La lectio di Soddu a “vigne Surrau” esorta a domandarsi che Sardegna potremmo mai avere in futuro se non abbandoniamo la fatica dell’inconcludenza e le secche della dipendenza di una politica disegnata altrove. Ho percepito in quel discorso, sebbene declinato da uno dei padri di molti dei problemi di oggi, un infuso di selenio a chi amministra ad ogni livello questa regione, stanca e piegata. Un approccio che traccia un metodo, un possibile percorso, quando ricorda le contese con il governo nazionale per strappare quel famoso piano di rinascita.
In tanti allora confidavano che quel progetto avrebbe portato la “modernità”, verso una Sardegna costruita sull’industria, eliminando criminalità e miseria. Se è vero che quella stagione conobbe oltre all’approdo della grande industria e la realizzazione di dighe, acquedotti, scuole, strade e zone industriali, che servirono alla Sardegna per limare un’atavica arretratezza e a migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti, cancellò storia e saperi di una terra antica per gli antichi. E’ la lettura del “malessere” di cui soffriva la Sardegna che si è rivelata mancata, figlia di una visione politica indurita da retaggi ottocenteschi, una cultura che non siamo stati capaci di confutare. E’ l’approccio politico-culturale che ha determinato un risultato sfortunato: oggi non abbiamo più pastori negli stazzi o nei cuiles, tessitrici, maestri ferrai e scalpellini nei laboratori, ma neanche operai nelle fabbriche. Ci restano, ma ancora per poco, i cassintegrati. Lo tsunami culturale e antropologico che ha spazzato quei giacimenti di saperi e buone prassi, figlie di sedimentazioni millenarie, di cui non si colse il suo “valore patrimoniale”, furono divorate da quel piano di rinascita.
Ma la parola magica scaturita dal ragionamento di Soddu e su cui bisognerebbe interrogarsi è: cos’è oggi la “modernità”? Che vuol dire essere moderni e come dev’essere decifrata la modernità? Questa è la scintilla accesa in quella lezione, un indizio mai imbastito dai politici nostrani di ogni riva. Siamo storditi da réclame d’ogni genere, senza che mai nessuno spieghi quale merce tratta.
Da cosa partiamo allora per rimettere in rotta la nostra macchina economica? Non certamente dalla chimera della zona franca. Non porterà nulla di buono inseguire mostri mitologici che rigurgitano fuoco, non solo perché non “ci sarà permesso di vivere sulle spalle altrui”, ma perché sa tanto di grande impostura. L’incapacità a progettare, a saper leggere i tempi vissuti e attuali, a saper leggere e cogliere ciò che necessita una società post moderna e post industriale, induce i cacicchi del governo regionale a tirar fuori dal cilindro il coniglio della zona franca, a dopare il dibattito politico e culturale senza che alcuno opponga ragionata resistenza. Ma questa mia considerazione è declinata in negativo, mi piacerebbe invece tracciare una rudimentale mappa, un possibile percorso, che immagino accidentato, di come si dovrebbe intendere oggi la “modernità”.
Pietrino Soddu ha parlato di strade, dighe, acquedotti, zone industriali, in sostanza di grandi opere, le cose di cui avrebbe bisogno oggi la Sardegna per ripartire, ricompresi in un progetto che interessi l’intera regione, cosi come lo fu allora per il piano di rinascita. Questo è un metodo verosimile, ma è altrettanto vero che oggi dovremmo comprendere l’insegnamento degli errori vissuti. Per non ripeterli. Intanto, oggi, iniziamo a non buttare più niente, a capitalizzare quel “valore patrimoniale” che la modernità degli anni settanta ha spazzato, facciamo tesoro dell’esperienza, cerchiamo di capire la lezione. Dalle cose chei disponiamo, dalle nostre risorse potremmo ripartire. Non si svende più niente: la cultura, il paesaggio, i centri storici, il mare, i monti, i graniti, i muri a secco, i sugheri, il canto a tenore, a taja, lo scottis, i saperi immateriali, l’enogastronomia, il turismo, le fabbriche che sanno camminare sulle proprie gambe (butterei semmai quelle divoratrici di risorse e di energia come Alcoa, che da quando è ormeggiata in Sardegna ha inghiottito aiuti per sette miliardi di euro). Questo è il “patrimonio” di cui disponiamo dai cui ripartire e che appartengono solo alla Sardegna. Non faccio letture nostalgiche, non penso alla pioggia che cola dai vetri, al silenzioso vagare nei sentieri di campagna, ma a come possiamo mettere a reddito il nostro “patrimonio”.
Qui entra in gioco la capacità di saper leggere la “modernità”, quella di oggi, la capacità di scorrere i tempi e cogliere ciò che necessita la cosiddetta knowledge society, quindi progettualità e capacità di progettare da soli il nostro futuro. Le grandi infrastrutture saranno pertanto le reti di trasporto passeggeri e dati (uomini e informazioni) le telecomunicazioni, le nano tecnologie, le rinnovabili; mentre l’industria e le città saranno sempre più smart, quindi aziende creative e start up innovative. Tutto questo si concilia rigorosamente con quelle realtà regionali dove il patrimonio di saperi, di cultura identitaria e di bellezze ambientali e paesaggistiche sono integri, tutelati. La Gallura e la Sardegna ne sono un grande giacimento. Ci vorrebbe una classe politica e amministrativa interessata, curiosa, colta. Bisognerebbe rendere i nostri paesi più ordinati, coerentemente arredati, favorendo l’insediamento di attività orientate all’ospitalità e all’industria della spettacolarità, ripristinando i circuiti di socializzazione nei centri storici. Occorrerebbe definire spazi e luoghi sempre pronti e attrezzati materialmente, idealmente e culturalmente, capaci di accogliere questi contenuti. Spazi che devono essere concepiti e infrastrutturati, come lo furono le aree produttive, in una parola le "moderne” zone industriali dove possano allocarsi le attività della società postindustriale.
Occorrerebbe pensare a nuove governance. Ma in quei tanti sindaci convenuti a “vigne Surrau” ho visto rassegnazione, amministratori centrati sull’ordinarietà della gestione di un bilancio sempre più scarnificato dalla spending review, quando invece servirebbe pensare in termini innovativi, servirebbe appunto “volare alto”, saltar fuori dalla casamatta in cui si sono rinserrati, servirebbe che le amministrazioni sviluppassero progettualità, valorizzassero i saperi locali intercettando le risorse comunitarie, oramai per la maggior parte orientate tutte verso questi programmi e progetti. Dovremmo imparare a saperla leggere questa benedetta “modernità”, spiegare perché è necessario cambiare.
In tanti allora confidavano che quel progetto avrebbe portato la “modernità”, verso una Sardegna costruita sull’industria, eliminando criminalità e miseria. Se è vero che quella stagione conobbe oltre all’approdo della grande industria e la realizzazione di dighe, acquedotti, scuole, strade e zone industriali, che servirono alla Sardegna per limare un’atavica arretratezza e a migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti, cancellò storia e saperi di una terra antica per gli antichi. E’ la lettura del “malessere” di cui soffriva la Sardegna che si è rivelata mancata, figlia di una visione politica indurita da retaggi ottocenteschi, una cultura che non siamo stati capaci di confutare. E’ l’approccio politico-culturale che ha determinato un risultato sfortunato: oggi non abbiamo più pastori negli stazzi o nei cuiles, tessitrici, maestri ferrai e scalpellini nei laboratori, ma neanche operai nelle fabbriche. Ci restano, ma ancora per poco, i cassintegrati. Lo tsunami culturale e antropologico che ha spazzato quei giacimenti di saperi e buone prassi, figlie di sedimentazioni millenarie, di cui non si colse il suo “valore patrimoniale”, furono divorate da quel piano di rinascita.
Ma la parola magica scaturita dal ragionamento di Soddu e su cui bisognerebbe interrogarsi è: cos’è oggi la “modernità”? Che vuol dire essere moderni e come dev’essere decifrata la modernità? Questa è la scintilla accesa in quella lezione, un indizio mai imbastito dai politici nostrani di ogni riva. Siamo storditi da réclame d’ogni genere, senza che mai nessuno spieghi quale merce tratta.
Da cosa partiamo allora per rimettere in rotta la nostra macchina economica? Non certamente dalla chimera della zona franca. Non porterà nulla di buono inseguire mostri mitologici che rigurgitano fuoco, non solo perché non “ci sarà permesso di vivere sulle spalle altrui”, ma perché sa tanto di grande impostura. L’incapacità a progettare, a saper leggere i tempi vissuti e attuali, a saper leggere e cogliere ciò che necessita una società post moderna e post industriale, induce i cacicchi del governo regionale a tirar fuori dal cilindro il coniglio della zona franca, a dopare il dibattito politico e culturale senza che alcuno opponga ragionata resistenza. Ma questa mia considerazione è declinata in negativo, mi piacerebbe invece tracciare una rudimentale mappa, un possibile percorso, che immagino accidentato, di come si dovrebbe intendere oggi la “modernità”.
Pietrino Soddu ha parlato di strade, dighe, acquedotti, zone industriali, in sostanza di grandi opere, le cose di cui avrebbe bisogno oggi la Sardegna per ripartire, ricompresi in un progetto che interessi l’intera regione, cosi come lo fu allora per il piano di rinascita. Questo è un metodo verosimile, ma è altrettanto vero che oggi dovremmo comprendere l’insegnamento degli errori vissuti. Per non ripeterli. Intanto, oggi, iniziamo a non buttare più niente, a capitalizzare quel “valore patrimoniale” che la modernità degli anni settanta ha spazzato, facciamo tesoro dell’esperienza, cerchiamo di capire la lezione. Dalle cose chei disponiamo, dalle nostre risorse potremmo ripartire. Non si svende più niente: la cultura, il paesaggio, i centri storici, il mare, i monti, i graniti, i muri a secco, i sugheri, il canto a tenore, a taja, lo scottis, i saperi immateriali, l’enogastronomia, il turismo, le fabbriche che sanno camminare sulle proprie gambe (butterei semmai quelle divoratrici di risorse e di energia come Alcoa, che da quando è ormeggiata in Sardegna ha inghiottito aiuti per sette miliardi di euro). Questo è il “patrimonio” di cui disponiamo dai cui ripartire e che appartengono solo alla Sardegna. Non faccio letture nostalgiche, non penso alla pioggia che cola dai vetri, al silenzioso vagare nei sentieri di campagna, ma a come possiamo mettere a reddito il nostro “patrimonio”.
Qui entra in gioco la capacità di saper leggere la “modernità”, quella di oggi, la capacità di scorrere i tempi e cogliere ciò che necessita la cosiddetta knowledge society, quindi progettualità e capacità di progettare da soli il nostro futuro. Le grandi infrastrutture saranno pertanto le reti di trasporto passeggeri e dati (uomini e informazioni) le telecomunicazioni, le nano tecnologie, le rinnovabili; mentre l’industria e le città saranno sempre più smart, quindi aziende creative e start up innovative. Tutto questo si concilia rigorosamente con quelle realtà regionali dove il patrimonio di saperi, di cultura identitaria e di bellezze ambientali e paesaggistiche sono integri, tutelati. La Gallura e la Sardegna ne sono un grande giacimento. Ci vorrebbe una classe politica e amministrativa interessata, curiosa, colta. Bisognerebbe rendere i nostri paesi più ordinati, coerentemente arredati, favorendo l’insediamento di attività orientate all’ospitalità e all’industria della spettacolarità, ripristinando i circuiti di socializzazione nei centri storici. Occorrerebbe definire spazi e luoghi sempre pronti e attrezzati materialmente, idealmente e culturalmente, capaci di accogliere questi contenuti. Spazi che devono essere concepiti e infrastrutturati, come lo furono le aree produttive, in una parola le "moderne” zone industriali dove possano allocarsi le attività della società postindustriale.
Occorrerebbe pensare a nuove governance. Ma in quei tanti sindaci convenuti a “vigne Surrau” ho visto rassegnazione, amministratori centrati sull’ordinarietà della gestione di un bilancio sempre più scarnificato dalla spending review, quando invece servirebbe pensare in termini innovativi, servirebbe appunto “volare alto”, saltar fuori dalla casamatta in cui si sono rinserrati, servirebbe che le amministrazioni sviluppassero progettualità, valorizzassero i saperi locali intercettando le risorse comunitarie, oramai per la maggior parte orientate tutte verso questi programmi e progetti. Dovremmo imparare a saperla leggere questa benedetta “modernità”, spiegare perché è necessario cambiare.