Il caso di Francesca Barracciu me lo ricordo bene. Ricordo anche una lettera aperta in cui si chiedeva all’allora europarlamentare un passo indietro nonostante fosse uscita vittoriosa dalle primarie. Nella lettera si chiedeva un segnale per azzerare tutto, sedersi al tavolo e ricominciare. L’obiettivo, si scriveva nella lettera «è di avere una squadra di Governo nuova, esperta, capace, non compromessa e riconosciuta come di alto valore anche sul piano etico. Alla guida della quale non può che essere candidato chi questi requisti non solo li possiede, ma soprattutto gli sono riconosciuti dal popolo elettore. (...) Pensiamo, anche se ciò provoca in noi un profondo disagio personale, che vada tracciata una linea netta tra le vicende che hanno screditato il Parlamento dei sardi e il futuro dell’istituzione autonomistica». Anche questa bella lettera contribuì a bloccare la candidatura della Barracciu e spianare la strada a Francesco Pigliaru che poi avrebbe vinto le elezioni. Ritengo fu una cosa eticamente valida nonostante la Barracciu – lo ricordo ancora – è tuttora solo indagata, accusata di peculato per uso improprio per i fondi destinati all’attività dei gruppi consiliari della Regione Sardegna. Va tutto bene allora? Certo. Benissimo. Peccato che uno dei firmatari di questa lettera pubblicata dai quotidiani nel dicembre 2013 fosse il senatore di Rifondazione Luciano Uras, oggi indagato per lo stesso reato e anche lui dovrà giustificare la spesa di 70 mila euro. Perché nessuno ricorda questo passaggio? L’etica ha un diverso peso nella sinistra? Non credo e non lo spero. Mi auguro, invece, che l’Onorevole Uras riesca brillantemente a spiegare come abbia speso 70.000 euro, così come argomenterà anche Francesca Barracciu. Il problema però è un altro: ma l’onorevole Uras, a dicembre 2013, quando scrisse la lettera insieme a Cappelli non ricordava di aver usato anche lui fondi destinati all’attività dei gruppi? Non sapeva che, prima o poi sarebbe accaduto anche a lui dover giustificare? Se la storia fosse accaduta prima delle votazioni al Parlamento avrebbe fatto il giusto e sacrosanto passo indietro? E adesso? Adesso non ci rimane che provare a scrivere la morale di questa favola per niente a lieto fine: “Su boe narat corrudu a s’ainu”.
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Avevo un compagno, alle scuole elementari, che non scambiava mai le sue figurine, non divideva i pastelli e a pallone voleva solo vincere. Aveva un bel sorriso da smorfioso e sapeva fare l’occhiolino con entrambi gli occhi, cosa che a me non riusciva. La maestra diceva sempre: “in fondo, è simpatico.” Anche alle scuole medie un mio compagno di classe voleva primeggiare. Era uno più “ricco” di noi: portava i pantaloni lunghi a zampa di elefante e tirava le trecce alle ragazzine. Qualcuna la palpeggiava. Si beccava qualche rimbrotto ma ricordo che una mia “fiamma”, alla quale scrivevo frasi mielose e stupide, al tocco del mio compagno diceva: “è maleducato ma, in fondo, è simpatico”. Così sono cresciuto e ho visto alle scuole superiori altri ragazzi che non studiavano, copiavano i compiti ma non li passavano, sorridevano e inventavano scuse. In fondo, erano simpatici. Nel mondo dei grandi però ho cominciato a diffidare di questa strana locuzione. Dipingevano come simpatico, per esempio Giulio Andreotti quando faceva le battute sagaci, era simpatico Pinochet, Videla, era molto simpatico Gheddafi con quel suo strano modo di presentarsi, un po’ cafone. Era simpatico Nixon che giocava a ping-pong con Mao Tse Tung – lui un po’ meno simpatico, a dire il vero - . Poi divenne simpatico Bossi perché portava la canottiera in costa Smeralda, Borghezio con le sue battute tanto ma tanto simpatiche che riuscì a scatenare una guerriglia per una maglietta contro i musulmani esibita in pubblico. Poi, ad un certo punto, nel magnifico mondo della simpatia il più simpatico, autoproclamatosi da subito e osannato per anni, fu Silvio Berlusconi. Con lui divennero “in fondo simpatici” moltissimi personaggi: Putin tra tutti; Scajola, Fitto, Toti, Previti (che con quel ghigno farlo passare per simpatico ce ne voleva). Ma anche il simpatico show era sull’orlo del tramonto. “Vuoi vedere”, ho pensato, “che si comincia a rivalutare quelli che, magari non sono simpatici e hanno qualcosa di sostanzioso da raccontare?”. Ed invece, Grillo, non propriamente “in fondo simpatico”, ci ha raccontato che anche Nigel Farage ha il senso dell’humour e dell’ironia. Le dichiarazioni di questo “simpatico signore” vanno da: “I lavoratori europei stanno rubando i posti di lavoro agli inglesi” a “Le donne con i figli valgono meno ed è giusto che ne lavoro abbiano una riduzione di paga”. Un simpaticone. Il movimento cinque stelle ha deciso di allearsi costituendo un gruppo unico nel parlamento europeo, con questo “simpatico” signore. Per carità, tutto è possibile, ma non ci raccontate poi che tutto questo non conta, perchè Beppe è oltre le ideologie, oltre Hitler. Ecco, sarò all’antica ma a me, questo mondo “troppo simpatico” sinceramente non piace. La mia classe è fatta di molti bambini dove ci sono anche io. Io sono al terzo banco e la maestra mi ha messo con Gianluca. Non sono molto contento di questo Gianluca perché tifa la Juve e a me gli juventini non mi piacciono perché sono barrosi e si vantano che vincono sempre. Poi quando perdono, anche se perdono poco ma buscano da quelle squadre estere che sono più forti Gianluca si mette in silenzio tutto il giorno e non presta più niente. Dietro di noi ci sono due femmine che sono Manuela e Silvana. Sono abbastanza simpatiche ma quando ridono non si possono vedere perché non hanno denti dritti e portano la macchinetta quella che si mischia con il pane e loro non lo mangiano. Degli altri ne parlo poco perché siamo amici ma non troppo. Voglio parlare di Mirko e della sua mamma, una signora bionda con la macchina gialla molto grande. La mamma di Mirko sta sempre parlando e dice sempre che ha molte cose da fare e gira parecchio il mondo con gli aerei e porta molti regali a Mirko. Mirko con altri sette bambini che non metto i nomi perché sennò la maestra mi dice che allungo il brodo, a pranzo quando c’è la mensa si siedono tutti in un bancone vicino alla cucina. A loro dopo che tutti finiamo prima il primo e dopo il secondo gli tocca il dolce. A noi seduti di fronte no. La mamma di Mirko che parla sempre ha detto : ” quanto mi dispiace poverini “ ma lei non può fare nulla perché il dolce si paga e mica può pagarlo a tutti. Mia mamma quando ho detto questa cosa a casa non ha parlato molto e ha detto che lo diceva a mio padre. La sera dopo la cena mio babbo mi ha detto che io sono fortunato perché lui ha combattuto per me per salvarmi da una malattia brutta che ti fa venire una pancia grande e non puoi giocare più a pallone. Questa malattia mi ha detto mio babbo viene a chi mangia il dolce nella mensa della scuola perché quella tortina contiene una cosa tipo grasso che si attacca alla pelle e non si stacca più. Io guardo tutti i giorni Mirko e gli altri sette ragazzi. A parte Valeria che era cicciotta dalla prima elementare gli altri mi sembrano uguali e continuano a giocare a pallone. Io però sono convinto di quello che mi dice babbo e aspetto che alla fine della scuola quelli che mangiano il dolce diventano palle di lardo e noi riusciamo a vincere a calcio o fuggiamo a acchiaperllo che non ci prendono mai. La mia classe mi piace molto anche se è divisa in due per colpa del dolce. Mia madre quando mio padre non c’era mi ha detto che quando divento grande capirò. Che devo cominciare ad imparare dove sedermi che mi serve più avanti. Mi ha anche detto che anche i grandi vivono in tante classi diverse ma senza maestre e che ci sono uomini che hanno il dolce e altri uomini no. Ho capito che forse quella cosa di babbo non era molto vera, ma io lo perdono perché ha il nervoso che ha perso il lavoro e i dolci non gli sono mai piaciuti. Devo finire dicendo che il dolce non piace neanche a me. Come gli juventini barrosi. Luca. Quinta B. Dedicato a tutti i bambini delle scuole elementari di Pomezia che, grazie ad una decisione della giunta (sindaco cinque stelle, ma è un caso, chiaramente) saranno divisi per merendine: i genitori che pagano 40 centesimi in più daranno la possibilità ai loro figli di poter avere, dopo il pranzo, una merendina. Gli altri bambini staranno a guardare. Ma questo non significa che non possano capire. Questa storia dei comunisti non l’ho mai capita. Una volta mangiavano i bambini, poi mangiavano a sbafo, poi non avevano voglia di lavorare, poi ce l’avevano un po’ con tutti. Insomma: i comunisti non erano propriamente delle belle persone. E io, quando tornavo a casa ne soffrivo. Mi piazzavo sul mio vecchio Teac L60 il disco di Claudio Lolli “Io ti racconto” e piangevo. Poi, se volevo dare una svolta di allegria a quegli attimi facevo girare sul piatto “la locomotiva” di Guccini. Per far trionfare la giustizia proletaria. Io, questa storia dei comunisti l’ho vissuta intensamente. Ci ho provato a dire che non era solo ideologia, ma serietà e sacrifici. Studiare, imparare, ricordare, stare attenti, saper citare Gramsci, affermare che anche Berlinguer era una persona solare. Ci ho provato a dire che io, Magistrato per vocazione e per amore, ero anche profondamente comunista. Sinceramente comunista. Quando tutti gli altri si vestivano da John Travolta io ero un comunista che suonava la chitarra in spiaggia e strimpellava De Gregori, Dalla, De André e, seppure fossimo in numero dispari, rimanevo sempre solo: io e la mia chitarra. Gli altri a pomiciare. Io ad ascoltare il mare e le onde. Ero un comunista contemplativo. E coglione. Son passati gli anni e di comunisti, di quelli veri, non ce ne sono più. Gianvittorio, il mio carissimo e stronzo amico, dice che son rimasto solo io. A continuare a credere nella legalità, nell’etica, nella giustizia. Senza il proletariato. Anche lui ormai dissolto. Questa storia dei comunisti mica l’ho capita. Del processo mediatico grillino. Che durerà un anno e forse più: trionfi la giustizia cinquestelle. Continuo a fare il magistrato e provo a mettere ordine in un disordine catastrofico. Ho ancora i miei vecchi dischi e gli antichi libri. Ogni tanto suono la chitarra sul terrazzo davanti al mare. E mi sento un po’ coglione. Ma colpevole di essere comunista no. Quel piccolo vezzo mi è rimasto. E me ne vanto. (Claudio Marceddu, Magistrato inventato, protagonista di due libri e del prossimo, in uscita a settembre, sempre che Grillo sia d’accordo) Sai Paola, qualche anno fa mi trovavo a Sassari in qualità di commissario esterno agli Esami di Stato e, durante la prima prova scritta, mentre i maturandi scrutavano con preoccupazione il loro foglio, chiacchieravo di alimentazione con una collega conosciuta lì. - Ma davvero? Anche tu sei vegetariana?? Che bello, anch’io! – mi aveva detto entusiasta. Dopo un paio d’ore avevamo ordinato i panini per il pranzo: - Per me con pomodoro e mozzarella – avevo affermato - Per me con prosciutto crudo e pomodoro – aveva detto lei Un po’ stupita le avevo chiesto: - ma non eri vegetariana? - - Eh, ma ogni tanto la carne la devo mangiare – aveva spiegato serafica. - Bellu cazzu 'e arréjnu! – Non gliel’avevo detto, ma lo avevo pensato. Quest’incipit, che sembra po’ astruso, alla fine avrà un senso. Ordunque Paola, ho seguito un po’ le tue ultime vicende e quando ieri, leggendo che recriminavi su quanto l’esibizione in bikini avesse centrato l’obiettivo di denunciare un sistema dell'informazione seriamente malato e di un paese profondamente sessista, ho pensato ancora una volta “Bellu cazzu 'e arréjnu!” Era necessario ricorrere a una foto in due pezzi, con punto focale sui glutei, per portare l’attenzione sulla lista Tsipras? Un po’ come se io andassi in classe e non facessi lezione o non assegnassi compiti per dimostrare che gli alunni sono svogliati. O un po’ come dire “certo che trombo, ma lo faccio in nome in nome della verginità”, no? - Bellu cazzu 'e arréjnu! – penseresti anche tu, ammettilo. Ovvio che non voglio paragonarti neanche lontanamente alla Minetti, ma per un attimo decontestualizziamo le singole azioni dalle rispettive, quanto diverse, vite e carriere: perché se l’igienista dentale si fa fotografare con addosso un ridottissimo costume è una poco di buono e se lo fai tu sei un’acuta e sottile provocatrice che ha raggiunto l’obiettivo? “Ho tentato in tutti i modi di guadagnare spazi mediatici per il nostro progetto politico, ma i media vengono agganciati solo da un bikini, perdendo completamente la testa. E' gravissimo.” Hai affermato indignata quando è scoppiato il polverone. Sai cosa io trovo sia gravissimo, invece Paola? Che una professionista come te, brava e competente come si dice in giro, soggiaccia alle dinamiche di una comunicazione malata e sessista che contestualmente denuncia. E la trovo anche cosa molto triste, a dire il vero. Paola, che un culo attirasse l’attenzione lo sapevamo già, era lapalissiano. E dopo un ventennio di Berlusconi, veline e Grande Fratello non avevamo certo bisogno di quest’ultima performance per verificare e confermare ancora i gusti dell’italiano medio. Ma se sei un’esperta, brava e competente come affermano, perché non hai frugato nel cilindro e tirato fuori una strategia ad effetto che non si adeguasse a quel codice mediatico che a parole disprezzi e che, invece, coi fatti assecondi e rafforzi? E’ evidente che disapprovo sentitamente gli insulti che ti hanno scagliato addosso, non hanno scusanti e ne prendo le distanze. Però continuo, parossisticamente, a leggere e rileggere le tue dichiarazioni sfiancandomi per trovare una motivazione un minimo razionale a giustificare ciò che hai fatto. E’ uno sforzo vano, Paola. - Bellu cazzu 'e arréjnu! – continuo a ripetermi scuotendo la testa. *Potevo accompagnare il mio post con una foto dei tuoi glutei, ma hai un bel viso e preferisco mostrarti così. E, contrariamente a quel che pensi, pazienza se mi perderò i lettori famelici di un culo. Chissà perché il Signor Berlusconi riesce a costruire intorno a se attenzioni anche quando nessuno si dovrebbe occupare di un affidato in prova al servizio sociale , così come la legge sancisce. Come prevedono, d’altronde, le prescrizioni che lui stesso ha firmato. Ma davanti alla foto del Presidente della Repubblica italiana l’affidato sbotta e afferma che quell’uomo gli fa venire in mente un film: “Profondo rosso”, il capolavoro indiscusso di Dario Argento visto da me almeno otto volte. Un film che riesce sempre a sbalordirmi, soprattutto per quella scena finale dell’assassino nascosto tra i quadri e lo specchio. Ecco, anche Berlusconi mi ricorda, a volte, quel finale. Più che un caimano, un povero perseguitato che non riconosce le leggi della Repubblica italiana. Da affidato in prova (pongo l’accento sulla “prova”) dovrebbe tentare di “reinserirsi nel tessuto sociale” facendo un serio percorso di analisi del reato. E’ ormai un crescendo di violazioni palesi alle prescrizioni. Non riconosce la condanna, non riconosce il presidente della Repubblica, continua ad affermare che in Italia ci sono stati quattro colpi di Stato, rischia l’incidente diplomatico quotidianamente con l’universo mondo e ritiene che sia ridicolo rieducarlo affidandolo ai servizi sociale. L’istituto dell’affidamento in prova è una cosa dannatamente seria e permette, realmente, a molti detenuti un percorso fuori dal carcere. Tutti lavorano, si impegnano in lavori socialmente utili e riconoscono i propri reati e lo Stato italiano. Chi, durante la fruizione del beneficio non si comporta bene – come nel caso di specie - semplicemente gli viene revocato l’affidamento in prova al servizio sociale e rientra in carcere. Sono fallimenti dolorosi per gli operatori impegnati nell’opera di recupero. Ma, a quanto pare, l’affidato Berlusconi di stare alle regole proprio non ne vuole sapere. (diciamo che, sul punto, ha sempre avuto qualche difficoltà) Siamo allo sprofondo rosso. Il giudice di Sorveglianza di Milano provi a tirare fuori il cartellino rosso. Diretto. Lo faccia in nome di tutti gli affidati che quotidianamente (e sono oltre ventimila) stanno alle regole del gioco. Perché l’affidamento in prova al servizio sociale è una cosa seria. Serissima. E’ una Legge dello Stato. Quel lieve sorriso, così fortemente fiero, quelle rughe e quegli occhi chini, pronti a contemplare il futuro e a disegnare rotte che nessuno, negli anni, avrebbe poi seguito. Quella voce gutturale, contemplativa, che riusciva sempre ad accentrare l’attenzione su quanto diceva. E sul livello politico di quanto veniva detto. Questo era, per me, Enrico Berlinguer. Un sincero passionale. Uno che amava lo scontro ma illuminato da prospettive chiare. Parlava di politica e ribadiva che un tempo, nel primo dopoguerra c’era in tutti la volontà di capire la realtà del paese e di interpretarla. E, soprattutto, ricordava il rispetto tra chi era avversario nella lotta quotidiana ma diveniva persona stimabile nelle pause e nella vita. Nella famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio del 1981 dei partiti politici diceva: «Sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero.» Li accusava di aver occupato lo Stato e alcuni grandi giornali. Poi, la domanda più difficile e più impegnativa: In cosa consisteva questa benedetta “diversità”? «Primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. (…)e possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. » Arriviamo, dunque, al nodo della questione morale, quel manifesto lucido, chiaro e deciso di un Berlinguer visionario e vero leader politico: « La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». La questione morale è dunque qualcosa di molto più complesso di quanto ha scritto sulla Nuova Sardegna l’On.le Marco Tedde [il giustizialismo a due velocità del partito democratico, 18 marzo 2014] e qualcosa di essenzialmente diverso dal complesso di superiorità tracciato dal consigliere di Forza Italia. Io e Marco siamo garantisti da sempre e non è questo il punto. Non si può però paragonare il caso Barracciu (solo indagata, per ora) e quello dell’ex sindaco di Sassari Ganau (anch’esso indagato) e le scelte che sono state effettuate dai vertici del Partito democratico in “umorali”; la questione morale non è essere così inflessibili su chi è appena sfiorato da un avviso di garanzia. Il problema è piuttosto un altro ed è legato all’occupazione dello Stato, del Palazzo, delle Istituzioni ma non da uomini “indagati”, (sarebbe troppo facile e populistico indicare come cattivi tutti quelli raggiunti da un avviso di garanzia), ma da uomini che si considerano buoni per tutte le stagioni e continuano da anni, da decenni, a sedere negli scranni del potere. Utilizzare il discorso di Enrico Berlinguer come ha fatto Marco Tedde (che, detto per inciso, nutre della mia stima per il mandato come sindaco di Alghero) è come indicare il dito e non raccontare ciò che il segretario dell’allora partito comunista intendeva dire. Lo diceva nel 1981. Poi, mani pulite e il 1994 con la discesa in campo a conquistare tutto “senza fare prigionieri” (Previti docet) hanno distrutto questo paese e la questione morale è stata brillantemente dimenticata e sepolta da tutti. Con buona pace di Berlinguer, delle sue rughe e dei suoi occhi chini. Un visionario ha sempre buone ragioni per dipingere un quadro. Chi osserva distrattamente non riesce sempre ad interpretarlo. Le parole e i concetti hanno un suono. Raccontano quello che le immagini non riescono a codificare. Eppure, a volte, diventa difficile riuscire a scardinare ciò che le parole hanno costruito. Perché la gente ormai si è appropriata di quel termine, di quel modo di dire e lo fa diventare “luogo comune” e, in alcuni casi, diventa “verità rivelata”. E’ il caso del decreto “svuotacarceri” locuzione di questi giorni che è stata “affibbiata” ad un decreto poco amato da Lega e Cinque stelle e poco sostenuto dagli altri partiti. Intanto, quel decreto, divenuto Legge (Legge n.10 del 2014) non svuota, nella maniera più assoluta, le carceri. Non è un indulto, un’amnistia, un regalo. E’ piuttosto qualcosa che parte da lontano e prova, seppure goffamente, ad “aggiustare” alcuni passaggi legislativi non proprio felici. E’ una legge “aperta” ad una nuova serie di soluzioni e prova a scrollarsi di dosso l’idea che tutto, in questo paese debba necessariamente “carcerizzato”, che tutti i reati devono passare obbligatoriamente per la fermata di un penitenziario. Prova a sveltire l’espulsione dei detenuti stranieri verso i loro paese di origine, prova a concedere, per un tempo di sei anni, una maggiorazione di liberazione anticipata a detenuti meritevoli del beneficio escludendo, tassativamente, detenuti di alta sicurezza, appartenente alla malavita organizzata, stupratori e pedofili. Per quelli non esiste nessuna possibilità di libertà. Quindi, il carcere, per chi ha commesso gravi reati non si svuota. Il decreto Legge 146/2013 prova invece, seppure con una certa timidezza, a dare la parola al detenuto con il diritto di reclamo giursdizionale, amplia la possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale a quattro anni, restituendo nuove opportunità a chi, per esempio, ha già un lavoro oppure è all’interno di un progetto di inclusione sociale. Scommette sull’abbattimento della recidiva. E’ un discorso difficile e contorto. Un percorso complesso molto simile a quello sulla formazione: occorre scommettere sul futuro. Chi non passa per il “penitenziario” ha meno possibilità di rientrare all’interno del circuito delinquenziale. Vi sono studi che lo dimostrano e vi sono paesi, in Europa, che ci scommettono da anni. In Inghilterra, per esempio, la “messa alla prova” è una misura alternativa tra le più usate e apprezzate. Chi commette un reato non grave non entra in carcere ma, con una sorta di patto bilaterale tra Stato e reo, prova a dimostrare che si può scommettere sulla sua voglia di riscatto. In Italia questa proposta di legge giace dall’ultima legislatura nella commissione Giustizia alla Camera e il tragitto culturale, purtroppo, sembra essere piuttosto tortuoso. E’ difficile scommettere sulle persone, ed è difficile farlo con chi ha molte curve nel suo tragitto di vita. Il decreto approvato introduce, inoltre, la possibilità di poter trascorrere presso la propria abitazione la condanna, utilizzando il famoso “braccialetto”, dispositivo per il quale il nostro paese paga un affitto alla telecom da molti anni. Questa espiazione della pena appare in linea con le direttive europee e restituisce dignità a persone che, magari, per la prima volta si trovano a dover affrontare il percorso disagevole del penitenziario. Manca in questo decreto il coraggio vero, innovativo, di provare ad attuare la “riparazione del danno”, la possibilità di mediazione penale, la scommessa di mettersi in gioco e di farlo con un percorso serio, riflessivo, anche con la vittima del reato. Le carceri, dunque, non si svuotano. Ma vanno osservate con occhiali diversi. Dentro gli istituti penitenziari ci sono persone in grado di voler riscattare la propria vita, in grado di poter riparare ai propri errori, in grado di dimostrarlo. Vi è uno sforzo da parte di tutti per vincere questa scommessa e questo decreto più che “svuotacarcere” può essere appellato come: “piccola opportunità” per i detenuti ma anche per l’intera società. Cara Francesca Barracciu Chissà cosa sta succedendo a Roma in queste ore, e chissà se quando leggerai questa lettera sarai ancora sottosegretario. Se ti scrivo, e mi sbilancio con idee, nome, cognome e foto profilo col cappello da Zorro, è perché sono assolutamente sicuro che io certe cose te le debba dire, e che debba farlo pubblicamente. Io credo che tu debba dimetterti prima che ti dimettano gli altri. È bene che tu lo faccia, mettendo da parte considerazioni egoistiche (lo dico col rispetto che si deve all’ambizione legittima che muove ognuno di noi, anche se c’è chi è più mobile e chi lo è meno). Sono tempi in cui milioni di laureati, professionisti, genitori, disoccupati, precari, impiegati a rischio licenziamento e così via, non capiscono in base a quali forze maggiori, a quali armonie segrete, una persona debba poter passare da un posto di potere ad un altro con la sola forza delle punte dei piedi. Tu hai puntato i piedi per difendere il tuo percorso, forse anche per proteggere la tua persona, in qualche modo, dalle conseguenze delle indagini sui rimborsi. Umanamente lo capisco. Penso lo capiscano in tanti. Sul piano della civiltà di cui avremmo bisogno, però, la tua permanenza in quell’incarico è inaccettabile. Non è bene che qualcuno diventi sottosegretario o ministro o presidente di Regione “per forza”. Sarebbe ingiusto. Lo sono tante altre cose, verrebbe facile dire. Certo. Ma tu ora hai la possibilità di prendere una di queste cose –la tua vicenda- e orientarla verso un orizzonte diverso. Restando in quell’incarico non potrai fare per la Sardegna e per l’Italia niente di particolarmente salutare, atteso che quello che serve oggi a tutti noi, e ci servirà fino a quando saremo usciti da questa crisi totale, è una serie di gesti di rottura che possano indicare, letteralmente, che qualcosa di meglio è possibile. Ci vuole il coraggio di essere sorprendenti, e chi sta in alto può sorprendere e fare molto bene solo se compie atti “giusti”. Cosa sarà del tuo caso giudiziario lo sapremo solo tra qualche tempo. Spero che non ti accada nulla. Cosa c’è alla base di quelle indagini, invece, lo sai solo tu. Quello che invece sappiamo tutti noi, per ora, è che la politica, con il suo normale svolgersi quotidiano, ancora una volta è incappata nell’operato della magistratura. Non so se tu riesca a capire quanto, per dei cittadini, possa essere disperante e deprimente questo continuo inciampare dei propri rappresentanti. Credimi, lo è. Non pensare solo ai voti che sei stata capace di prendere in passato. Non hanno un valore eterno. Non significano che hai il diritto di gestire il potere a prescindere da tutto il resto. Ora quei voti non li prenderesti più, come non li prenderebbero più molti di coloro che sono stati in auge durante la tua stessa stagione. Il dato dell’astensionismo alle ultime regionali è qualcosa che si può contrastare, ripeto, solo con atti giusti e sorprendenti: l’unica cosa che possa convincere persone che ormai non si sorprendono più di nulla, a tornare a votare. Rinuncia a quell’incarico, dai un segnale che “stona” con le litanie cui siamo abituati. In molti rifletteranno sul tuo gesto e questo per la Sardegna sarà un bene, non so quanto grande, ma sarà un bene. Queste righe, se per qualche motivo tu decidessi di rimuoverle dalla tua pagina, o se per qualche motivo io non riuscissi a postarle, potrai trovarle anche sulla pagina FB di Sardegnablogger. È gestita da un gruppo di persone col pallino della scrittura, della Sardegna e della politica fatta per bene. Te lo dico perché credo tu possa trovare interessanti molte delle cose che su quella pagina vengono scritte, dai redattori e dai lettori. Come dice il titolo, questa è una lettera d’amore. Per i miei figli. Ti saluto cordialmente Luca Ronchi Parto da lontano, esattamente dalle aspettative che in tanti coltivavano verso l'allora neoeletto Presidente Barack Obama, l'uomo di colore numero uno negli "states". Ma, da circa sessanta anni in qua, qualsiasi momento sarebbe quello giusto per cominciare ad intrecciare un ragionamento logico e storico su quanto è accaduto ed accade al mondo, ciclicamente e senza soluzione di continuità. Proseguo con l'uscita di scena (molto teatrale ma per niente reale) di Coso dalla scena politica; con i fans di Monti, poi di Letta ed oggi "renziani", con i "PapaBoys" di Wojtyla o di Francesco primo con l'intermezzo "Paparatzi", aspettative, repubbliche che cambiano e numeri a profusione, eppure nulla cambia. Anche qua in Sardegna si è "voltato pagina", ma lo si è fatto realmente? É presto, è vero, ma intanto abbiamo due governatori al pari di due papi. Sparite le Pubuse e i cantori del controcanto alla Statutaria, spariti i deterrenti sinistri e destri che parevano all'epoca quando esimi giuristi cattedrattici, quando economisti bocconiani in fuga, sono passate in questi cinque anni le peggiori vergogne legislative, le peggiori vergogne propagandiste e sono passate, ancora una volta, bipartisan. Mi chiedo a quando, i sardi saranno capaci di memorizzare i nomi di chi dissente, di chi vota contro certe decisioni e di cancellare -non solo dalla memoria- i nomi di chi le ha votate? Non siamo mai pronti, noi, ci tiriamo dietro da secoli tutti quelli che non fanno e non lasciano fare e permettiamo pure loro di rallentarci, di farci retrocedere ogni volta praticamente in tutti i sensi. "Lasciateli fare" è la parola d'ordine, ogni volta, "c'è da pagare il conto" quella successiva, puntuale. L'importante è che nel frattempo, "nell'intermezzo" direbbe la [tv], ci siano ancora il calcio e le paure, le tette e i tanga, l'appariscenza opulenta, da assorbire, ecco perchè quel "dove eravamo rimasti" diventa affermazione, non più domanda, siamo rimasti fermi a venti anni fa, non siamo progrediti di un micron, anzi. Vedere Lupi ancora ministro sfuggire con una faccia di bronzo vergognosamente ottusa, squallida, alla domanda sulla nomina di Gentile, allo stesso modo il "distrarsi" di Franceschini, anch'egli ministro oggi collega di governo del Lupi (o lo erano anche ieri?), dà bene l'idea di dove siamo rimasti, esattamente dove eravamo rimasti, nonostante i Bigs, i papi ed i governatori "du'gust is megl'che uàn" il prodotto non cambia, il tempo invece... Aspettavo questo momento da cinque anni. Il momento in cui non avrei più dovuto provare quello straniamento ogni volta che pensavo: “Il Presidente della Sardegna è Cappellacci”. Ritengo non sia stato all’altezza né tecnicamente, né politicamente, né umanamente. Non posso dire che sia uno stronzo, perché non lo conosco. Ma le persone restano persone anche quando incarnano ruoli che prevedono il rispetto delle distanze; e l’empatia, la comunicazione non verbale, è una cosa che travalica le etichette, e permette di intuire che essere umano hai di fronte. Ecco, Cappellacci è una persona che, in quel ruolo, trasudava dell’antipatia di chi finge. Tecnicamente, penso sia stato uno dei peggiori presidenti della storia della Sardegna. Non aveva una visione e ha lavorato perché la visione che si era affermata nei cinque anni precedenti, venisse un po’ per volta delegittimata e smantellata. L’ultimo colpo ha tentato di darlo con l’approvazione rocambolesca e furbesca del PPR, più altre cosucce minori di cui riparleremo. Ma non ha mai dato l’impressione, neanche ai suoi sostenitori, di essere quel tipo di leader che trasmette le indicazioni sul percorso, la rotta da seguire. E questo è stato il succo del suo fallimento anche politico. È stato messo e rimesso lì da Berlusconi. Il fatto che nel frattempo Berlusconi sia quasi morto, ha fatto morire anche Ugo. Lo dico con una punta di amarezza. Come se, dopo vent’anni, fossimo ancora tutti berlusconidipendenti. Come se, le cose che succedono, succedono a causa di quel pregiudicato o contro di lui. Come se, senza la sua caduta, non saremmo riusciti a spuntarla neanche su Cappellacci. Come se. Ora che ha vinto Pigliaru, però, c’è almeno la possibilità di vedere all’opera una visione, c’è la possibilità di veder chiamate a ruoli assessoriali persone competenti e non personaggi di dubbio spessore morale e tecnico. Mi fa paura il PD, in questo senso. Mi fanno paura i partiti. E mi fa paura la memoria corta di tutti noi, quella che ci potrebbe far dimenticare presto che è esistita Michela Murgia, che esiste il Grillismo, e che metà dei sardi non è andata a votare. Sul PD e sui partiti posso dire che ancora una volta ho visto cose vecchie e brutte venire a galla con naturalezza: voti di scambio, clientelismo, candidati con lo spessore della carta stagnola. Non di tutto il PD e non di tutti i partiti lo posso dire. Ma in parte è così come ho detto. Ora che ha vinto Pigliaru però, come dicevo, è almeno possibile sperare che i Sardi si rimettano a pensare alla Sardegna in modo progettuale, tenendo conto delle risorse e degli strumenti, e ragionando in termini di obiettivi e di percorsi per raggiungerli. Spero che si ragioni con cognizione sui trasporti, e che le avventure tipo la Flotta Sarda non vengano ripetute. Spero che, come succedeva fino a cinque anni fa, si gettino ponti tra la Sardegna e il resto del mondo. Spero si riaffacci una concezione ecologica del territorio, che non vuol dire uccidere l’uomo per salvare la farfalla, ma valutare i limiti, concepire l’integrità come valore, pensare la bellezza come ricchezza anche economica. Ora che ha vinto Pigliaru spero che alla Sardegna passi un po’ di quella stanchezza che ha portato metà dei suoi figli a non decidere cosa volevano per loro stessi. Quella stanchezza di sé che porta a trascurarsi, perché tanto peggio di così non può andare. E invece poteva: poteva rivincere Ugo. Ora che ha vinto Pigliaru io continuerò a pensare al mio futuro come facevo fino a ieri. Solo che, tra me e il mio futuro, ho ricominciato a vedere qualche somiglianza. Ho osservato la città che, sorniona, si addolciva in un sole tiepido e dolcissimo. Ho ripreso tutti i pensieri di queste ultime settimane e li ho riportati dove tutto riesce ad appianarsi. Il mare. Lui attendeva con calma le parole e le impressioni di una campagna elettorale asfittica, lontana, metallica forse. Probabilmente acida. Il maggior partito, rappresentato dal 48% dei sardi ha camminato con le mani in tasca e il silenzio delle scelte. Non ha votato. Davanti a quest’acqua senza onde si ripropone - come un urlo mai ascoltato - quella visione antica di restare così, senza inghiottire né sputare, di restare così, a rimescolare frasi acute e vere, a cercare di calpestare acqua diventata, nel tempo, fango. Sono passato in via Bottego, lasciandomi il cimitero di San Benedetto e la basilica di Bonaria. Lasciandomi di lato quel silenzio, rotto solo dalle piccole voci di una vittoria senza enfasi, senza alcuna passione. Pigliaru era lì, con il maglioncino verde e un sorriso appena accennato. Tutti erano lì con le loro facce stanche, appisolate verso un futuro che nessuno riesce a disegnare. Non ha vinto nessuno e nessuno riesce ad ammetterlo. Ci sono pronti quelli del coro, quelli pronti ad ogni evenienza, facce lucide e proiettate verso qualsiasi orizzonte purché ci sia la loro ombra raffigurata. C’era Soru, quasi sorridente, la Barracciu quasi festante e tutti gli altri quasi contenti. Ho osservato con una certa tenerezza quel “quasi” che ritaglia la realtà dalla finzione. Non ha vinto nessuno mi sono detto, tanto vale osservare quel pezzo di mare. E ho attraversato Viale Diaz fino a giungere alla nuova passeggiata che dal molo Ichnusa arriva sino all’ex lazzaretto. Ho camminato con passi lievi e stanchi, a riordinare piccole parole da raccontare, per una campagna elettorale senza polmoni e senza neppure un cordone ombelicale. Ho scelto una panchina per far riposare quei pensieri di sardi ancora fuori, ancora soli e solitari, ancora senza un’idea chiara di Sardegna. Dal molo si intravvedeva la sagoma forte della Tirrenia. Attendeva, anch’essa, un ordine che nessuno sembra in grado di poter dare. Un mare lago mi accompagnava, acqua immensa e viva dentro una regione agonizzante. Nessuno ha vinto, ripetevo. Anche perché, in fondo, nessuno ha mai giocato, davvero, la partita. Il Consiglio Regionale oggi rappresenta solo una piccola percentuale di votanti. Quattro candidati e le loro liste spazzati da una legge elettorale assurda, fatta per gli interessi e non per il governo. Ho osservato con aria docile il pezzo di quel mare e, in un tramonto quasi regalato allo scetticismo di molti, ho ripreso la strada. Il mare, almeno quello non riusciranno a farlo a fette, non riusciranno a dividerlo. L’unica piccola consolazione è che Ugo Cappellacci non è più Presidente della Regione. Il resto è tutto da disegnare. Speriamo sappiano scegliere almeno i colori. Buon lavoro Presidente Pigliaru: dal piccolo consenso provi a restituire un’onda di normalità. Sappia accarezzare la battigia e si ricordi che sono gli scogli a delimitare il mondo. L’acqua li può levigare e consumarli. Ma ci vuole troppo tempo. E di tempo, da queste parti, non ne abbiamo più. L’ho sempre fatto e sono anche soddisfatto di aver scelto qualcosa o qualcuno. E’ bello poter essere, anche se per un attimo, protagonisti della vita del paese. Del tuo paese. E’ bello poter pensare di poter contribuire, con il tuo voto, alla crescita di un progetto, di un’idea, di una visione, di una speranza. Il voto non è solo per qualcosa. E’ anche contro qualcosa. Io voto uno piuttosto che un altro. E mi schiero. Mettendo una croce su un simbolo decido da che parte stare, almeno quel giorno, almeno in quell’attimo ma non solo, perché quella scelta rappresenta comunque la mia idea di futuro. Io voto perché ne sono profondamente convinto. Sono cresciuto in una famiglia dove le elezioni venivano soprattutto “sentite” come senso civico. Sono cresciuto in una famiglia dove non votare era il sinonimo di vigliaccheria, di volersi sottrarre ad un impegno. Mi è rimasta questa idea cavalleresca del voto, questo senso del dovere e del piacere. Perché votare è poter dire “io esisto” io mi occupo della cosa di tutti e spero che il mio eletto faccia altrettanto. Il mio voto non serve “per me” in quanto persona, sarebbe sciocco e minimalista. Il mio voto serve agli altri in quanto “forza” per raggiungere un obiettivo comune. Io voto per tradizione ma non sono un tradizionalista. Non nel senso puro. Io voto perché credo in quell’atto, credo sia un bel momento di democrazia. Ho sempre pensato che il miglior modo di protestare è votare contro chi non giudichi all’altezza, contro chi non fa parte della tua visione del mondo. Non votare significa lasciarsi trasportare dall’onda che non hai potuto produrre. E l’onda avanza, non si ferma. Io voto perché ci sono, perché vivo e respiro i profumi e i colori di questa terra, perché sento i lamenti di molti, le disperazioni di tanti, gli abbandoni dei politici. Il mio voto serve a chi ci vorrebbe dimenticare mentre invece io ci sono e come me ci sono tutti quelli che useranno la matita per esprimere una visione di Sardegna diversa da altre visioni di Sardegne e diversa da chi, invece, ha deciso di non votare. Io voto anche perché, come dice Gaber “quando ci sono le elezioni non piove mai”. Buon voto a tutti. Wanna Marchi prometteva di togliere il malocchio. Cappellacci promette di togliere l’IRAP da tutte le imprese sarde. Wanna Marchi assicurava che avrebbe ridotto la cellulite del 50% . Cappellacci assicura un taglio del 50% nei prezzi di luce e benzina. Wanna Marchi rivelava numeri del lotto personalizzati che avrebbero fruttato vincite da 10.000 euro, minimo. Cappellacci rivela di avere in serbo, col suo nuovo distretto agro-industriale energetico, 10000 posti di lavoro. Minimo A chi si è ispirato il nostro Ugo per la stesura del suo programma? Lecito il dubbio!. Mentre a Cagliari il cabarettista istituzionale raccontava per l'ennesima volta la stessa barzelletta, trascinando pateticamente il suo ventennale spettacolo, in una baracca montata fuori dall'arsenale di La Maddalena Andrea Scolafurru e Mario Pes cercavano di difendere la memoria recente. Nuotando contro un fiume in piena, una corrente mostruosa di indifferenza, disinformazione e rassegnazione, onde altissime nelle quali rischia di scomparire la loro battaglia di giustizia. "Non ho mai tradito la Sardegna", dichiarazione del cabarettista ad una testata sarda, è uno di questi cavalloni. Titoli di giornali, muraglie d'acqua troppo alte perché Mario e Andrea possano restare a galla. Osservando l'Isola di La Maddalena trovate tante risposte a menzogne e omissioni dell'Isola Sardegna, trovate la solare dimostrazione di incapacità e inefficienza di una classe politica che senza pudore ripropone sé stessa e le medesime formule del suo fallimento. Andrea e Mario lavoravano all'arsenale. Quell'arsenale trasformato in porto turistico e in conference center, quel luogo simbolo della riconversione e della rinascita che avrebbe dovuto creare mille buste paga. Il vecchio arsenale, pezzo forte di un imponente piano da quattrocento milioni di euro di fondi pubblici. Dall'otto marzo del 2013 Andrea e Mario sono accampati fuori dal loro posto di lavoro promesso. Perché nessuno dimentichi, nonostante quel fiume in piena che spinge alla deriva la memoria. Le responsabilità della politica spesso sono incerte, fumose. Nel caso di La Maddalena no. È quel cabarettista che ha deciso di spostare il G8 da La Maddalena a L'Aquila, dopo averlo promesso a Napoli. È quel cabarettista che aveva promesso, a titolo di risarcimento, un evento all'anno per tutti i dodici mesi, cosicché quell'arsenale fosse davvero il luogo dei mille posti di lavoro. È quel cabarettista che ha visto scomparire le promesse in mezzo al mare della corruzione e del malaffare. Oggi all'arsenale lavorano solo pochi guardiani e l'ospedale militare trasformato in hotel cinque stelle è vuoto e inutilizzato. Mentre il vecchio cabarettista racconta le stesse barzellette. E tanti sardi ne ridono, divertiti. Come tutte le cose preziose, anche la lingua sarda scatena il dibattito nel momento in cui la sua definitiva condanna sembra vicina. La preoccupazione che la prossima, imminente politica regionale, non si occupi più della questione linguistica sarda, ha provocato una reazione quasi difensiva di Bolognesi e di altri addetti ai lavori. Bolognesi, lo riepilogo, sostiene che l’aver trascurato il problema della lingua sarda abbia comportato un impoverimento culturale degli studenti sardi, influenzando negativamente l’abbandono scolastico. Ma la lingua sarda sembra disperdersi in un limbo di incomunicabilità: anni di dibattiti culturali sfociati nella (buona) legge del 1997 e proseguiti poi con tutti gli sforzi per dotarsi di una lingua comune, sembrano sfaldarsi sotto i colpi di una sorta di inutilità moderna. Così Emiliano Deiana si domanda qual è la connessione tra lingua sarda ed economia, Giampaolo Cassitta sottolinea la frammentarietà delle parlate in Sardegna, e Luca Ronchi si interroga sul senso di recuperare un moribondo linguistico in un mondo in continua accelerazione. Infine giunge Gavino Minutti, il quale, con molta schiettezza, restituisce le accuse al mittente che Bolognesi, con un piglio tanto provocatorio quanto pregiudiziale, fa al candidato del centrosinistra Francesco Pigliaru. Il linguista accusa l’economista di economicismo; riconosce si un impegno nel versante dell’istruzione, ma solo su un piano strutturale e funzionale, meramente edilizio, senza dare la dovuta considerazione alla questione linguistica. A questo punto l’intervento tagliente di Minutti sottolinea le divergenze tra gli addetti ai lavori, i lunghi dibattiti sfociati in faide accademiche ed extra-accademiche, l’incapacità, in definitiva, da parte del gruppo di sostegno al progetto linguistico sardo, di offrire al legislatore una proposta oggettiva, univoca, o quanto meno percorribile. Scuola di merda che produce una classe politica di merda, è l’assioma ulteriore di Bolognesi. Non si può dargli torto. Una scuola che non tratta la Sardegna nel giusto modo non può che produrre una classe politica scialba e succube del centralismo e di interessi più o meno particolari. Questa della lingua sarda, dunque, sembra essere la madre delle questioni in questa campagna elettorale, se la guardiamo da questa angolatura. Perché è chiaro che lavoro, spopolamento delle zone interne, consumo del territorio e dell’ambiente, scelte economiche, istruzione, da altre differenti prospettive, appaiono ben più prioritarie. Eppure una sua matrice drammatica e definitiva la questione lingua lo contiene. La lingua sarda è un patrimonio prezioso, immane. La sua scomparsa sarebbe una tragedia. Ma non è facile intendersi su questa cosa. Ci vogliono secoli, a volte millenni, per creare una grammatica ed un vocabolario, e pochi decenni per distruggerli, verrebbe da dire parafrasando uno slogan “ambientalista”. Ma è l’importanza concreta che non si scorge, perché adombrata da una visione, ormai catalogata, di valore monetario diretto delle cose. La lingua sarda ha un grande valore economico, legato al concetto di popolo, che non si scorge. Temo di scoperchiare un vaso di pandora, se nomino il concetto di “identità”. Mi rifugio dunque nella sintesi assoluta, pescando nella riflessione antropologica già data. L’identità, insieme di elementi che denotano comunione e missione di un popolo, procurano una direzione. Più forte è il senso di identità, più la visione di un futuro, di un obbiettivo comune, scaccia il senso di inutilità, riduce l’angoscia della solitudine, e dona idealità e progettualità. Una scuola identitaria, che spieghi la vera importanza della civiltà nuragica nella storia occidentale, che collochi nel suo giusto ruolo di grande avanguardia culturale Grazia Deledda, che sottolinei l’importanza del Regno di Sardegna nella formazione dell’Italia, e in grado di distinguere nettamente tra sardo scritto e sardo parlato, formerebbe una società ed una classe dirigente ideale, positiva, concreta, pronta a ritagliarsi il suo spazio e il suo ruolo nel mondo. E la lingua è una delle più salienti componenti dell’identità, perderla sarebbe un vero peccato, un po’ come consegnare davvero la bandiera sarda nelle mani degli squali, dei prenditori, degli incantatori di serpenti e dei venditori di fumo. Lingua sarda dunque. Ma come fare, se ci ricorda Minutti, neppure i linguisti riescono a mettersi d’accordo? Con il buon senso, la buona volontà, e un pizzico di visione oltre le punte delle proprie scarpe. Io credo che la visione economica, o “economicista”, di Pigliaru, possa essere integrata agevolmente da una proposta linguistica smussata dell’agone che rende invasati tutti coloro si interessino di lingua sarda. Non vedo nessuna contraddizione ad investire nell’edilizia scolastica, che fa acqua da tutte le parti, nel dare strutture, servizi e confort agli studenti, e studiare una formula che riporti la Sardegna al centro della cultura scolastica. Investire nell’edilizia scolastica significa ammortizzare la voracità del mattone, che altrimenti si schianterebbe su delicati paesaggi, sulle bellezze costiere, annientandole per sempre. Perché anche l’occhio vuole la sua parte, non solo la lingua, anche il cuore vuole la sua parte. Se no salviamo una parte di identità e ne perdiamo un’altra. La lingua è comunicazione. Sarebbe. Un grande, grandissimo intellettuale degli anni ’60, Antonio Pigliaru (padre di Francesco), scrisse uno dei libri fondanti della rinascita culturale sarda. Insieme alla “costante resistenziale sarda” di Lilliu, e alla “rivolta dell’oggetto” di Michelangelo Pira, si cercava, negli anni della prima grande omologazione televisiva, di internazionalismo talvolta manieristico, di prosecuzione con altri e più cocenti modi l’annullamento della prerogativa sarda, di recuperare alla storia il dramma del ridimensionamento occulto dell’antropologia sarda. Quel libro si intitolava “la vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”. Dimostrava che due codici giuridici, uno italiano, scritto, e uno sardo, non scritto, derivanti da due differenti culture, storiche ed antropologiche, sovrapponendosi, creavano degli attriti sociali irrisolvibili. Pur con i limiti del contesto storico dell’epoca, quell’analisi rappresenta, ancora oggi, una lucida scomposizione delle forze di pressione che muovono i fatti sociali e, se vogliamo, la rappresentazione dell’incomunicabilità tra codici culturali. Per esempio, tra un codice culturale orientato verso lo sviluppo economico sostenibile, ed un codice culturale che vede nella dimensione identitaria il motore della società. Ma, come scrive Savina Dolores Massa, “Con queste stramaledette elezioni regionali, la schizofrenia è male diffuso”. Peccato, perché, secondo me, questa ed altre sintesi sono ancora possibili. - Tornate a bordo, cazzo! – Un monito, evidentemente, affinché riprendiamo in mano le redini di una situazione ormai insostenibile. Ma anche un’accusa ad una classe politica che ha condotto alla deriva un intero paese. Esordisce così, nel suo libro e nell’aula conferenze dell’aeroporto Costa Smeralda, Gian Antonio Stella quando presenta “Se muore il sud”. Già dopo 10 minuti dall’inizio mi rendo conto che non sono andata a seguire la presentazione di un libro: sono andata a un incontro di boxe. Ogni dato che snocciolava era un cazzotto allo stomaco per chi ascoltava. Era un pungo ben assestato per chi c’era, ma anche per chi non c’era. Perché è andato avanti per quasi due ore a sferrare sberle e ceffoni a tutti gli abitanti del Mezzogiorno, sardi inclusi. - Ma da chi siete stati governati finora? – domanda incredulo Stella. Un j’accuse feroce ad una classe politica ingorda e inconcludente, incurante del fatto che il Mezzogiorno è prossimo allo sfacelo. Un’arringa brutale durante la quale ha elencato, a titolo di mero esempio, dati agghiaccianti. La Regione Sicilia che destina 15 milioni di euro per la formazione di circa 18 apprendisti dei quali si è persa traccia. Un’isola che, pur vantando ben 6 siti Unesco, accoglie un undicesimo dei turisti diretti, invece, alle Baleari che di siti ne hanno due. Sovraintendenze cieche e sorde innanzi allo scempio di coste e spiagge, ma che regala vincoli paesaggistici a un albero di pitosforo nel giardino di un tale. Fondi strutturali europei gestiti peggio di un ragazzino che riceve la paghetta dopo due mesi di miseria. - Ma da chi siete stati governati finora? – domanda ancora una volta. Soldi provenienti da Bruxelles, la grande mammella dispensatrice di nutrimento, spesi per costruire treni ad alta velocità, dotazioni di reti internet a banda larga, raddoppio delle corsie autostradali… al nord. E al sud? “Tremilacinquecentoquarantuno euro alla Trattoria Don Ciccio di Bagheria, specilità pasta cun finocchiu e i sardi e pisci spada agghiotta”. E andiamo ancora meglio coi fondi destinati alla formazione: 450 ore per un corso di ricostruzione delle unghie. Mostra un grafico del pil pro capite nelle varie regioni e una comparazione con quello di una decina d’anni fa. Non ricordo i numeri, che non posso riportare, ma nella mia memoria fotografica è impressa una linea in picchiata. - Ma da chi siete stati governati finora? – ripete sbigottito Stella. E, sebbene di alcune delle vergogne ne ero a conoscenza, mi è quasi insopportabile accettare l’ignobile elenco di sconcezze perpetrate da un sistema corrotto e clientelare. - Ma da chi siamo stati governati finora? – mi ripeto mentre percorro la strada che mi porta a casa. Apro il cancello, parcheggio e tolgo le chiavi dal quadro… Ma quella domanda riecheggia ancora nella mia mente. Poi la risposta, secca, nitida, senza sbavature: da una merda. Sì, da una merda - mi ripeto mentre apro la porta di casa - Da una merda, per ammissione stessa del suo mentore. La scena è scarna per scelta. Lo dice Rita Marras nel camminare solitaria sul palco del teatro Verdi, a Sassari, mentre invita i candidati che in meno di un minuto devono raccontarsi. C’è chi, come Riccardo Anedda vuole raggiungere qualcosa di bello, Laura Fois, 27 anni è stata per sei anni all’estero ed è rientrata per poter fare buona politica, chi si è candidato per non dover dire ai propri figli di emigrare, chi era nauseato dalla politica e si è ammalato di possibilite acuta; c’è Gavino Balata, di Alghero, si occupa a Bruxelles di fondi europei, l’archeologo Madau vuole mettere al centro del cambiamento il paesaggio, poi ci sono quelli che vogliono riprendersi la terra, i pacifisti, i difensori accaniti della scuola pubblica, Sari, la senegalese cittadina italiana dal 1996, lei vuole poter dare una politica migliore alla Sardegna, alcuni sono stanchi di essere considerati cittadini passivi e ci si candida, come scandisce Marilena Budroni, perché “me lo merito” perché tutti abbiamo il diritto di poter dire che un’altra Sardegna è possibile. Visti dalla platea, quasi gremita – ed è un successo, rispetto alla platea gremitissima di Pigliaru, ma con ben altra forza di base – sembrano essere personaggi in cerca d’autore, giunchi apparentemente leggeri in una giornata di maestrale, sembrano una squadra e, probabilmente lo sono. L’attesa è tutta per Michela Murgia. Non ci sono ulteriori passaggi. Lo scarno palco la accoglie e lei è subito al centro. La differenza sostanziale tra Francesco Pigliaru e Michela sono le parole. Pigliaru è il docente paziente che spiega con una certa calma e con un piglio a volte troppo “montiano”; Michela è la maestra chiara e risoluta, forse pragmatica, che conosce il peso delle cose e sa riconoscere l’anima della platea. Almeno, questo si respira dalla parte del pubblico dove non ci sono volti troppi conosciuti. Dice di sentirsi a disagio sul palco, lo dice per raccontare la metafora della strada, della politica fatta dal basso, è da luglio che girano la Sardegna non per cercare i voti, ma per cercare i sardi e si sono imbattuti in alcune persone che costruivano, tentavano almeno di costruire qualcosa nel deserto delle opportunità. Michela regala visioni e le materializza. Dice che non ci sono più spazi pubblici nei nostri paesi e nelle nostre città. Ed è vero. Nei bar si va a giocare alle slot-machine e le piazze sono state divorate dalle rotonde, dalla velocità. Più che gli spazi, penso ascoltando, manca l’amore per le pause, per la lentezza, per restare assorti a godere semplicemente del nostro mare, del nostro vento e del sole. Poi, continuando a disegnare immagini, in questa sua tela apparentemente semplice come i disegni di Mirò e con i tratti soffici di Renoir , racconta che la Sardegna è diventata un arcipelago di solitudini non comunicanti, un mazzo di solitudini, piccole isole abbandonate. Occorre cercare soluzioni e non colpevoli, dice Michela e lo dice veloce, con fermezza e con vigore. Occorrono le proposte politiche, ci vuole un programma. Quello di Sardegna possibile è un concerto di ascolto, un pentagramma dove le note sono il risultato di una canzone ascoltata nei mesi, dai pastori ai docenti, agli uomini di cultura, ai medici, gente che è passata negli OST e ha dato un apporto specifico. Ha parlato di riprogettazione strutturale e, in questo caso, il disegno ha vagato troppo su un Picasso cubista piuttosto incomprensibile; di combattere lo spopolamento del territorio lasciando le scuole, gli ospedali, anche nei piccoli centri. Si ha assoluto bisogno di un piano di trasporti che inserisca nella continuità territoriale anche l’interno. La Sardegna, grazie a Cappellacci si è periferizzata. Ha parlato della vertenza delle entrate e ha velatamente accusato il centro sinistra di non aver insistito, di aver trattato troppo e per troppo tempo con il governo italiano. Ha parlato di piano energetico, la Sardegna produce più energia di quella che ci serve ma non sappiamo venderla. Ha parlato di industria generativa e degenerativa, ha detto che non devono uscire blocchi di granito ma piastrelle, non quintali di sabbia ma bottiglie di vetro e questa è stata un’immagine molto comprensibile, molto chiara, molto metaforica, molto calda, come un quadro di Guttuso. Ha continuato a raccontare la sua campagna elettorale, il suo dover parlare nei bar del Sulcis, perché nei teatri gli operai incazzati da quelle parti non ci vanno. A Teulada si sono presentati e hanno restituito a lei, come politica, 1200 tessere. Perché di votare non ne hanno intenzione. Magari sperano in un sussidio che qualcuno andrà a promettergli, ma nessuno è in grado di raccontare la verità a quel territorio martoriato e offeso, violentato, nessuno avrà il coraggio di raccontare a quegli operai che si potrà anche togliere il chiodo dal buco ma il buco difficilmente si riuscirà a riparare. Tinte fosche, scure, come i dipinti di El Goya. Ha concluso proponendo micro-modelli da analizzare, progetti triennali e non grandi piani di rinascita, costosi e fortemente inutili. E’ solo passata con una certa leggerezza davanti alle affermazioni di Cappellacci sul presunto finanziamento di Onorato. “Magari fosse”, ha detto sorridendo. Poi ha atteso le domande di una platea curiosa. Qualcuno ha anche pensato che Michela Murgia potesse essere la candidata giusta per il centro-sinistra. In fondo da quella strada proviene. Poteva fare le primarie ed oggi ci sarebbe lei al posto di Pigliaru. “Me lo avevano proposto”, ha detto “meno male che non le ho fatte, per come sono andate a finire”. Le presentazioni non sono mai il manifesto chiaro e completo di ciò che si dovrà fare. Sono quadri, semplici schizzi giocati sull’impressione e sull’impatto emotivo. Michela Murgia ha saputo, in meno di trenta minuti, abbozzare un disegno, mettere insieme alcuni colori, mischiarne certi lasciandone alcuni solitari e forti. Ha dimostrato di conoscere l’arte del dipingere e quella del narrare. Il quadro è appena abbozzato e i capolavori hanno bisogno di tempo e di tecnica. E di gente che poi, quei capolavori li apprezzi e li osservi con la giusta lentezza, quella che si regala alle cose fatte bene e con passione.. Ti amo, ma non fa. Facciamo solo sesso, ti prego. Non fa, proprio non fa, a fare figli. Hai letto troppo Gibran, amore mio. E ti è rimasto nella carne dei pensieri, nel sudore delle lenzuola, nella forza del tuo pene, amore mio. Non è vero, non è più vero che "I vostri figli non sono vostri figli. Essi sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha per se stessa". Cazzate, amore mio. I figli saranno i nostri figli e la Vita è a dieta, ora. Non ha più brama per se stessa, la Vita perché i figli saranno i nostri figli, amore mio, e costano. Costano molto. Se solo ci aiutassero. Se solo avessimo qualche politico illuminato capace di pensare a quanto sono importanti le politiche sociali per le famiglie e le attenzioni che si dovrebbero dedicare alle donne. Se solo capissero che tutta la spesa sociale rivolta alle famiglie ha potenziali ritorni economici. Se solo capissero che i trasferimenti monetari alle famiglie creano sicurezza finanziaria ed evitano la povertà durante l'infanzia; i due fattori cruciali per il successo scolastico dei bambini e il potenziale di reddito in età adulta. Se solo capissero l'importanza degli Asili Nido, e quanto l'accesso ad Asili Nido di qualità abbia un forte effetto di riduzione delle diseguaglianze nello sviluppo cognitivo e motivazionale. Se solo capissero quanto l'assenza di programmi di welfare che favoriscono la permanenza delle madri al lavoro retribuito possa incidere sul crollo della fertilità; se solo ne comprendessero la valenza in termini di investimento sociale... Se solo vedessero quanto le donne che hanno figli e interrompono la loro carriera perdono in termini di reddito familiare, fanno perdere allo Stato in termini di minori entrate fiscali, diminuiscano il rapporto tra contributi versati e trattamenti pensionistici goduti, agevolino la possibile realtà di lunghi momenti di povertà relativa nel proprio profilo biografico... Se solo sapessero quanto, nella famiglia dove il padre è precario o non lavora, è ormai fondamentale il reddito della madre per evitare la povertà. Se solo aiutassero noi donne a conciliare la maternità con la partecipazione al mercato del lavoro, offrendo servizi di cura a costi sostenibili... noi non ritarderemmo la nascita del primo figlio o non ci opporremmo alla nascita del secondo. Se solo capissero quanto l'occupazione femminile è decisiva per assicurare in futuro la sostenibilità dello stato sociale.. te la darei sempre, amore mio. Te la darei sempre, ma sperando anche di vedere te negli occhi di nostro figlio, amore mio. Ma ora non fa, ti amo, ma non fa. Roberto Bolognesi è da diverso tempo impegnato in una importante battaglia politico-culturale: cercare di far aprire gli occhi alle persone con specifiche responsabilità istituzionali (ma non solo) sulla drammatica condizione del capitale umano dei nostri giovani e sulle cause di questo disastro. Seguendo diverse strade si sono messi, ad esempio, in relazione i forti tassi di abbandono e ritardo scolastico con le competenze linguistiche e, in particolare, con l'utilizzo (scarso e maldestro) del sardo. L’italianizzazione della Sardegna – secondo Roberto – "ha comportato un grave impoverimento linguistico. Solo una ristretta élite padroneggia, in Italia, la lingua ai livelli in cui un contadino sardo padroneggiava la propria." Ora, le mie competenze non sono quelle di Roberto, ma il tema delle conseguenze sociali, politiche ed economiche dell'enorme difficoltà che lo scarso capitale umano dei nostri giovani sta dimostrando da diversi decenni mi interessa parecchio. E penso che dovrebbe interessare anche chi - in questa contingenza elettorale - sta costruendo i programmi e, soprattutto, le strategie di "cattura del voto", anzi, "dei voti". Già, perché, come ci ricorda Pasquino, il voto può essere declinato anche in ragione del "moto di origine", dell'universo alquanto differenziato di motivazioni che spingono la mano a porre la X in un quadrato piuttosto che in un altro. Esiste, ad esempio il voto di appartenenza. Questo voto era molto più frequente nel passato della I Repubblica e aveva come contenuto la testimonianza di un'appartenenza, ovvero l'affermazione di una identificazione soggettiva con una forza politica che si riteneva potesse avere col proprio gruppo sociale un rapporto di identificazione organica, piuttosto che di banale ed epidermica rappresentanza istituzionale. Poi esiste il voto di opinione. Questo voto ha come contenuto l‟espressione di una scelta che accetta come campo della opzionalità i contenuti dei programmi proposti dai partiti in lizza. La scelta di questo voto è orientata a rendere possibili politiche a favore di interessi Collettivi di gruppo, di classe o dell‟intera società. Infine, esiste il voto di scambio. In questo caso si instaura una sorta di contratto tra votante e votato: l‟opzione elettorale è espressa in cambio di una controprestazione ben definita e particolaristica, che può assumere il carattere di un beneficio immediato e concreto per l‟elettore, la sua cerchia familiare o di parentela. Il voto di opinione apparteneva alle classi medio-superiori, e gruppi più istruiti e informati; il voto di appartenenza ai ceti popolari e aree sub-culturali cattoliche e socialiste; il voto di scambio alle aree sociali periferiche rispetto al sistema politico, soprattutto al Sud, dove il capitale sociale era (è) scarso, scarne erano(sono) le possibilità di costruire castelli autonomi di critica del quotidiano e autonome e libere scelte in campo politico (e no solo). In passato la mobilità elettorale era molto limitata per il voto di appartenenza e molto superiore per il voto di opinione; mentre il voto di scambio, in caso di delusione per le prestazioni ottenute, poteva cambiare senza difficoltà, trasformarsi a volte, in “quella sottospecie del voto di opinione che è il voto di protesta” . Oggi no, non è più così. Non è più così anche perché le ideologie si sono sciolte come neve al sole, la crisi economica ha ferito transversamente la società (ma qualche gruppo sociale più di altri), si sono ristretti i numeri e i perimetri delle basi sociali e territoriali di riferimento. La crisi economica ha modificato radicalmente queste basi sociali: il ceto medio si è ristretto in modo rapido e importante, andando ad allargare quella che sta ormai diventando un'enorme periferia sociale, fatta di precarietà nel mercato del lavoro, assenza di diritti sociali, presenza di maggiore vulnerabilità e povertà. Un gruppo sociale che, con molta fatica, mette insieme quotidianamente il pranzo con la cena ha serie difficoltà a comprarsi (e leggere) dei libri, a frequentare regolarmente la scuola e farla frequentare regolarmente ai propri figli, a vivere contesti di socialità che possano arricchire le autonome possibilità di lettura e di scelta nella costruzione della propria biografia personale. Un gruppo sociale che può anche portare a casa un po' di pane e di carne, ma poi non può cucinarla perché non ha la bombola per il gas, perché non se la può permettere. Allora, se è vero che a volte (e sempre più spesso) la priorità per troppi di noi cittadini è la bombola, è anche vero che il problema della comunicazione con questa enorme fetta sociale chi fa la campagna elettorale nello schieramento di centrosinistra se lo deve porre, "de pressi"... (trad.: in modo urgente e centrale). Come si parla ad un gruppo sociale che non ha i soldi per la bombola? Quali argomenti scegliere, quali stili comunicativi, quali territori di incontro? Quale lingua scegliere? Perché non anche il sardo? L'Unione Europea ha chiuso il conto: i 10,8 milioni di euro investiti dalla Regione per allestire la Flotta Sarda, noleggiando i due traghetti Saremar Scintu e Dimonios, sono da considerare aiuti di Stato e perciò illegittimi.
Soldi investititi per favorire una impresa impegnata nel libero mercato, dunque a discapito di tante altre che di quei benefici non hanno usufruito. La Regione, in definitiva, dovrà restituire l'intera somma all'UE. Una batosta per Ugo Cappellacci, una sconfitta piena con probabili strascichi sulla campagna elettorale del governatore che aspira alla riconferma. Ma la sconfitta, aldilà dei tecnicismi giuridici, è tutta politica e smonta pienamente le fondamenta della stessa candidatura di Cappellacci. Questa candidatura, ma anche quella di cinque anni fa. Perché Cappellacci era il designato da Berlusconi, titolo di cui Ugo si fregiava per convincere gli elettori dell'occhio di riguardo che il governo del Cavaliere, con lui al comando, avrebbe avuto verso la Sardegna. Mai, invece, ci fu governo più lontano dalle sorti dell'Isola. Perché un governo che avesse davvero avuto a cuore le sorti della Sardegna, sarebbe intervenuto con decisione per impedire il cartello delle compagnie e l'esplosione incontrollata delle tariffe marittime. Il trasporto marittimo, il diritto dei sardi di potersi spostare a costi da paese civile, era allora come oggi una delle prime emergenze della Sardegna. Invece, quello stesso governo che si spacciava per amico fu complice del regime imposto dai signori del mare, al punto da costringere Cappellacci alla sospensione dal partito e, in tempi più recenti, ad ammettere che la Regione ebbe quale primo nemico proprio il governo Berlusconi. La disgraziata Frottola sarda è stata, in buona parte, anche una maldestra risposta al voltafaccia di un governo che abbandonò la Sardegna e le impose la privatizzazione di Tirrenia. Oggi, qualche anno dopo, Cappellacci prova a bissare il mandato grazie alla nomina dello stesso Berlusconie. Capo di quel governo che fu del tutto inerte di fronte alla negazione del diritto al trasporto dei sardi. Questa è la vera frottola che i sostenitori di Ugo non ammetteranno mai e che molti elettori hanno dimenticato. Più frottola della stessa Frottola Sarda. 26Non mi piace più · · Condividi
Anche gli avversari sono elettori, è bene ricordarlo. E magari si trovano avversari curiosi che si prendono la briga di capire i contorni e la sostanza delle idee che compongono il panorama delle proposte elettorali delle parti avverse. Avverse, non nemiche, anche questo è bene ricordarlo. Sulla presenza/assenza di determinati argomenti, la loro definizione e messa a fuoco, le strade ( o i sentieri) che si vogliono percorrere per porre rimedio a ciò che si reputa ingiusto, diseguale, antieconomico, antisociale o quant'altro.. si gioca il succo del confronto tra schieramenti politici, ed è giusto che sia così. Uno di questi argomenti che reputo di enorme importanza per la nostra Isola è il lavoro, la sua assenza o - al meno peggio - la sua invisibilità (lavoro nero) o precarietà. Questo del LAVORO è IL PRIMO E PIU 'IMPORTANTE TEMA da affrontare, a mio modo di vedere, in questa contesa elettorale. C'è chi lo fa e chi no, Peppedda no. Perché non lo faccia non ne ho idea. Forse non ne ha le competenze; forse non le interessa quanto il cibo e la cultura: ma per mangiare bisogna avere danari guadagnati e non solo regalati; e lo stesso discorso si pone per i libri, il cinema, il teatro e tutta la cultura usufruita (oltre quella prodotta...): i soldi si guadagnano lavorando ed è proprio ciò che manca qui, da noi, il lavoro. Peppedda non lo sa, ma il confronto con le 270 regioni europee continua a confermare quanto siamo diventati periferici in Europa, quanto è profonda la distanza che la Sardegna ha rispetto alle regioni più attrezzate e solide nel proprio sistema economico. Peppedda non lo sa, ma la debolezza del nostro mercato del lavoro sta nella debolezza dell’occupazione, e questa pasta di fragilità ha diverse componenti: lo scarsissimo capitale umano (che non va confuso banalmente con il livello di istruzione raggiunto) della popolazione attiva; la scarsità dei numeri che stanno dietro la categoria “occupati” e l’enormità dei numeri – invero – che sta dietro le categorie “inoccupati e disoccupati”; la radicata e ormai estesissima instabilità e precarietà dell’occupazione, che ha oramai dovuto gettare via la maschera colorata e “indolore” della flessibilità, troppo e male velocemente costruita da una classe politica auto-ingannata dalle sirene di certa neoliberal economy. Peppedda non lo sa, ma l’occupazione è debole perché “solo una parte della popolazione adulta ha un lavoro e un reddito (e avrà una pensione), mentre l’altra è costretta a restare senza lavoro e senza reddito e si sostiene attraverso le solidarietà familiari e i trasferimenti pubblici”. Peppedda non lo sa ma l’occupazione è debole perché esclude giovani e donne e, soprattutto, perché in Sardegna il ¾ della disoccupazione è adulta (sopra i 25 anni) e ¼ è giovanile: sono i giovani di ieri, quelli che hanno speso un lunghissimo periodo come disoccupati di lungo periodo, quelli che sono faticosamente riusciti ad entrare nel mercato del lavoro attraverso contatti informali e non passando per quelli formali e istituzionali (e deboli anch’essi) dei Centri per l’impiego, quelli che sono riusciti a strappare con i denti contratti instabili e precari. Insomma, sono queste figure – ormai “adulte a metà” – ad essere quantitativamente (e qualitativamente, visti i diversi livelli di responsabilità personale che l’età comporta) ad essere quelli maggiormente colpiti dalla situazione di forte debolezza del mercato del lavoro. Peppedda non lo sa ma nella nostra Isola l’occupazione è debole perché sono assenti quei fattori di sistema come il capitale umano, il capitale sociale, il sistema del credito ma, soprattutto, perché debole è la Domanda, deboli sono gli imprenditori. Peppedda questo lo sa, ma le piace (e questo è un serio problema quando si disegnano le politiche economiche), noi abbiamo un capitalismo diffuso, famigliare e molecolare, che difficilmente riesce a stare al passo con le politiche e i regolamenti, i parametri e i modelli europei; un capitalismo fatto di “nani”, incurante dell’importanza dei processi di innovazione e di internazionalizzazione. Ecco cosa siamo: un sistema economico attivato da imprese nane, visto che il 93% delle nostre realtà produttive (oltre 4 milioni e mezzo) hanno meno di 10 addetti, occupano il 40% degli addetti (oltre 17 milioni) e hanno un fatturato annuale inferiore o pari a 2 milioni di euro. Se guardiamo al Sud e all’Isola, notiamo che la dimensione delle imprese è pari a 3 addetti per impresa; la popolazione di imprese delle regioni del Mezzogiorno è la più instabile, essendo caratterizzata dai valori più alti di natalità e mortalità, quindi del turnover lordo dovuti anche alla maggiore polverizzazione del sistema produttivo meridionale e alla specializzazione relativa nel segmento delle microimprese operanti nei servizi: in Sardegna si registrano valori del tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiori al 50% (quindi meno di un’impresa su due). Peppedda non lo sa, ma per la nostra povera Sardegna, essere piccoli imprenditori non è affatto indicatore di buona salute, quanto piuttosto presagio di sciagura e, soprattutto, disastro per ciò che riguarda le conseguenze sulla debolezza (nelle sue diverse declinazioni) di chi il lavoro lo fornisce, il nostro occupato, instabile, precario e poco numeroso e, troppo poco spesso, donna. Commentando il mio post “Cappellacci, Calangianus e la crisi del sughero”, qualche lettore mi rimprovera che questo non è il momento per aprire discussioni su questo tema, giacché siamo in campagna elettorale e l’argomento verrebbe strumentalizzato. Questo può essere vero, poiché tutto può essere strumentalizzato, ma le cose non stanno così. Capisco che in queste situazioni il cicaleggio si protrae anche dopo il tramonto, ma se dei problemi di un territorio non se ne parla durante una campagna elettorale, che peraltro dovrà rinnovare il Consiglio e la Giunta regionale, quando, secondo voi, se ne dovrebbe parlare? Io penso non c’è migliore occasione per discutere di lavoro e di industria in crisi, di una campagna elettorale. Capisco che per i candidati e i collettori di voti questo è un problema, poiché spesso mancano le necessarie competenze, per cui si preferisce sfuggire ed allora meglio andare con le cene, gli approcci e le lusinghe personali o ancor meglio buttarla in caciara, così finisce tutto nel tritacarne, in modo che non si apprezzi la parte buona da quella mediocre o persino adulterata. Per cercare di districarci dal chiacchiericcio, proviamo allora a fare un giochino con i politici, adottiamo il metodo della verifica, giusto per non mettere tutti nello stesso macinino. Lasciando fuori i nuovi, perché ancora non portano responsabilità, sappiamo che la Gallura ha 5 consiglieri regionali uscenti, alcuni di lunghissimo corso, che si ripresenteranno. Nelle occasioni di incontro, che certamente non mancheranno, proviamo a fare delle semplici e banali domande. Io, ad esempio, a chi mi dovesse chiedere il voto, domanderei: tu che stai in Consiglio regionale e vuoi i nostri voti di imprenditore, operaio o addetto al settore sugheriero, fammi sapere quanti provvedimenti legislativi o ammnistrativi hai proposto o fatto adottare per sostenere la crescita di un industria che dà pane a tantissime persone? Quante volte hai sollecitato e posto la questione in giunta o in una qualche commissione consiliare sulla drammatica crisi della filiera sugheriera? Quante volte, figliolo, hai battuto i pugni, minacciato sfaceli, gesti inconsulti o infuocate conferenze stampa, qualora non avessi ottenuto ascolto per le legittime istante di un comparto in crisi? Quante volte hai proposto, seguito e perseverato, affinché la giunta regionale e gli assessorati competenti adottassero provvedimenti adeguati alla gravità della catastrofe che si prospetta? Quante risorse specifiche, dedicate al comparto, hai sollecitato e ottenuto per lenire la mancanza di credito alle aziende? Quanti provvedimenti hai proposto, adottato o suggerito per difendere un patrimonio non solo industriale, ma di conoscenze e sapienze, culturale, paesaggistico e antropologico di una filiera produttiva d’eccellenza? Quanti studi e piani specifici hai fatto finanziare per capire meglio e a fondo da cosa e da chi è originata una crisi, che stando ai numeri macroeconomici, si presenta come inspiegabile? Quante volte hai fatto convocare a Cagliari le parti sociali affinché si individuasse l’adozione di adeguati strumenti sulle politiche del lavoro? Quante volte hai posto la questione che la Stazione Sperimentale del Sughero non c’entra niente con l’incremento ippico e che occorre trasformarla in un istituto che accompagni le aziende a crescere e innovare? Quante volte hai portato a conoscenza del Consiglio regionale che dal sughero si potrebbero ottenere diverse centinaia di prodotti e che potrebbe diventare la maggiore industria della Sardegna con diverse migliaia di addetti? Bene, se il candidato che si sta riproponendo mi desse almeno un paio di risposte positive ai quesiti sollevati, io il voto potrei pensare di daglielo. Ai candidati che si presentano invece per la prima volta, chiederei se hanno almeno coscienza e conoscenza del quadro appena tracciato e cosa penserebbero di fare, qualora eletti. Il tutto senza distinzione di colore, razza o religione. Provate anche voi a fare questo giocherellino. A fine corsa c’aggiorneremo per i risultati. C’era molta gente stasera al teatro Verdi, a Sassari, per l’apertura della campagna elettorale di Francesco Pigliaru. E c’era la musica d’attesa. Quella che, una volta era suonata e cantata dagli Inti-illimani e negli ultimi tempi da Jovanotti, passando per la canzone popolare di Fossati. Stasera c’era «Walk on the Wild side» di Louu Reed e «Radio Gaga» dei Queen ad attendere Francesco. Il buon Manlio Brigaglia ci ha scherzato su questa musica «fortemente identitaria» ma, come ha lui stesso chiosato, probabilmente «la musica è cambiata» o, più semplicemente, è la stessa musica che gira intorno e non è neppure «troppo moderna». Il buon Pigliaru, si tiene a precisare, è partito in treno da Cagliari e lo ha fatto per rendersi conto delle criticità del territorio. Insomma. Parliamo di sobrietà. Dopo Manlio Brigaglia e i suoi piccoli ricordi (bellissima la metafora sul nido politico “sassarese” che regala buoni politici all’Italia e, in questo caso, alla Sardegna) il candidato sbuca da “dietro” e percorre il corridoio centrale tra le poltrone del teatro stringendo le mani dei sostenitori sino a guadagnare il palco. Jeans, camicia azzurra, senza cravatta e giacca blu. Vestiamo sobrietà. Con qualche rimasuglio americano. Politicamente corretto, però. Parte, quasi di soppiatto, poi con enfasi, “l’anima vola” con la splendida voce di Elisa. Poca musica e molta voce. Cantiamo sobrietà. Ha gli occhi della sua terra e della sua città Francesco Pigliaru. Ha sentito l’abbraccio dolce di Sassari. Comincia ringraziando la Barracciu perché oltre all’atto di responsabilità, un minuto dopo si è messa subito a disposizione della causa di un docente immerso nei suoi studi e che da quindici giorni si ritrova a dover gestire un’altra storia. Applausi tiepidi e di circostanza. Dice subito di non amare l’insulto, l’urlo a tutti i costi e si capisce che è sincero. Poi, l’imprevista apertura a Michela Murgia: «Persona che stimo, sta proponendo un programma interessante e non vedo l’ora di confrontarmi con lei», un attestato quasi di ammirazione, un gioco sottile di politica giocata tutta sulle possibili alleanze in prospettiva di una “non vittoria”. Poi Francesco Pigliaru snocciola il suo pensiero, i cinque anni terribili trascorsi con la giunta Cappellacci, l’industrializzazione sbagliata, operai in cassa integrazione senza orizzonte, i centomila posti di lavoro promessi e i 97.000 disoccupati ottenuti. La cassa integrazione in deroga che segna con molta precisione la grandezza di questa crisi: la Sardegna ha una cassa integrazione cresciuta del 500 per cento, mentre nel mezzogiorno d’Italia ci si è attestati al 200%. Per dire. Ha poi utilizzato la parola “cambiamento”: «Noi dobbiamo accettare il cambiamento che ha due caratteristiche ben precise: uno tecnologico, che ha reso lavori e imprese obsolete e l’altro organizzativo dove è stato decretato l’ingresso di realtà altamente competitive, come la Cina e l’India, con una forza lavoro a bassissimo costo.» Francesco prova a disegnare con le parole: «Dobbiamo alzare la sfida verso questa concorrenza, dobbiamo farlo con la massima convinzione sapendo che le risorse sono scarse. Qualcuno ha vinto dentro questa crisi globale. Sono coloro i quali hanno scommesso sulla formazione. E sull’istruzione.» Futuro in sobrietà. Come uscirne da questa crisi? Pigliaru si gioca una carta: le pari opportunità. «Il problema delle pari opportunità non è legato solo all’equità ma è un problema di sviluppo, perché nel mondo moderno senza pari opportunità non c’è sviluppo e noi dobbiamo preparare i nostri figli, il nostro futuro a questa sfida. Questa sfida si vince con l’istruzione.» Questo giocare con istruzione e formazione è una delle rivoluzioni gramsciane di Pigliaru e tutti sono attenti a questo passaggio squisitamente politico. E di sinistra. Applausi tiepidi. Che vagano verso la convinzione. «La Sardegna,» dice Pigliaru, «Ha il più alto tasso di dispersione scolastica, i giovani vengono scoraggiati, non hanno più voglia di continuare gli studi anche perché, di fatto, non esiste l’ascensore sociale. Noi dobbiamo avere il coraggio di saper guardare al domani, non dobbiamo più fare interventi miopi che cercano di sanare l’emergenza ma, in realtà, non risolvono nulla. Dobbiamo pensare ad un piano straordinario per le scuole, costituendo un fondo finanziario e costruire scuole modello da collocare nelle aree a maggiore dispersione scolastica. Dobbiamo costruire e sistemare le scuole. Questo è l’intervento serio nell’edilizia, questo è l’intervento che crea occupazione e guarda al futuro». Non ha molte pause, sa di essere ascoltato e usa un piglio veloce, poco cattedratico, interessante, coinvolgente. Applausi che virano. Verso sinistra. «Noi, ai giovani che si laureano dobbiamo poter dare una risposta subito. Entro quattro mesi. Un tirocinio, uno stage, un lavoro, dobbiamo costringerli a scommettere sulla loro gioventù, sul loro futuro. Dobbiamo incoraggiarli a diventare imprenditori. Possiamo, per esempio, andare a vedere tutte i migliori esempi sparsi in tutte le regioni italiane – le best pratics – e importarle. Chi ci impedisce di diventare la migliore regione d’Italia?» Già. Chi ce lo impedisce? Parla Francesco e sa di essere tra amici. Parla di sburocratizzazione, di ricchezza nella nostra agricoltura, di un turismo che rappresenta solo il 7% del prodotto interno lordo e, chiaramente, non è sufficiente, parla del piano paesaggistico regionale e si dice soddisfatto della risposta del governo italiano, ma sarebbe più felice se a difendere e migliorare quel piano – fortemente voluto da Soru e dalla sua giunta in cui Pigliaru era assessore – fossero i sardi. «Dobbiamo guardare al futuro, dobbiamo rinnovare la Sardegna e noi stessi, dobbiamo rinnovare la politica e dobbiamo combattere i privilegi ovunque si annidino, dentro qualsiasi parte politica si nascondano». Questa la conclusione. In poco più di un’ora. A regalare passione e provare a rimettere in moto un’auto da troppo tempo in garage. Da apparire quasi arrugginita. Il problema non è, infatti, il pilota. E’ un po’ come la Ferrari di questi ultimi anni in mano ad Alonso. Un fuoriclasse, il migliore, ma l’auto non è all’altezza. La gente, dopo gli applausi lascia lentamente il teatro. Facce quasi rilassate. Il popolo del centro sinistra quasi soddisfatto. Pochi giovani. Che ritrovo, invece in piazza Castello a sorridere e giocare con i cellulari. In lontananza, intravvedo vecchie rughe, di gente segnata, di gente che conosce bene come dividere il territorio. Di questi occorre avere paura. Francesco Pigliaru dovrebbe cominciare a riconoscerli. Ed evitarli. Chissà. Ci sono dei record difficilmente invidiabili. Ci sono record che fanno male, a tutti. Ci sono record per cui vale la pena fermarsi a ragionare oltre il confine delineato dal proprio ombelico, meditare le sorgenti del fenomeno e le politiche per aggredirlo. Ci sono record che sanno di carne umana, la nostra presente e quella futura. La demografia racconta questo record in un numero: 1,42. È il numero medio di nascite per donna in Italia registrato nel 2012, in calo rispetto a quello già basso del 2010 (1,46). Siamo sotto il numero 2,1 (figli per donna), ovvero quel livello di guardia che si chiama “tasso di sostituzione”: in poche parole la possibilità che una società riproduca numericamente se stessa in assenza di flussi migratori. E invece è stata proprio la presenza delle donne migranti ad invertire una tendenza che negli anni ’80 e ’90 andava a costruire un panorama di desertificazione per la popolazione italiana: il numero di figli delle straniere risulta assolutamente superiore a quello delle donne italiane (2,37). Le immigrate hanno agevolato anche un’altra grande trasformazione nel nostro paese: l’inversione del livello di fecondità tra aree territoriali. Ancora nel 1995 la fecondità era più elevata per le donne italiane del Mezzogiorno rispetto a quelle del Nord e del Centro Italia; ma oggi questa differenza è stata sostanzialmente colmata proprio perché è il Sud a peggiorare ed il Nord (grazie alla presenza massiccia di immigrate) a migliorare: il numero di figli per donna nel 2012 è più alto nel Nord (1,48) che nel Centro (1,42) o nel Mezzogiorno (1,33 nel Sud). E se Atene piange, Sparta non ride: i valori più bassi si registrano in Molise e in Sardegna (7,6). Certo, scopare piace a tutti, ma non sempre come insegna la Genesi e come riprende qualsiasi libro di catechesi: insomma, per farla breve, il peso della responsabilità nel mettere al mondo dei figli si fa sentire e – grazie a Efesto – l’invenzione di una molteplicità di metodi anticoncezionali rasserenano l’umana pulsione sessuale e la incanalano verso spiagge di controllata natalità. Controllata, senza dubbio, ma anche socialmente imposta: una contabilità delle reali possibilità economiche di consentire a se stessi e ai pargoli una quotidianità che abbia l’alveo della dignità del vivere è un buon motivo per frenare la riproduzione del proprio nome nella linea di discendenza. Eppure la montagna di difficoltà nella vita delle persone che si declina in categorie specifiche, tutte drammatiche, quali quella di disoccupazione, inoccupazione, cassaintegrazione, messa in mobilità, precariato, lavoro nero, lavoro grigio, fallimento e così via.. potrebbe avere delle linee molto più dolci se le coppie non fossero lasciate sole, se lo Stato alimentasse un welfare serio e mirato, se ci fossero più servizi per l’infanzia, più asili nido, più asili nido di qualità: una diffusa presenza di servizi come questi ha ribaltato in pochi anni, ad esempio, le disastrose condizioni demografiche della Francia. E invece lo Stato italiano c’è poco, e anche se dal 1971 la legge 1044 ha istituito gli asili nido, il loro numero totale è risibile, il numero degli asili pubblici è risibile, quello delle figure professionalmente riconosciute (soprattutto dal lato stipendiale) è risibile, la formazione professionalizzante continua è nulla, la capacità di intervenire nelle dinamiche demografiche appena raccontate appare risibile. E questo perché la politica familiare del nostro paese non esiste, è demandata alle regioni che, a volte (Emilia Romagna, Toscana) eccellono, a volte (quasi tutte quelle del Sud) annaspano e, con loro, i padri, le madri e i nonni. In Italia la mancanza di un sistema di assegni familiari per i figli, lo scarso sviluppo dei servizi pubblici per la prima infanzia e una lunga assenza di politiche di conciliazione famiglia-lavoro trova uno storico fondamento in un preciso modello culturale di famiglia, quello cattolico delle solidarietà familiari e parentali: è l’idea che sia compito preciso della famiglia (e non dello stato) attendere ai compiti di cura verso i propri componenti e, soprattutto, che questi compiti di cura spettino alle donne. Prima di tutto le solidarietà familiari ed intergenerazionali, dopo lo Stato e – se Stato deve essere – che sia presente in forma monetizzata e non in servizi. Eppure una presenza più diffusa di servizi per l’infanzia aiuterebbe; aiuterebbe le coppie a non sentirsi sole pianificando nuove nascite; aiuterebbe le coppie che hanno figli a poter fare affidamento quotidiano su operatori dotati di competenze professionali specialistiche differenti (e magari complementari) a quelle familiari; sosterrebbe i genitori elle scelte educative; faciliterebbe l’ingresso e la permanenza delle mamme nel mercato del lavoro, potrebbe promuovere la conciliazione delle scelte professionali e familiari di entrambi i genitori in un quadro di pari opportunità di genere. Ecco, siccome gli asili nido pubblici sono sostanzialmente finanziati dallo Stato, programmati dalla Regione e gestiti dai Comuni; siccome agli ultimi due viene demandata l’emanazione di una specifica legislazione, propri regolamenti di attuazione e possibilità di implementare finanziariamente la presenza dei servizi; siccome il 16 febbraio si vota alle regionali; siccome – tra natalità e spopolamento delle zone interne - la complessiva situazione demografica della nostra Isola è al disastro.. siccome sono un uomo di sinistra… mi ha fatto piacere sentire che uno dei pilastri del progetto del candidato governatore della sinistra attenga proprio a questi temi. Ci si lavori seriamente sul welfare, che – insieme al lavoro – è la priorità della Sardegna. |
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July 2014
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