Mi ero messa a sedere davanti ad un foglio bianco...
L’intento era quello di scrivere qualcosa sullo sconcertante episodio di Porto Cervo raccontato da Francesco Giorgioni, con la consapevolezza che avrei corso il rischio di essere ripetitiva nell'esporre lo stesso sdegno narrato dagli amici della Redazione di Sardegnablogger e sicuramente non avrei saputo rendere altrettanto bene l’indignazione da loro descritta.
Così, mentre frugavo nella mente per trovare parole sparse da mettere in ordine, mi sono ritrovata nel 2006 catapultata a quando, dopo 5 anni di vita nella capitale, avevo preso la sofferta decisione di rientrare definitivamente in Sardegna.
Avevo lasciato l’opportunità di una brillante carriera.
Avevo lasciato Roma e le sue infinite occasioni di svago, i suoi stimoli e le sue bellezze.
Avevo lasciato una città che amavo e che odiavo, anche.
Avevo deciso di rientrare in Sardegna perché Roma è una città incredibile: è stupenda ma è anche bastarda.
Roma è una mamma che ti accoglie fra le sue braccia e poi ti lascia andare, pretende che tu sappia volare da sola. E poco gliene importa se le tue ali non sono ancora formate.
Roma è veloce, cerca un duellante che sia all’altezza e non vuole tempi morti. E’ una prestigiatrice che ti distrae con il gesto della sinistra solo per ingannarti con la destra.
Io l’avevo attaccata in punta di fioretto, avevo cercato la guardia bassa, l’avevo assillata con incessanti colpi portati ai punti vitali.
Alla fine avevo fatto il triplo salto mortale ed ero atterrata sulle gambe.
Per scoprire che avevo perso un’altra volta!
Ulisse non si sottraeva al canto delle sirene, ma neppure si esponeva inerme all’incanto fatale. Sapeva che il suo viaggio doveva passare attraverso la conoscenza, così si era fatto legare ed aveva ascoltato.
Avevo ascoltato anch’io, con la segreta speranza di conoscere, di riuscire un giorno a capire. Forse a raccontarlo.
Insomma, ero tornata in Sardegna con Roma nel cuore.
Il giorno dello sbarco, col morale sotto i piedi, perché ora benedico la decisione di tornare nella mia terra, ma all’epoca rientrare aveva il sapore di una resa, percorrevo la pericolosissima Olbia-Sassari, quando ho scorto il corpicino di un animale rannicchiato sull’asfalto. E siccome mi dà fastidio calpestare con gli pneumatici la carcassa di una bestiola, l’avevo scansata: una ruota alla sua destra e l’altra alla sua sinistra.
Ma poi, guardandola dallo specchietto retrovisore, la sua posizione non mi convinceva: era rannicchiata, non distesa.
Ero tornata indietro e, con la massima prudenza possibile, l’avevo raccolta. Una gattina sconquassata, forse in coma o comunque non reattiva, con un evidente trauma oculare. Il bulbo era enorme e fuoriusciva dall’orbita quasi completamente.
L’avevo adagiata sul sedile dell’auto, decisa a regalarle almeno una morte dignitosa e, una volta a casa, l’avevo sistemata nel giardino, sull’erba morbida, avvolta da un tiepido spicchio di sole.
Nell’arco di un paio d’ore, ad ogni controllo, la micina si faceva sempre più vigile, più reattiva e più viva. Ad un certo punto aveva concretizzato il suo ritorno alla vita con incessanti e rumorose fusa a cui era seguita la corsa in clinica veterinaria.
Quella gatta si sarebbe salvata.
La dovevo salvare perché in fondo eravamo straordinariamente simili: lei distrutta nel fisico ed io nell’animo.
Inutile dire che è diventata la mia gatta.
Dapprima timorosa e riconoscente. Sembrava quasi non volesse farmi percepire la sua presenza in casa, per non disturbare.
Assai poco pretenziosa, accoglieva con entusiasmo qualsiasi cibo, anche il più semplice. Non cercava le carezze, ma quando le riceveva impazziva di felicità e lo dimostrava.
Col passare del tempo è diventata via via più esigente, superba e tronfia.
I bocconcini esclusivamente quelli della sua marca preferita, in caso contrario si celava dietro un altezzoso digiuno. Quando voleva le coccole non le chiedeva, le esigeva. Se invece non le gradiva, non c’era verso di assestarle una carezza perché si scansava e, con l’unico occhio rimasto, lanciava occhiate sinistre. Più o meno come si guarderebbe la cacca di un piccione sul cofano di una macchina nuova. La padrona di casa è lei, ormai da anni.
Insomma, tutto ‘sto giro di parole per dimostrare che, quando non si ha un’adeguata intelligenza per gestirlo, il benessere rende stronzi anche gli animali.
L’intento era quello di scrivere qualcosa sullo sconcertante episodio di Porto Cervo raccontato da Francesco Giorgioni, con la consapevolezza che avrei corso il rischio di essere ripetitiva nell'esporre lo stesso sdegno narrato dagli amici della Redazione di Sardegnablogger e sicuramente non avrei saputo rendere altrettanto bene l’indignazione da loro descritta.
Così, mentre frugavo nella mente per trovare parole sparse da mettere in ordine, mi sono ritrovata nel 2006 catapultata a quando, dopo 5 anni di vita nella capitale, avevo preso la sofferta decisione di rientrare definitivamente in Sardegna.
Avevo lasciato l’opportunità di una brillante carriera.
Avevo lasciato Roma e le sue infinite occasioni di svago, i suoi stimoli e le sue bellezze.
Avevo lasciato una città che amavo e che odiavo, anche.
Avevo deciso di rientrare in Sardegna perché Roma è una città incredibile: è stupenda ma è anche bastarda.
Roma è una mamma che ti accoglie fra le sue braccia e poi ti lascia andare, pretende che tu sappia volare da sola. E poco gliene importa se le tue ali non sono ancora formate.
Roma è veloce, cerca un duellante che sia all’altezza e non vuole tempi morti. E’ una prestigiatrice che ti distrae con il gesto della sinistra solo per ingannarti con la destra.
Io l’avevo attaccata in punta di fioretto, avevo cercato la guardia bassa, l’avevo assillata con incessanti colpi portati ai punti vitali.
Alla fine avevo fatto il triplo salto mortale ed ero atterrata sulle gambe.
Per scoprire che avevo perso un’altra volta!
Ulisse non si sottraeva al canto delle sirene, ma neppure si esponeva inerme all’incanto fatale. Sapeva che il suo viaggio doveva passare attraverso la conoscenza, così si era fatto legare ed aveva ascoltato.
Avevo ascoltato anch’io, con la segreta speranza di conoscere, di riuscire un giorno a capire. Forse a raccontarlo.
Insomma, ero tornata in Sardegna con Roma nel cuore.
Il giorno dello sbarco, col morale sotto i piedi, perché ora benedico la decisione di tornare nella mia terra, ma all’epoca rientrare aveva il sapore di una resa, percorrevo la pericolosissima Olbia-Sassari, quando ho scorto il corpicino di un animale rannicchiato sull’asfalto. E siccome mi dà fastidio calpestare con gli pneumatici la carcassa di una bestiola, l’avevo scansata: una ruota alla sua destra e l’altra alla sua sinistra.
Ma poi, guardandola dallo specchietto retrovisore, la sua posizione non mi convinceva: era rannicchiata, non distesa.
Ero tornata indietro e, con la massima prudenza possibile, l’avevo raccolta. Una gattina sconquassata, forse in coma o comunque non reattiva, con un evidente trauma oculare. Il bulbo era enorme e fuoriusciva dall’orbita quasi completamente.
L’avevo adagiata sul sedile dell’auto, decisa a regalarle almeno una morte dignitosa e, una volta a casa, l’avevo sistemata nel giardino, sull’erba morbida, avvolta da un tiepido spicchio di sole.
Nell’arco di un paio d’ore, ad ogni controllo, la micina si faceva sempre più vigile, più reattiva e più viva. Ad un certo punto aveva concretizzato il suo ritorno alla vita con incessanti e rumorose fusa a cui era seguita la corsa in clinica veterinaria.
Quella gatta si sarebbe salvata.
La dovevo salvare perché in fondo eravamo straordinariamente simili: lei distrutta nel fisico ed io nell’animo.
Inutile dire che è diventata la mia gatta.
Dapprima timorosa e riconoscente. Sembrava quasi non volesse farmi percepire la sua presenza in casa, per non disturbare.
Assai poco pretenziosa, accoglieva con entusiasmo qualsiasi cibo, anche il più semplice. Non cercava le carezze, ma quando le riceveva impazziva di felicità e lo dimostrava.
Col passare del tempo è diventata via via più esigente, superba e tronfia.
I bocconcini esclusivamente quelli della sua marca preferita, in caso contrario si celava dietro un altezzoso digiuno. Quando voleva le coccole non le chiedeva, le esigeva. Se invece non le gradiva, non c’era verso di assestarle una carezza perché si scansava e, con l’unico occhio rimasto, lanciava occhiate sinistre. Più o meno come si guarderebbe la cacca di un piccione sul cofano di una macchina nuova. La padrona di casa è lei, ormai da anni.
Insomma, tutto ‘sto giro di parole per dimostrare che, quando non si ha un’adeguata intelligenza per gestirlo, il benessere rende stronzi anche gli animali.