ti ha presa in disparte e cazziata senza pietà. E ti senti speciale quando sai che sei la prima persona che mette al corrente di ogni variazione nella sua vita. E ti senti speciale quando sai che ha detto alla sua gelosissima nuova fidanzata: - Non mettermi a scegliere tra te e l’amicizia con Romina perché la risposta potrebbe non piacerti! – E un amico così vale più di cento fidanzati perché sa tutto di te e, nonostante questo, gli piaci. Forse consapevoli di essere formati (e circondati) in larga parte da essa, un tempo l'acqua l'adoravamo. Poi divenne come quei polli cellophanati che i bimbi di oggi pensano nascano direttamente nei grandi magazzini. Convogliata presso i nostri rubinetti via tubo o confezionata dentro bottiglie di plastica, l'acqua è divenuta un prodotto di consumo pari al resto, non più “bene comune primario” ma puro commercio. La nostra adorazione si è limitata di molto, l'apprezziamo quando la troviamo fresca, nell'arsura. Durante un pediluvio o una doccia rinfrancanti. Al mattino, nel pomeriggio ed a tutte le ore della notte, l'acqua l'abbiamo vicina, a portata di bocca; ma quando scarseggia o manca, allora si che l'adorazione diventa sincera, sofferente, ma pur sempre non totale. Tenta e ritenta, ci stanno provando a privatizzarne la raccolta, la distribuzione ed i ricavi, alla stessa stregua del territorio e dell'aria -col vento ed il solare- stanno cercando di rendere commerciabile quanto nessun essere umano dotato di coscienza avrebbe mai pensato di lucrare solo sino a qualche decennio fa. Noi, uomini moderni, esseri civilizzati e presuntuosi, continuiamo a pensare di poterci definire “proprietari”, in un pianeta dove stiamo risultando piuttosto essere ingombranti, inaccettabili ed insostenibili per tutto il resto di esseri e luoghi. Luoghi dove sino a ieri ci sentivamo ospiti, che adoravamo quanto e come l'acqua, dove “passavamo leggeri” lasciando quanto trovato, durante tutta una vita, ancora più accogliente e sano. Adoravamo praticamente tutto, dentro un pensiero comune tanto semplice quanto palpabile, reale, dato dal fatto che quel “tutto” si figurava come “nutrimento” nelle menti di ognuno di noi. L'acqua, dolce o salata, diventava una madre, da accudire e rispettare. La terra stessa, diventava madre, alla quale dare e dalla quale prendere, in un equilibrio che solo millenni di convivenza possono insegnare. Insegnamenti che andiamo perdendo ogni giorno di più, senza potere nemmeno confrontarli con quelli che ci lasciamo inculcare, giorno per giorno, attraverso molteplici forme che in nessun modo si ricollegano al valore reale di quei beni, così perdendolo. Ne conosciamo il prezzo di certe scelte, un prezzo altissimo come solo può esserlo quello pagato in vite umane ma anche a quella, alla vita in ogni sua forma, sembriamo aver finito di prestare rispetto e adorazione dovuti. Acqua ritorneremo, perché non c'è posto dove l'acqua non possa arrivare su questa terra che è sua, non nostra, e sulla quale ci ha concesso, magnanimamente, di nascere e vivere per questo giro, giusto un attimo, per lei. Anni fa, durante un noto talk show televisivo, il Magistrato Pierluigi Vigna dichiarò, a proposito dei sequestri di persona in Sardegna, che molte difficoltà della giustizia erano dovute all’omertà dei sardi. Vigna era un ottimo giudice ed un eccellente giurista, ma applicava alla realtà isolana un luogo comune mutuato dal resto del meridione d’Italia. Se avesse letto “La rivolta dell’oggetto”, il grande libro dell’antropologo Michelangelo Pira, forse avrebbe capito che il suo era un banale pregiudizio. Pira racconta, infatti, citando le famose scenette di quel grande regista sardo che è stato Nanni Loy, “Specchio segreto”, antenato della attuali “candid camera”, che l’omertà fosse un fatto insito nell’animo umano, variamente localizzabile e interpretabile. Con quell’arguzia che lo contraddistingueva, con quell’amara ironia, oserei dire, tipicamente sarda, Nanni Loy aveva fatto legare una donna dentro un negozio, nascondendo la telecamera per osservare le reazioni degli avventori. I quali, nonostante fossimo in una città del nord Italia, avevano, nessuno o quasi, abbozzato una protesta, una reazione, per quella incresciosa situazione. Ora, se fosse successo in Sardegna, aggiungeva Pira, si sarebbe scatenato il finimondo. Pira in questo modo dimostrava come siano i contesti a rendere omertose le persone, a prescindere dalla cultura di appartenenza. L’omicidio della povera Dina Dore pone inquietanti interrogativi per la sua efferatezza, per la sua crudeltà, per la sua mostruosità. Ma anche per gli ambienti in cui è maturato. Intanto Gavoi, un paese relativamente ricco, che differisce da altre realtà dell’isola. Gli abitanti dei paesi vicino sostengono che i gavoesi siano di origine ebrea, per via della loro dimestichezza con il commercio. Una leggenda probabilmente. Però è vero che il paese ha conservato una certa stabilità economica, ha contribuito a far conoscere ed espandere la denominazione del migliore formaggio sardo, ha conservato con intelligenza un magnifico centro storico, ci sono negozi, attività commerciali e artigianali di vario genere, locali di ritrovo, persino una squadra di calcio di un livello di gran lunga superiore alle dimensioni del paese. Ci sono manifestazioni culturali tutto l’anno, non solo il famoso festival letterario, uno dei più importanti in Italia, che ha contribuito ad allargare gli orizzonti culturali del paese, ma tanto altro. Solo nel prossimo periodo natalizio si contano numerose manifestazioni culturali e di svago da fare invidia a centri ben più grossi. Insomma, Gavoi non è il paese degli stereotipi agro-pastorali dell’interno dell’isola. La stessa ambientazione del delitto, pare più assimilabile a quelle motivazioni borghesi, urbane direi, che non alle tradizionali faide del mondo agro-pastorale sardo. Eppure certi stereotipi restano. Oggi siamo molto vicini alla verità. Non è corretto anticipare i risultati di un processo penale in corso, ma mi pare di poter dire che, se la giustizia farà positivamente il suo corso, non sarà solo merito degli inquirenti. Sarà merito anche di un paese che non ha avuto timore, di persone che si sono ribellate alla paura e hanno detto quello che sapevano, hanno collaborato, hanno parlato. Una crisi di rigetto che il paese ha avuto nei confronti dell’orrore. Non è strano che la memoria identitaria dei sardi cominci sempre dalle ferite, scriveva Placido Cerchi a proposito della “vergogna di sé”. Vergogna collettiva, s’intende. Perché sempre di più, noi sardi, tendiamo a formare il nostro automodello identitario sulla base di quello che ci dicono gli altri, sulla base del come gli altri ci vedono e di come vorrebbero che fossimo. Questa reazione di Gavoi può essere vissuta, invece, come una opposizione a quei modelli di inculturazione imposta, per contrastare una deriva culturale, un assimilazione generalizzata, per potere in un futuro, come ci ricorda Cerchi, fare in modo che la memoria lunga delle cose gratificanti prenda il sopravvento sulla memoria corta delle ferite. Gli uomini sono tutti uguali. E’ la frase che spesso si sente ripetere dalla donne riunite in combriccola tipo Sex and City. Ma è davvero così? Ecco una teoria socio-antropologica, semiseria invero, che dimostra il contrario, e che infatti suddivide gli uomini in 4 categorie. Sempre considerando che ogni classificazione è una convenzione ed un arbitrio, e che esistono le eccezioni, le gradazioni intermedie, i sottogruppi eccetera. Per cui, al solo scopo di offrire una sintesi, si può dire che esistono 4 categorie di uomini, nel rapporto di coppia: l’aguzzino, il bonaccione, il trombamico e l’uomo ideale. L’aguzzino. L’aguzzino è il tipico tagliagole che attrae le donne per via dell’alone iniziale di fascino e di mistero che riesce a infondere. Lunghi silenzi, appuntamenti mancati, carattere imprevedibile, egoismo giustificato da sofferenze più o meno vere, sono le sfumature di grigio tipiche di questa categoria. In realtà l’aguzzino è un ignorante furbo che sa bene che se si dovesse manifestare sarebbe un palese minchione, a ha imparato a giocare sui vuoti psicologici della donna, sui suoi sogni, sulla sua ansia di redimere l’uomo sfortunato. La donna si trasforma così in scendiletto del nostro, succube delle sue angherie, prigioniera delle sue stesse colpe e incapacità di affrontare i propri limiti. Il bonaccione. Il bonaccione è in genere una brava persona che ha imparato nella vita, come Don Abbondio, a farsi gli affari propri con quel pizzico di opportunismo funzionale alla sopravvivenza. Sa che la donna è in grado di escogitare sottili sofferenze psicologiche, fatte di musi lunghi, reazioni spropositate, equivoci creati ad arte. E allora ha deciso di assecondarla in tutto e di darle sempre e comunque ragione. E’ l’apoteosi del quieto vivere. Il trombamico. Il trombamico è il Peter Pan della compagnia, personaggio tanto simpatico quanto superficiale, colui che è in grado di regalare momenti di svago a chiunque, amici e, nello specifico, amiche. Non si prende mai sul serio e mette subito le cose in chiaro, ci si diverte e basta. E’ molto ricercato, dalle donne, per far ingelosire gli altri, per dimenticare una storia andata male, per un po’ di svago disimpegnato, senza pensieri. A parole, le donne disprezzano la categoria dei trombamici, nei fatti, però, non disprezzano il trombamico, visto che non gli mancano mai le richieste. L’uomo ideale. E’ in genere un uomo maturo ed equilibrato, capace di togliersi dalla vita le dovute soddisfazioni. L’unico uomo che riesce ad essere, nello stesso tempo, forte e buono. Esso è raro e ricercato dalle donne, le quali hanno per lui delle attenzioni particolari e mettono in campo tutte le loro risorse seduttive, mostrandosi, però, nel contempo, donne di spessore, con tutte le prerogative di una donna ideale. Attenzioni, però, che spingono progressivamente, finendo, talvolta, per risultare un poco invadenti. Allora la frase tipica che si sente ripetere l’uomo ideale è: “questa cosa l’ho fatta solo con te”. Ora, in genere, gli uomini non si discostano molto dalla categoria di appartenenza, hanno un ruolo abbastanza statico. Capita che degli uomini, però, col tempo, passino da una categoria ad un’altra. E le donne? Che categorie per le donne? Si potrebbe dire: le stesse 4 categorie. Da quelle che sono le mie osservazioni, però, mi è capitato di vedere la stessa donna comportarsi da vittima depressa con l’aguzzino, vendicarsi con il successivo bonaccione, non prima di essersi trasformata, per dimenticare, in un simpatica emancipata dentro una combriccola di trombamici, e inseguire contemporaneamente un uomo ideale, alla quale mostrava il lato più sobrio e maturo. Per cui, stante questa esperienza, sto sviluppando l’idea che, in realtà, non esistano categorie nelle donne, ma che vi sia una univoca dote, una abilità tipicamente femminile, di trasformarsi sulla base del partner che ha di fronte. Ma siamo ancora nel campo della sperimentazione empirica e si attendono, perciò, ulteriori dati di conferma. Che non mi si dica che la sfera fisica, all’interno di un rapporto di coppia, è cosa irrilevante. Non mi convincerete che col tempo passerà in secondo piano e verrà sostituita da tante altre componenti meno carnali, ma fondamentali per la coppia. Sono convinta, da sempre, che una relazione è monca se mancano amore, complicità e stima. Ma è altrettanto mutilata se, pur appagante dal punto di vista emotivo, non è infarcita da passione e attrazione fisica. Quindi, prima di dare la vostra benedizione e schiudere a tempo indeterminato il vostro cuore ad un uomo, fate bene attenzione che non rientri tra i seguenti esemplari. E se durante la lettura, ad un tratto strabuzzate gli occhi, vi scappa da ridere e dite “è lui!”… c’è ben poco da ridere. Fuggite, piuttosto! 1) L’imbranato: poco incline alla materia. A scuola collezionava giudizi del genere "dotato ma non si applica" e prosegue su quel filone per tutta la vita, anche fra le lenzuola. Goffo quando ti accarezza con una mano simile ad una raspa. Molesto quando ti bacia incollandosi come una patella sulla roccia, ti sfonda il torace adagiandovisi senza ritegno coi suoi 90 kg. Ti provoca un crampo alla coscia e, maldestramente, ti tira i capelli. Saglia modi, tempi e ritmi. Il rimedio è fingere velocemente un appagante orgasmo conclusivo. Non è eticamente corretto? Ecchissenefrega, se non ti sbrighi a simulare questo prosegue per altre 3 ore e ti lascia sul letto sfatta come carne da macello. 2) Il megafono: ha la fissa del sesso parlato, anzi urlato. E mentre tu chiudi gli occhi lui ti fa la telecronaca di tutto quello che sta facendo, sta per farti e ti farà dopo. Superfluo dirgli che lo capisci da te quello che ti sta facendo, e sarebbe carino scoprire anche quello che ti farà... ancor meglio se evita di urlartelo nell’orecchio. Soprattutto perchè certi latrati, degni del figlio impazzito di Vanna Marchi, fanno davvero spavento! Tale enfasi, solitamente, prevede due varianti: quella mistica (Ohhh mio Diooooo!) e quella volgare (sììììì, sei la mia puttana!). Che poi, se una è un po’ lucida, gli risponde: “Puttana sarà tua sorella! 3) Lo sciacallo: mentre giri il minestrone, lui ti avvinghia da dietro e ti solleva la gonna. Tu rischi di cadere con la faccia sul fornello ed ustionarti il 40% del busto, ma sorridi e lasci fare. Torni stremata da una giornata di lavoro e sogni solo un bagno caldo e musica, ma lui ti aspetta al varco e non ti dà nemmeno il tempo di toglierti il cappotto. L'arrapato cronico sarà anche una compagnia ideale per un weekend al mare con la pioggia che batte sui vetri, ma è una gran rottura di coglioni nella vita quotidiana. 4) Il pioniere: il pianeta sesso lo affascina in tutti i suoi risvolti, anche quelli più reconditi. Prima ti usa per ripassare tutto il Kamasutra, aggiungendo qualche posizione inventata da lui. Prosegue con la meticolosa perlustrazione del tuo corpo e tu riesci a salvare solo i buchi delle orecchie. Quindi ti chiede di farlo vestita da infermiera, coniglietta, vigilessa, ragioniera, parrucchiera. Poi ti accorgi che non gli basti più e vanno coinvolte, nell'ordine: la tua amica, la tua collega, tua cugina, la tua istruttrice di latino-americano e, se non ti opponi, anche una tua vecchia zia della casa di riposo. E' paralitica? Che importa? Può sempre guardare. 5) Lo stronzo: è amabile, premuroso, romantico e brillante. "Basta con questa vita, ho voglia di innamorarmi, sono pronto per una storia seria!" E' garbato, sensibile, mai scontato e tu ci finisci a letto. Mentre lo fate ti sussurra: "Mi sto innamorando di te". Tu sorridi, sai che non può dire sul serio, non così presto almeno, ma un po' gli credi. Il giorno dopo ti manda un sms: - Sono troppo instabile in questo momento e tu meriti qualcuno migliore di me. - Sei attonita e capisci di essere scivolata su uno stronzo. Categoria zeppa di esemplari! 6) Gnocchetto: "Ti è piaciuto?" chiede lui. "Perché, è successo qualcosa?" ti verrebbe da rispondere. Invece taci perché non lo vuoi umiliare. E non ti sei accorta di nulla perché lui è l'uomo meno dotato di tutto l'emisfero boreale, e forse anche di quello australe. Però gli dici che per una donna le misure non sono importanti , che le dimensioni non contano, che ciò che è importante è la passione… e bla bla. Tutte balle, ovvio, ma perdi tempo in attesa di guadagnare una via di fuga e sparire a tempo indeterminato dal suo campo visivo. Rientrando così, a tua volta, nella categoria delle vere stronze. Noblesse oblige! Il culto ostentato dello spreco è una pratica rituale da tempo oggetto di studio da parte degli antropologi. Franz Boas aveva osservato, in una tribù di pellerossa della costa del nord del Pacifico, la distruzione rituale di beni di consumo, come canoe, tende, oggetti di artigianato anche di pregio, nel corso di grandi banchetti, festeggiamenti per occasioni importanti come, ad esempio, la nascita di un figlio. Ma questo rituale, nelle sue diverse forme, si è osservato un po’ in tutto il mondo. Nonostante la visione dell’accumulazione del capitale, così radicata nell’economia moderna di mercato, e la saggezza contadina che nulla doveva sprecare, nel nostro mondo civilizzato si accompagna ancora questo rituale, più manifesto nei luoghi deputati ad essere “fashion”, come la Costa Smeralda. Lo ha descritto molto bene uno studioso come Bachisio Bandinu nel suo libro “Narciso in vacanza”. Lo spreco di beni all’interno di contesti come i locali smeraldini, che promulgano una sorta di continua festa estiva, con costi esorbitanti sia per l’ingresso che per le consumazioni, evidenziano una ritualità che si avvicina al culto ostentato dello spreco tipico appunto di quelle tribù sperdute. Lo scopo è dimostrare agli altri la propria superiorità economica, al fine di evidenziare le proprie differenze, le proprie capacità di spesa. Mentre nel potlach osservato da Boas, alla fine, la cerimonia aveva un carattere socializzante, simile a quella del “dono”, come studiato da Mauss, nel caso della Costa Smeralda, invece, è l’esclusività che si ricerca, ovvero la distinzione tra il noi, inteso come comunità chiusa e sigillata di persone ammesse nel circo dei facoltosi, e il loro, che spesse volte coincide con una idea di popolazione locale, da tenere alla larga. C’è quindi una forma di moderno e sottile colonialismo determinato dalla ostentazione dello spreco, con tutte le deformazioni che la cultura coloniale produce, ivi compreso un senso di inferiorità, di complesso, su una parte della popolazione locale, che finisce per ammirare il carnefice e per adottare comportamenti imitativi. Un rituale, questo dello spreco, che contiene una componente denigratoria e di dispregio dell’altro, direttamente proporzionale al senso di compiacimento per la propria presunta superiorità. A questo rituale di spreco, si accompagnano infatti giudizi denigratori nei confronti degli esclusi, con ricorso ad insulti che richiamano aspetti del mondo agropastorale: pastori, pecore, capre. Allo stesso, modo, al rituale dello spreco, oltre gli insulti “agropastorali”, tipici di una comunità affetta da antropocentrismo ideologico, si accompagna l’antropocentrismo difensivo, con l’invocazione che “essere ricchi non è un reato”, difesa pronunciata, spesso, quando si tratta di pagare le tasse, che invece reato lo è. Ma a prescindere dalla integrazione o meno dei fatti che la legge stabilisce come rilevanti, occorre dire che, piuttosto, il rituale dello spreco, nei contesti occidentali di ricchezza prodotta a scapito dello sfruttamento di altri popoli che invece affrontano periodi di grave crisi e di conflitti con difficoltà di sopravvivenza vera e propria, rappresenta, sotto il profilo umano ed etico, una insopportabile sopraffazione, un abuso della coscienza, una squallida distorsione della morale dell’uomo. Il potlach Amerindo, fu proibito dalle autorità canadesi e americane, perché inutile. E per inutile, leggesi incomprensibile alla occidentale cultura razionale e materiale, che non è più in grado di cogliere i fatti simbolici e sacri più profondi, ormai residui solo in alcune remote popolazioni. Invece si consente, ai ricchi del pianeta, di spendere 75 mila euro per una borsetta fatta con pelli di animali sottratti al patrimonio di paesi poveri, o di spruzzare decine di migliaia di euro di champagne in ritrovi “chic”. Sono le contraddizione di questo “atomo opaco del male”, come lo definiva Montale. Che non sarebbe così opaco se ci fosse meno cialtroneria e meno ignoranza, e un po’ più di sensibilità. La quale, purtroppo, non si può comprare. Mi sono imposto il silenzio. Nel senso di non riversare parole. Anche perché, poi, si rischia di pasticciare tutto. E’ una giornata afona. Non ci sono rumori e non c’è troppa voglia per riciclare commenti. Da queste parti, in questa fila, sono gli sguardi a pennellare le vite e gli attimi. Come in una tela dove si può decidere tutto. Il disegno libero o un dipinto ben delineato. Avevo un mio recapito e un mio indirizzo di posta elettronica. Sono cose che non spariscono. Ma non ho più il computer o il tablet o il cellulare per controllare chi mi scrive. E’ assurdo. Ma è così. Avevo anche i miei biglietti da visita. Bianchi, sobri. Dottore tal dei tali, responsabile marketing e referente delle innovazioni e business. Cose così. Che in questa fila non contano molto. Come le cravatte di Missoni. Da queste parti non funzionano. Si predilige il bianco e nero. Camminiamo con calma e manteniamo una certa dignità. Nessuno chiede. Si sta in fila senza porre domande. Anche perché le risposte sarebbero variegate. E forse inutili. E forse stupide. E crudeli. Mi chiedo quale sia il nesso che ci unisce, la cesoia che ci riporta all’interno di questo lungo serpentone. Perché siamo in tanti. Molti. Forse troppi. La povertà, la nuova povertà si misura in metri. Anzi, ci sono due file: la prima parte da via Concordia, la seconda in via Canova. Nel cuore ricco e pulsante di una città una volta simbolo del “fare”. Milano Dove le vene del suo sangue hanno mille rivoli. In questo caso molte giungono in via Ferrante Aporti, al centro Aiuto della Caritas. Siamo seimila. Molti stranieri. Ma noi italiani stiamo scalando velocemente la classifica della disperazione. Ho una storia quasi normale. In altri tempi sarebbe stata risolvibile. Una separazione perché l’amore finisce e le storie si modificano. Una nuova vita, un provare a ripartire con la consapevolezza di avere comunque un’opportunità. Invece perdi il lavoro. Quello che tu pensavi impossibile. Quel lavoro che ti portava a navigare tra corso Buenos Aires e via della Spiga. A cercare cravatte di Armani, a provare occhiali Versace, a parcheggiare un Suv preso a rate. Ed invece, come d’incanto, come un miraggio , come una storia raccontata di fretta, con troppa fretta, ti trovi qui. A fare la fila. A chiedere un posto per mangiare. E per dormire. Con lacrime indurite e con una vita sdrucciolevole. In fila. Ad attendere. Parcheggiato ai confini della vita. Con un biglietto da visita che non serve più a nessuno. Tutti si chiedono come sia stato possibile essere giunti da queste parti. Come sia stato possibile dilapidare tutto il patrimonio sociale e culturale in pochi anni. Come sia stato possibile disintegrare la dignità delle persone. Poi, dalla fila, qualcuno mi osserva. Ha occhi romantici, incisi nella speranza. “Vedrà”, dice, “che qualche pittore cambierà questa tela e questi colori”. Rispondo a quegli occhi e stringo le spalle. Non è la fila che mi spaventa. E’ che questa fila non la vede nessuno. Sono sardo. Lo sono perché i miei genitori lo erano e lo sono perché - sempre i miei genitori – si trovavano in Sardegna quando sono nato. Diciamo che avevo buone probabilità di nascere a Sanremo perché mio padre, per lavoro, si doveva trasferire da quelle parti e poi, per una serie di motivi non dipendenti dalla sua volontà (figuriamoci dalla mia) non l’ha fatto. Quella serie di motivi che l’hanno portato, per esempio, a farmi nascere a Oristano, luogo dove non abbiamo nessuna radice essendo la mia famiglia di origine logudorese e gallurese. Sono sardo e lo sarei rimasto – almeno credo – anche se fossi nato a Sanremo. Appartengo ad una famiglia multi creativa. Nel senso che si è sparsa in mezzo all’Europa e, infatti, ho dei cugini sardo-napoletani, sardo-romani, sardo-belgi, sardo-olandesi e in Sardegna, in ogni caso, ho cugini sassaresi, oristanesi, algheresi che, a loro volta, sposandosi, hanno miscelato nuove razze e nuove opportunità. Sono sardo per tutta una serie di scelte e di vicissitudini, alcune scaturite da una precisa volontà ed alcune fortuite che, in ogni caso, non sono dipese da me. Nel senso che nessuno si sceglie il luogo in cui nascere e, nella maggior parte delle volte, neppure quello in cui morire. Nascere in un determinato luogo è, dunque, un’eventualità. I miei parenti, infatti, pur essendo per metà sardi, non conoscono la nostra lingua e fanno fatica a percepire tutte le tradizioni. Chi è nato in Belgio, per esempio, oltre a parlare perfettamente il francese, acquisisce quel modo di vivere e di comportarsi che con la Sardegna non ha niente a che fare. Ma non vi è stata nessuna metamorfosi. Pur essendo per metà sardi essi non hanno nessuna caratteristica isolana. Quindi io mi trovo con dei parenti che non parlano e non capiscono il sardo, non mangiano solitamente il porcetto e non bevono il mirto, non sono diffidenti, non hanno l’accento gutturale, non sono silenziosi, orgogliosi, fieri. Se poi, qualcuno di essi ha queste caratteristiche siamo portati a credere sia perché essi sono sardi nel profondo dell’anima. Ma, anche in Sardegna, con i miei cugini ho qualche piccolo problema. Chi vive a Cagliari è diverso da quello di Sassari o di Bonorva, di Siligo, di Dorgali. Ed è, completamente diverso da quello di Alghero, luogo dove sono cresciuto – sempre per una serie di concomitanze fortuite - per la maggior parte della mia vita. E dove sono nati i miei figli. Sardi, algheresi. Differenti da altri cugini e parenti lontani. Ho visto, qualche giorno fa, un filmato che gira su youtube. E’ di un ragazzo di colore, probabilmente nigeriano, che canta perfettamente “nanneddu meu”. Ha una bella voce e un accento sardo perfetto. E’ nato in Sardegna. Quindi, per quanto mi riguarda è, anch’esso, figlio di questa terra. Ma non è sardo. Meglio per i puristi, quel ragazzo di colore è un extracomunitario, un estraneo. Eppure ha gli stessi occhi dei miei parenti lontani e dei miei nipoti vicini che, nel mentre, hanno continuato a miscelarsi e il nipotino del mio vecchio zio emigrato negli anni cinquanta oggi è figlio di un croato e di una olandese e aveva come nonni un sardo e una tedesca. Questa piccola digressione per poter calmare gli animi sul concetto di “sardità”, argomento sempre peloso e astioso da queste parti e per poter dire, infine, che se non tutti i sardi sono sardi anche tra quelli nati in Sardegna, (Arturo Parisi, per esempio, ha un accento tipico sardo ma è di origini bolognesi e in Sardegna c’è solo nato e vissuto) nessuno - tra i sardi - è uguale ad un altro. Esiste, è vero, il concetto di identità ma esiste – e ne terrei conto – anche la differenziazione che fa, di un uomo, un essere terribilmente unico. Stamattina ho letto che il Governatore della regione Sardegna, Ugo Cappellacci, ha rinominato il nuovo piano paesaggistico regionale (PPR) come piano paesaggistico dei sardi cercando, probabilmente, di dargli un’identità. Che non poteva avere. Perché molti sardi non erano d’accordo con il primo piano (voluto dal centro sinistra) e molti non saranno d’accordo con questo (voluto fortemente dal centro destra). Io, personalmente non lo sono. Ed essendo sardo, non posso accettare che qualcosa con il nome Sardegna debba unire tutti i sardi sotto l’unica bandiera. Diciamocela tutta: io, molti sardi non li sopporto. Continuo però a restare profondamente ed orgogliosamente sardo. Ma tutto questo non basta. Non può bastare. I miei cugini e parenti successivi sono sardi comunque. Almeno per me. Ma non c’entrano niente con questo maquillage folcloristico di ricercare, con la parola Sardegna, un’unione che, davvero non esiste. Siamo uomini e, per caso, anche sardi. Almeno credo. Sono sardo. Profondamente sardo. Ma questo non toglie che debba amare tutti quelli che hanno le mie stesse origini. Non è un difetto. E’ abbastanza normale. Semplicemente normale. E' accaduto a Lisbona alcuni giorni fa. Gli automobilisti hanno trovato tutti i posti disponibili occupati da sedie a rotelle. Le carrozzine recavano i seguenti messaggi: "Torno subito" "Mi ci vuole solo un po’" "Sono andato a prendere un caffè". Perché la protesta, il dissenso e le lamentele costituiscono il linguaggio di chi ha destinatari intelligenti. Ma, talvolta, con interlocutori maleducati, per capirsi è necessario usare lo stesso codice. Perché è sinonimo di civiltà sapere quando sia opportuno essere incivili. |
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July 2014
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