Chissà se vinse la paura o lo stupore davanti a quella pistola puntata da parte di un poco più di un ragazzo nei confronti di un uomo di trentasette anni che il 29 gennaio 1979 si recava, come tutti i giorni, al lavoro. Quell’uomo faceva il giudice di mestiere. Un mestiere complesso negli anni di piombo, negli anni dell’ideologia intensa, negli anni della follia lucida, negli anni in cui i processi sommari venivano effettuati nel nome del proletariato rivoluzionario. E sembra davvero molto lontano quel 29 gennaio 1979, come sembra evanescente lui, il giudice Emilio Alessandrini e sfuocati loro, i suoi assassini, ragazzi di prima linea, Sergio Segio, Marco Donat Cattin (figlio del noto politico democristiano) Susanna Ronconi e Bruno la Ronga. Tutte vite spezzate: quella di Alessandrini finita nell’asfalto viscido di Milano e quella dei militanti “rivoluzionari” buttata nelle carceri italiane per una strategia perversa e assurda, oggi come ieri difficilmente comprensibile. Il giudice, oggi, avrebbe 72 anni e potrebbe ricoprire, ancora, il ruolo di Procuratore Generale. Aveva indagato per anni alla ricerca della più terribile delle verità, quella che ancora oggi ci manca: scoprire gli assassini della strage di Piazza Fontana. Alessandrini capì che quella era una strage fascista e indagò su Freda e Ventura entrambi neonazisti, appartenenti al gruppo di “ar” in sodalizio con Ordine nuovo e Fronte Nazionale e incriminò anche Giannettini, un uomo contorto e legato ai servizi segreti deviati. Un bell’intrigo per una verità mai conosciuta.
Poi, Alessandrini cominciò ad interessarsi di Autonomia Operaia e indagando all’interno di quei gruppi extraparlamentari che vedevano con favore la lotta armata come Autonomia Operaia. Arrivò infine a prima linea, gruppo di fuoco molto forte e determinato nel colpire i servi dello Stato.
Avevo vent’anni e avevo vissuto molti passaggi, non ultimo l’assassinio di Moro, avvenuto soltanto otto mesi prima. Ma quel funerale in bianco e nero, muto e compatto me lo ricordo ancora. Quelle ferite laceranti, mai rimarginate di un’adolescenza squartata, di colori foschi, duri. Di domande senza risposta, di voglia di fuggire, di dover essere costretti a comprendere segnali di morte e di terrore.
Chissà se vince la paura o lo stupore quando qualcuno ti punta un’arma contro. O, più semplicemente, prevale la tristezza per non aver compreso il gesto. Sono passati trentacinque anni da quell’omicidio che non ammise repliche, non ci fu appello e cassazione. Giocarono con la vita di tutti, compresa la loro. Costruirono deserti e silenzi, colline di croci, dove tutti ci mettemmo ad ascoltare il lamento stanco di solitudini. Camminarono soli e non trovarono, sulla strada, nessuno che li prese per mano.
Poi, Alessandrini cominciò ad interessarsi di Autonomia Operaia e indagando all’interno di quei gruppi extraparlamentari che vedevano con favore la lotta armata come Autonomia Operaia. Arrivò infine a prima linea, gruppo di fuoco molto forte e determinato nel colpire i servi dello Stato.
Avevo vent’anni e avevo vissuto molti passaggi, non ultimo l’assassinio di Moro, avvenuto soltanto otto mesi prima. Ma quel funerale in bianco e nero, muto e compatto me lo ricordo ancora. Quelle ferite laceranti, mai rimarginate di un’adolescenza squartata, di colori foschi, duri. Di domande senza risposta, di voglia di fuggire, di dover essere costretti a comprendere segnali di morte e di terrore.
Chissà se vince la paura o lo stupore quando qualcuno ti punta un’arma contro. O, più semplicemente, prevale la tristezza per non aver compreso il gesto. Sono passati trentacinque anni da quell’omicidio che non ammise repliche, non ci fu appello e cassazione. Giocarono con la vita di tutti, compresa la loro. Costruirono deserti e silenzi, colline di croci, dove tutti ci mettemmo ad ascoltare il lamento stanco di solitudini. Camminarono soli e non trovarono, sulla strada, nessuno che li prese per mano.