Conosco due canzoni di Amedeo Minghi.
Una è "1950" e l'ho sempre trovata molto bella, l'altra è "Vattene amore" cantata assieme a Mietta in una edizione del festival di Sanremo di oltre vent'anni fa.
Quella che nel ritornello ripete "trottolino amoroso dududù dadadà", per intenderci.
Tutte le altre canzoni di Minghi, con quel tono solenne e i testi barocchi, mi infastidiscono.
Eppure io ho profondamente ammirato Amedeo Minghi. Ed ora vi spiego il perché.
Anno 1993. La mia seconda stagione nell'istituto di vigilanza della Costa Smeralda.
Alla fine di ogni turno settimanale ci spettavano due giornate di riposo. In piena estate, però, capitava spesso che il personale in forza alla società non fosse sufficiente per garantire i servizi richiesti. Cosicché ci veniva domandata la disponibilità per qualche ora di straordinario.
Quasi nessuno aveva il telefonino e dalla centrale ti chiamavano a casa.
Siccome avevo vent'anni e i miei riposi me li volevo godere, mi ero imposto di non rispondere al telefono nei due giorni di libertà.
C'era la dolce vita della Costa anni novanta e una sola giovinezza.
Rispondere al telefono e rifiutare l'extra avrebbe significato automaticamente, al rientro al lavoro, essere assegnato ai servizi più faticosi ed umilianti. Se invece non ti trovavano potevi accampare mille scuse, tutte valide.
Invece, in quel pomeriggio di fine luglio, lo squillo mi colse in contropiede e risposi.
Quando sentii la voce di Domenico, dall'altro capo del filo, raggelai.
Domenico era uno dei centralinisti della vigilanza.
Ricordo le sue parole esatte.
"Ti va di andare gratis ad un concerto, stasera?"
"........."
"Ci sarebbero quattro ore di straordinario da sbrigare per il concerto di Amedeo Minghi al Romazzino. All'una di notte avresti finito".
Accettai, con la morte nel cuore.
I programmi per la serata erano ben altri. Quando comunicai l'imprevisto a Maria, lei non fece storie e mi diede appuntamento per l'una e mezza di notte.
Eravamo giovani e pazzi.
Il palco lo avevano montato tra la spiaggia e il ristorante all'aperto dell'hotel. Finita la cena, gli ospiti avrebbero assistito al concerto di Minghi che, al tempo, era una star reduce dai successi di "trottolino amoroso dududù dadadà". Non so quanto costasse all'epoca il biglietto per lo spettacolo, ma credo fossimo sul milione di lire a coperto. E i coperti erano duecento, se male non ricordo.
In servizio con me c'era Davide, un collega stagionale alto e magrissimo benché incallito consumatore di merendine.
Davide era un ragazzo educato e dalla faccia pulita, parlava un italiano ricco e sceglieva sempre espressioni appropriate. Non ho mai sentito una parolaccia uscire dalla sua bocca.
Quella sera mi parlò della Opel Corsa millequattro sport che gli avevano appena consegnato e dei sacrifici stoicamente accettati per poter sostenere l'investimento.
Davide aveva una passione smodata per le auto sportive che a me sembrava non entrarci nulla con il suo profilo di ragazzo assennato e per bene.
Poi arrivò Amedeo Minghi.
Lo andammo a prelevare dall'auto che lo aveva accompagnato e lo guidammo sul palco. Portava una camicia grigia, i capelli lunghi raccolti in una coda.
Aveva l'avambraccio destro ingessato e sporcato da tanti scarabocchi.
Non sorrideva, né dimostrava alcuna euforia per essere la stella della serata in Costa Smeralda.
Era una notte chiara e di stelle ce n'erano di più luminose della sua, in effetti.
Minghi cantava su basi registrate ma l'impianto di amplificazione non lo sosteneva. Ogni tanto il suono andava in distorsione, altre volte la musica s'inceppava proprio.
Alla fine di ogni pezzo, l'autore di trottolino amoroso dududù dadadà si mostrava sempre più stizzito per il ripetersi degli inconvenienti tecnici.
Era incazzato come una biscia al risveglio dal letargo.
E poi c'era il pubblico. Anzi, non c'era.
Neppure un applauso o un gridolino d'incoraggiamento tra una canzone e l'altra. Anzi, un silenzio imbarazzante. Dopo la prima, la seconda, la terza e la quarta canzone.
Minghi lamentò seccamente questa freddezza: quattrocento occhi lo trafissero, inespressivi.
Spettatori indifferenti, paghi della cena appena consumata, delusi da una performance obiettivamente scialba, abituati a ben altri palcoscenici e ad artisti di differente caratura.
O forse solo riccastri annoiati.
Oltre trottolino amoroso dududà dadadà c'era ben poco da ascoltare, ad essere onesti.
Mi sentivo in imbarazzo per lui e, volendo risparmiarmi qualche secondo di calvario, mi voltai per dare un'occhiata alla spiaggia, dietro il palco.
Era affollata di gente. Un sacco di gente seduta ordinatamente sulla sabbia, per tante e tante file.
Riconobbi anche Domenico, il centralinista della vigilanza, con tutta la famiglia al seguito.
Gente comune arrivata dai paesi per rubacchiare le note di quel concerto. Gente che non si poteva permettere di pagare un milione per un coperto ma voleva esserci lo stesso.
Il lato B della Costa Smeralda.
Vedevo che si agitavano e cantavano, ma nel mare di note del palco non potevo sentirli.
Ancora la ola non l'avevano inventata, ma loro la facevano lo stesso.
All'ennesimo svarione dell'amplificazione, il tecnico interruppe la musica e chiese a Minghi se volesse ripetere l'esecuzione della canzone.
Così rispose trottolino amoroso:
"Ormai l'avete rovinata e tanto a questi non interessa, figuriamoci quanto me ne possa fregare a me".
Solo a quel punto lorsignori, inferociti per la mancanza di rispetto, iniziarono a dare rumorosi segni di vita, contestando apertamente il cantautore. Intanto il direttore generale degli hotel della Costa Smeralda, che aveva avuto l'infelice idea di prenotare un tavolino per sé, rischiava il linciaggio. E la scaletta dei brani in programma era ancora lunga, disgraziatamente lunga
Sinché Minghi ebbe il colpo di genio.
Notata la gran folla in spiaggia, voltò le spalle al pubblico pagante e proseguì il concerto per i portoghesi giunti da Arzachena, Olbia, Sant'Antonio di Gallura e Luogosanto.
Tutto il concerto per loro, mostrando le chiappe ai duecento titolari di tavolino da un milione a botta.
Dal mio punto di osservazione vedevo due mondi:
a sinistra la sala ristorante del Romazzino che lentamente si svuotava, animate discussioni e insulti al direttore generale sotto assedio;
a destra la gioia incontenibile degli ascoltatori in riva al mare, che.avevano capito tutto e dimostravano la loro riconoscenza alla grande star cantando e ballando ogni sua sconosciuta strofa.
Si andò avanti per non so quanto, tra rabbia ed esaltazione.
Per una volta il mondo si era rovesciato.
Quando l'esibizione finì e Minghi scese dal palco, io e Davide fummo costretti a prenderci per mano.
Non perché rapiti dall'atmosfera romantica ma per contribuire al cordone umano creato dal servizio d'ordine dell'albergo: gli spettatori della spiaggia volevano portare in trionfo Amedeo Minghi, abbracciarlo, complimentarsi.
Lui salutò, s'inchinò davanti a loro tra lo scrosciare degli applausi e poi se ne andò via, mentre la gente intonava "trottolino amoroso dududù dadadà".
Avevo il cambio in macchina e all'una e mezza ero puntuale, all'appuntamento. Maria, tutta truccata e profumata, mi aspettava sul terrazzino di casa affacciato sul viale Costa Smeralda.
Gironzolammo fin quando non ebbi finito di raccontarle la storia, abbondando in dettagli e retroscena.
Poi la portai sulla collinetta di Liscia di Vacca per vedere Porto Cervo dall'alto.
Ma non ci interessava molto.
E allora reclinammo i sedili della mia Panda Dance 900 verde chiaro, per concludere come meglio non si poteva una serata memorabile.
Eravamo giovani e pazzi
Una è "1950" e l'ho sempre trovata molto bella, l'altra è "Vattene amore" cantata assieme a Mietta in una edizione del festival di Sanremo di oltre vent'anni fa.
Quella che nel ritornello ripete "trottolino amoroso dududù dadadà", per intenderci.
Tutte le altre canzoni di Minghi, con quel tono solenne e i testi barocchi, mi infastidiscono.
Eppure io ho profondamente ammirato Amedeo Minghi. Ed ora vi spiego il perché.
Anno 1993. La mia seconda stagione nell'istituto di vigilanza della Costa Smeralda.
Alla fine di ogni turno settimanale ci spettavano due giornate di riposo. In piena estate, però, capitava spesso che il personale in forza alla società non fosse sufficiente per garantire i servizi richiesti. Cosicché ci veniva domandata la disponibilità per qualche ora di straordinario.
Quasi nessuno aveva il telefonino e dalla centrale ti chiamavano a casa.
Siccome avevo vent'anni e i miei riposi me li volevo godere, mi ero imposto di non rispondere al telefono nei due giorni di libertà.
C'era la dolce vita della Costa anni novanta e una sola giovinezza.
Rispondere al telefono e rifiutare l'extra avrebbe significato automaticamente, al rientro al lavoro, essere assegnato ai servizi più faticosi ed umilianti. Se invece non ti trovavano potevi accampare mille scuse, tutte valide.
Invece, in quel pomeriggio di fine luglio, lo squillo mi colse in contropiede e risposi.
Quando sentii la voce di Domenico, dall'altro capo del filo, raggelai.
Domenico era uno dei centralinisti della vigilanza.
Ricordo le sue parole esatte.
"Ti va di andare gratis ad un concerto, stasera?"
"........."
"Ci sarebbero quattro ore di straordinario da sbrigare per il concerto di Amedeo Minghi al Romazzino. All'una di notte avresti finito".
Accettai, con la morte nel cuore.
I programmi per la serata erano ben altri. Quando comunicai l'imprevisto a Maria, lei non fece storie e mi diede appuntamento per l'una e mezza di notte.
Eravamo giovani e pazzi.
Il palco lo avevano montato tra la spiaggia e il ristorante all'aperto dell'hotel. Finita la cena, gli ospiti avrebbero assistito al concerto di Minghi che, al tempo, era una star reduce dai successi di "trottolino amoroso dududù dadadà". Non so quanto costasse all'epoca il biglietto per lo spettacolo, ma credo fossimo sul milione di lire a coperto. E i coperti erano duecento, se male non ricordo.
In servizio con me c'era Davide, un collega stagionale alto e magrissimo benché incallito consumatore di merendine.
Davide era un ragazzo educato e dalla faccia pulita, parlava un italiano ricco e sceglieva sempre espressioni appropriate. Non ho mai sentito una parolaccia uscire dalla sua bocca.
Quella sera mi parlò della Opel Corsa millequattro sport che gli avevano appena consegnato e dei sacrifici stoicamente accettati per poter sostenere l'investimento.
Davide aveva una passione smodata per le auto sportive che a me sembrava non entrarci nulla con il suo profilo di ragazzo assennato e per bene.
Poi arrivò Amedeo Minghi.
Lo andammo a prelevare dall'auto che lo aveva accompagnato e lo guidammo sul palco. Portava una camicia grigia, i capelli lunghi raccolti in una coda.
Aveva l'avambraccio destro ingessato e sporcato da tanti scarabocchi.
Non sorrideva, né dimostrava alcuna euforia per essere la stella della serata in Costa Smeralda.
Era una notte chiara e di stelle ce n'erano di più luminose della sua, in effetti.
Minghi cantava su basi registrate ma l'impianto di amplificazione non lo sosteneva. Ogni tanto il suono andava in distorsione, altre volte la musica s'inceppava proprio.
Alla fine di ogni pezzo, l'autore di trottolino amoroso dududù dadadà si mostrava sempre più stizzito per il ripetersi degli inconvenienti tecnici.
Era incazzato come una biscia al risveglio dal letargo.
E poi c'era il pubblico. Anzi, non c'era.
Neppure un applauso o un gridolino d'incoraggiamento tra una canzone e l'altra. Anzi, un silenzio imbarazzante. Dopo la prima, la seconda, la terza e la quarta canzone.
Minghi lamentò seccamente questa freddezza: quattrocento occhi lo trafissero, inespressivi.
Spettatori indifferenti, paghi della cena appena consumata, delusi da una performance obiettivamente scialba, abituati a ben altri palcoscenici e ad artisti di differente caratura.
O forse solo riccastri annoiati.
Oltre trottolino amoroso dududà dadadà c'era ben poco da ascoltare, ad essere onesti.
Mi sentivo in imbarazzo per lui e, volendo risparmiarmi qualche secondo di calvario, mi voltai per dare un'occhiata alla spiaggia, dietro il palco.
Era affollata di gente. Un sacco di gente seduta ordinatamente sulla sabbia, per tante e tante file.
Riconobbi anche Domenico, il centralinista della vigilanza, con tutta la famiglia al seguito.
Gente comune arrivata dai paesi per rubacchiare le note di quel concerto. Gente che non si poteva permettere di pagare un milione per un coperto ma voleva esserci lo stesso.
Il lato B della Costa Smeralda.
Vedevo che si agitavano e cantavano, ma nel mare di note del palco non potevo sentirli.
Ancora la ola non l'avevano inventata, ma loro la facevano lo stesso.
All'ennesimo svarione dell'amplificazione, il tecnico interruppe la musica e chiese a Minghi se volesse ripetere l'esecuzione della canzone.
Così rispose trottolino amoroso:
"Ormai l'avete rovinata e tanto a questi non interessa, figuriamoci quanto me ne possa fregare a me".
Solo a quel punto lorsignori, inferociti per la mancanza di rispetto, iniziarono a dare rumorosi segni di vita, contestando apertamente il cantautore. Intanto il direttore generale degli hotel della Costa Smeralda, che aveva avuto l'infelice idea di prenotare un tavolino per sé, rischiava il linciaggio. E la scaletta dei brani in programma era ancora lunga, disgraziatamente lunga
Sinché Minghi ebbe il colpo di genio.
Notata la gran folla in spiaggia, voltò le spalle al pubblico pagante e proseguì il concerto per i portoghesi giunti da Arzachena, Olbia, Sant'Antonio di Gallura e Luogosanto.
Tutto il concerto per loro, mostrando le chiappe ai duecento titolari di tavolino da un milione a botta.
Dal mio punto di osservazione vedevo due mondi:
a sinistra la sala ristorante del Romazzino che lentamente si svuotava, animate discussioni e insulti al direttore generale sotto assedio;
a destra la gioia incontenibile degli ascoltatori in riva al mare, che.avevano capito tutto e dimostravano la loro riconoscenza alla grande star cantando e ballando ogni sua sconosciuta strofa.
Si andò avanti per non so quanto, tra rabbia ed esaltazione.
Per una volta il mondo si era rovesciato.
Quando l'esibizione finì e Minghi scese dal palco, io e Davide fummo costretti a prenderci per mano.
Non perché rapiti dall'atmosfera romantica ma per contribuire al cordone umano creato dal servizio d'ordine dell'albergo: gli spettatori della spiaggia volevano portare in trionfo Amedeo Minghi, abbracciarlo, complimentarsi.
Lui salutò, s'inchinò davanti a loro tra lo scrosciare degli applausi e poi se ne andò via, mentre la gente intonava "trottolino amoroso dududù dadadà".
Avevo il cambio in macchina e all'una e mezza ero puntuale, all'appuntamento. Maria, tutta truccata e profumata, mi aspettava sul terrazzino di casa affacciato sul viale Costa Smeralda.
Gironzolammo fin quando non ebbi finito di raccontarle la storia, abbondando in dettagli e retroscena.
Poi la portai sulla collinetta di Liscia di Vacca per vedere Porto Cervo dall'alto.
Ma non ci interessava molto.
E allora reclinammo i sedili della mia Panda Dance 900 verde chiaro, per concludere come meglio non si poteva una serata memorabile.
Eravamo giovani e pazzi