Il gioco del pallone è la metafora della vita. Queste sono cose che si imparano da grandi. Quando sei piccolo ti devi schierare e devi “tifare”. La scelta cade sul calciatore che più ti attrae più che su una squadra. Ai miei tempi, poi, era semplicissimo: il calciatore giocava quasi sempre con la stessa squadra. A cambiare “maglia” erano solo quelli con meno luce “addosso” non erano i fuoriclasse. Ai miei tempi però c’era da effettuare una scelta radicale e a quell’età fu importante e segnò il futuro calcistico (niente di serio, per carità) di tante generazioni: molti cominciarono a tifare il Cagliari. Non i giocatori di quella squadra ma il Cagliari che rappresentava, almeno allora, la Sardegna. Lo era anche per i sassaresi, gli olbiesi, gli algheresi. I campanili, a quei tempi non esistevano. A dieci anni, poi, il calcio era solo uno splendido gioco dove la passione e la voglia di esultare era la felicità di un bambino. Di Rovelli e di Moratti i bambini non sapevano nulla, ma di Gigi Riva e di Sandro Mazzola conoscevano praticamente tutto. Erano figurine, icone di quel periodo. Arrivò lo scudetto e scesero sull’isola giornalisti seri, importanti, tutti a raccontare, a provare a capire cosa fosse successo di antropologicamente importante. Qualcuno scrisse che lo scudetto rappresentava un riscatto per l’isola. Io, sempre dentro i miei dieci anni, contavo i giocatori del Cagliari nella Nazionale del Messico, quella che arrivò seconda al mondiale vinto da Pelè. Quella con Nicolai in mondovisione (la bellissima battuta è del compianto Manlio Scopigno). Poi, dopo quello scudetto, piccoli sussulti, cambi di presidenza, scoperta di non avere più imprenditori in grado di gestire il giocattolo, discese in serie minori sino a quando Massimo Cellino, nel 1992, acquisto il Cagliari: un ragazzo con la faccia da simpatico gaglioffo; un po’ rocker e un po’ spaccone, un giocatore di poker sempre sorridente che portò il Cagliari nell’inferno della serie B per riportarlo poi in A. Che cambiò decine di allenatori, che usò la scaramanzia come assoluta religione che finì, come Napoleone, due volte sulla polvere (due parentesi nel carcere di Buoncammino) e qualche volta sull’altare. Adesso molla. Vende tutto, dopo la fuga personale a Miami e dopo aver acquistato una squadra inglese, il Cagliari Calcio passa la mano. Arrivano gli americani. Chissà. Magari sarà la svolta, magari sarà un fallimento. Ma non ci sono più le figurine, i Pizzaballa, i Nicolai, i Boninsegna e i Carmignani di una volta. Non ci sono più quei bambini che urlavano festanti intorno ad un gioco bellissimo, metafora della vita. E se tutto questo non c’è più è perché un po’ non c’è più Gigi Riva e un po’ perché al posto suo, nel 1992, è entrato in questo strano mondo uno come Cellino. E tutto ha preso un’altra piega.