Faccia di Merda è stato un mio alunno, si sappia.
All’epoca fuggivo dall’Emilia Romagna, avevo superato un concorso extrascolastico ed aspettavo di cambiar pelle e città per un incarico a Roma.
Qualche mese di limbo, insomma: né qua né là.
Avevo optato per un’assegnazione provvisoria in un ameno paesello, non quello della mia nascita ma quello che ha accompagnato la crescita ed i miei anni giovanili fino al primo trasferimento con cui inauguravo un lungo periodo di randagismo.
Alla fine del collegio dei docenti la Dirigente si rivolge a me e ufficializza il mio arrivo comunicandomi il plesso di destinazione.
La collega seduta accanto mi guarda, trattiene un sorriso sadico e dice:
- Complimenti, sarai la maestra di Faccia di Merda! –
- E chi sarebbe?
Stavolta non riesce più a trattenere la risata e butta lì un – Già te ne accorgerai – che incombe come una nefasta profezia.
L’indomani con aria spavalda varco il portone della scuola ed un bidello che sta in piedi per scommessa mi viene incontro, lento e malfermo sulle gambe.
Lo anticipo:
- Sono una nuova insegnante della IV A –
- Ah, la classe di Faccia di Merda… -
L’altra bidella, seduta poco distante da noi mi mostra l’orologio con un cinturino metallico malamente ammaccato.
- E’ stato lui, mi ha dato un morso avantieri! –
Ho la sensazione che la mia permanenza in quella scuola non sarà una passeggiata di salute e, mentre lo penso vedo far capolino dalla porta di una classe una testolina di capelli scarmigliati:
- Eccolaaaaaa! – e scappa dentro l’aula.
Entro in classe, mi presento, chiacchiero un po’ con tutti i bambini ma lui tace. E’ evidente che mi sta studiando, mi prende le misure… forse per prepararmi la bara.
Ad un tratto irrompe con un vocione piuttosto stonato addosso ad una figura gracilina come la sua:
- E tu chi cazzo saresti? –
Conto fino a dieci e, sebbene impossibile, fingo di non aver sentito. - Prendete il quaderno e scrivete la… -
- Ma vai a cagare tu e il quaderno! – mi dice, con la tranquillità di chi non ha nulla da perdere.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Una risata fragorosa, corale. I più secchioni invece inorridiscono, non sono stupidi, sospettano piuttosto che io dovrò pur avere una reazione. I più perspicaci sospettano che questa reazione non sarà affatto piacevole.
Ignorare l’onta come se nulla fosse accaduto avrebbe fatto passare il messaggio che con me tutto era lecito, anche la mancanza di rispetto. Ma, di contro, trovare una risoluzione efficace con un bambino di quel genere non sarebbe stato facile. Una punizione che rischiava di naufragare per la tracotanza dell'alunno mi avrebbe fatto perdere di credibilità col resto del gruppo classe.
Che faccio?
La strategia deve arrivare veloce, pronta e sicura. Dopo una cernita forsennata calcolata mentalmente fra quelle possibili, contemplando anche le eventuali conseguenze.
Poggio le mani sulla cattedra, vi faccio leva per sollevarmi e i movimenti sono lenti per accrescere il pathos.
Mi avvicino al suo banco, il mio viso resta impassibile mentre il suo sorriso comincia a scemare.
Afferro con due dita un lembo della sua t-shirt: - Vieni con me! – gli dico senza alzare la voce.
Lo porto in una piccola aula adiacente, mi chino un po’, gli metto le mani sotto le ascelle per sollevarlo.
Lui mi guarda curioso, senza un filo di timore negli occhi.
Lo tiro su delicatamente e lo appoggio al muro, con le gambe che penzolano nel vuoto. Non è pesante, ma le braccia mi fanno un po’ male, i nostri occhi sono sullo stesso piano.
Sto zitta per qualche secondo, poi, gli urlo con tutto il fiato che ho a disposizione:
- NON AZZARDARTI PIÙ NEMMENO PER SCHERZO! PROVACI SOLO UN’ALTRA VOLTA, BRUTTO MOCCIOSO, E IO TI DISTRUGGO. NON SCHERZO, EH?! –
Lui abbassa lo sguardo, sta diventando rabbioso, comincia ad agitarsi. Ha il respiro accelerato e avverto l’aria uscire dal suo naso con un ritmo crescente.
Lo rimetto giù, comincia a scalpitare, dà calci agli armadi, urla come un ossesso e sbatte la testa contro il muro.
Una crisi isterica degna di un manuale di psichiatria.
Mi avvio verso la porta, apparentemente impassibile ma col cuore in gola. Prima di uscire mi volto, come chi si ricorda improvvisamente qualcosa di importante:
- Quando decidi di rientrare in classe, prima passa dal bagno e lavati la faccia: hai il moccio che ti cola dal naso! –
Lo lascio lì solo, a sbraitare. Col rischio che si faccia male, che scappi dalla finestra, che per sfogare la sua rabbia picchi qualche povero disgraziato, casualmente di passaggio.
Col rischio che io trascorra il resto dei miei giorni in galera.
Torno in classe e comincio a dettare l’esercizio di grammatica, guardo la porta impaziente: lui non rientra. Faccio l’indifferente.
Qualche minuto ed eccolo lì, mesto, gli occhi bassi e la frangia bagnata.
- Prendi il quaderno e copia l’esercizio dal libro! –
- A che pagina è? –
Avevo vinto la mia battaglia e Faccia di Merda non avrebbe più costituito una minaccia.
Almeno durante le mie ore.
All’epoca fuggivo dall’Emilia Romagna, avevo superato un concorso extrascolastico ed aspettavo di cambiar pelle e città per un incarico a Roma.
Qualche mese di limbo, insomma: né qua né là.
Avevo optato per un’assegnazione provvisoria in un ameno paesello, non quello della mia nascita ma quello che ha accompagnato la crescita ed i miei anni giovanili fino al primo trasferimento con cui inauguravo un lungo periodo di randagismo.
Alla fine del collegio dei docenti la Dirigente si rivolge a me e ufficializza il mio arrivo comunicandomi il plesso di destinazione.
La collega seduta accanto mi guarda, trattiene un sorriso sadico e dice:
- Complimenti, sarai la maestra di Faccia di Merda! –
- E chi sarebbe?
Stavolta non riesce più a trattenere la risata e butta lì un – Già te ne accorgerai – che incombe come una nefasta profezia.
L’indomani con aria spavalda varco il portone della scuola ed un bidello che sta in piedi per scommessa mi viene incontro, lento e malfermo sulle gambe.
Lo anticipo:
- Sono una nuova insegnante della IV A –
- Ah, la classe di Faccia di Merda… -
L’altra bidella, seduta poco distante da noi mi mostra l’orologio con un cinturino metallico malamente ammaccato.
- E’ stato lui, mi ha dato un morso avantieri! –
Ho la sensazione che la mia permanenza in quella scuola non sarà una passeggiata di salute e, mentre lo penso vedo far capolino dalla porta di una classe una testolina di capelli scarmigliati:
- Eccolaaaaaa! – e scappa dentro l’aula.
Entro in classe, mi presento, chiacchiero un po’ con tutti i bambini ma lui tace. E’ evidente che mi sta studiando, mi prende le misure… forse per prepararmi la bara.
Ad un tratto irrompe con un vocione piuttosto stonato addosso ad una figura gracilina come la sua:
- E tu chi cazzo saresti? –
Conto fino a dieci e, sebbene impossibile, fingo di non aver sentito. - Prendete il quaderno e scrivete la… -
- Ma vai a cagare tu e il quaderno! – mi dice, con la tranquillità di chi non ha nulla da perdere.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Una risata fragorosa, corale. I più secchioni invece inorridiscono, non sono stupidi, sospettano piuttosto che io dovrò pur avere una reazione. I più perspicaci sospettano che questa reazione non sarà affatto piacevole.
Ignorare l’onta come se nulla fosse accaduto avrebbe fatto passare il messaggio che con me tutto era lecito, anche la mancanza di rispetto. Ma, di contro, trovare una risoluzione efficace con un bambino di quel genere non sarebbe stato facile. Una punizione che rischiava di naufragare per la tracotanza dell'alunno mi avrebbe fatto perdere di credibilità col resto del gruppo classe.
Che faccio?
La strategia deve arrivare veloce, pronta e sicura. Dopo una cernita forsennata calcolata mentalmente fra quelle possibili, contemplando anche le eventuali conseguenze.
Poggio le mani sulla cattedra, vi faccio leva per sollevarmi e i movimenti sono lenti per accrescere il pathos.
Mi avvicino al suo banco, il mio viso resta impassibile mentre il suo sorriso comincia a scemare.
Afferro con due dita un lembo della sua t-shirt: - Vieni con me! – gli dico senza alzare la voce.
Lo porto in una piccola aula adiacente, mi chino un po’, gli metto le mani sotto le ascelle per sollevarlo.
Lui mi guarda curioso, senza un filo di timore negli occhi.
Lo tiro su delicatamente e lo appoggio al muro, con le gambe che penzolano nel vuoto. Non è pesante, ma le braccia mi fanno un po’ male, i nostri occhi sono sullo stesso piano.
Sto zitta per qualche secondo, poi, gli urlo con tutto il fiato che ho a disposizione:
- NON AZZARDARTI PIÙ NEMMENO PER SCHERZO! PROVACI SOLO UN’ALTRA VOLTA, BRUTTO MOCCIOSO, E IO TI DISTRUGGO. NON SCHERZO, EH?! –
Lui abbassa lo sguardo, sta diventando rabbioso, comincia ad agitarsi. Ha il respiro accelerato e avverto l’aria uscire dal suo naso con un ritmo crescente.
Lo rimetto giù, comincia a scalpitare, dà calci agli armadi, urla come un ossesso e sbatte la testa contro il muro.
Una crisi isterica degna di un manuale di psichiatria.
Mi avvio verso la porta, apparentemente impassibile ma col cuore in gola. Prima di uscire mi volto, come chi si ricorda improvvisamente qualcosa di importante:
- Quando decidi di rientrare in classe, prima passa dal bagno e lavati la faccia: hai il moccio che ti cola dal naso! –
Lo lascio lì solo, a sbraitare. Col rischio che si faccia male, che scappi dalla finestra, che per sfogare la sua rabbia picchi qualche povero disgraziato, casualmente di passaggio.
Col rischio che io trascorra il resto dei miei giorni in galera.
Torno in classe e comincio a dettare l’esercizio di grammatica, guardo la porta impaziente: lui non rientra. Faccio l’indifferente.
Qualche minuto ed eccolo lì, mesto, gli occhi bassi e la frangia bagnata.
- Prendi il quaderno e copia l’esercizio dal libro! –
- A che pagina è? –
Avevo vinto la mia battaglia e Faccia di Merda non avrebbe più costituito una minaccia.
Almeno durante le mie ore.