Poco fa, l'inviato di Santoro in una piazza occupata dai Forconi ha dato voce ad uno dei manifestanti: un signore alto e pelato, infagottato dentro una giacca mimetica. Così ha spiegato la sua presenza al giornalista: "Sono un militare dell'esercito in congedo permanente, mi sono autorichiamato in servizio per difendere la mia Patria. Devo essere io ad intervenire contro chi la Patria la sta distruggendo". Alludeva ai politici, uniformandosi con un marchio autoritario ai canoni della protesta generalista di queste settimane.
Nel sentire quel tono e quei propositi raggelanti, mi è tornato alla mente un episodio vissuto personalmente due settimane prima, a Madrid.
Appoggiato alla parete di un ristorante di Calle del Carmen, aspetto che si liberi il tavolo da dieci persone contrattato col direttore di sala. Durante l'attesa mi incuriosisce la presenza di un signore baffuto, dall'aria bonaria, prodigo di pacche sulle spalle per il personale del ristorante, a sua volta deferente con l'ospite. Si vede, insomma, che è uno di casa.
Qualche minuto dopo me lo ritrovo seduto accanto, a pochi centimetri dal tavolo di cui la nostra compagnia aveva finalmente preso possesso. È solo.
"Siete italiani?"
"Sì. Veniamo dalla Sardegna".
Ci lancia un sorriso.
"Molti anni fa sono stato in Sardegna per frequentare un corso alla Brigata Sassari. Sapete, io sono un colonnello in congedo dell'esercito argentino, anche se i miei genitori erano piemontesi".
"Dunque ha combattuto nella guerra della Falkland?" gli domando sapendo di avere commesso una gaffe.
Puntualmente, lui me la fa notare: "No, io ho combattuto nella guerra della Islas Malvinas".
Gli spiego di aver servito la Patria alla Brigata e lui chiude la prima parte della nostra conversazione salutando col più classico "Fortza Paris!"
Qualche minuto dopo, ecco presentarsi al nostro tavolo il maître Pablo. Ci mostra una bottiglia di un pregiato vino argentino, spiegando che ad offrircela è il colonnello. Ringraziamo e ce la scoliamo, mentre la nostra reciproca conoscenza progredisce attraverso una chiacchierata sempre più fitta. Mi consegna un suo biglietto da visita: si chiama Roberto.
In breve, il colonnello ci racconta la sua vita. Dopo poche battute mi ha già classificato per comunista, ma il calmo fluire delle parole rende piacevole l'ascolto delle sue vicende terrene. La conversazione collettiva si trasforma in un confronto tra me e lui
"Quando è stato in Sardegna?"
"Era il 1980. Ero un ufficiale di Videla e venni mandato in Italia per tre mesi per seguire un corso alla Brigata Sassari. Conoscevo molti italiani che avevano rapporti con l'Argentina".
"Quindi lei ha partecipato al colpo di Stato militare?"
"Io ho servito la mia Patria impedendo che i terroristi la distruggessero".
"E delle Madri di Plaza de Mayo cosa pensa?"
"Sono le madri dei terroristi che volevano distruggere la mia Patria".
Mi interessano le sue conoscenze italiane e cerco di approfondire il tema.
"Ha conosciuto Licio Gelli, cui si attribuiva una partecipazione al golpe militare?
"No, non è vero che Gelli veniva in Argentina e che abbia avuto un ruolo nell'avvento dei colonnelli. Però conoscevo bene Umberto Ortolani"
"E di Papa Francesco che idea si è fatto?"
"Nessuna idea. Perché lo conosco personalmente e ci ho parlato un sacco di volte. Levatevi da testa che sia uno di sinistra e ricordatevi sempre che è un Gesuita".
Silenzio. Segue una lunga ed articolata spiegazione sull'insostenibile grado di corruzione dei regimi occidentali, compreso quello spagnolo che lo ospita. Auspica un ritorno al libero mercato che, secondo lui, è stato rovinato dalle interferenze degli apparati statali.
"Eppure - osservo io - molti economisti e sociologi fanno notare come, negli ultimi tempi, il sistema capitalista si regga paradossalmente grazie agli aiuti statali, senza i quali molte grandi aziende sarebbero già crollate".
"I sociologi? Nel mondo hanno la stessa importanza dei suonatori di chitarra".
Arriviamo alle conclusioni.
Domando cosa suggerisce di fare, il colonnello, per risollevare le sorti del pianeta.
"L'unico sistema è una dittatura militare. Non ci sono altre strade e vedrete che succederà".
La cena è finita. Si alza, stringe la mano a tutti e ci saluta calorosamente, accarezzando i nostri bambini. Racconta di un suo figlio omosessuale che vive col compagno in Francia.
"E lei, non torna in Argentina?"
"Non posso tornare in Argentina".
Prima di andarsene, mi poggia una mano sulla spalla:
"Sono un militare, ma non sono un fascista".
Nel sentire quel tono e quei propositi raggelanti, mi è tornato alla mente un episodio vissuto personalmente due settimane prima, a Madrid.
Appoggiato alla parete di un ristorante di Calle del Carmen, aspetto che si liberi il tavolo da dieci persone contrattato col direttore di sala. Durante l'attesa mi incuriosisce la presenza di un signore baffuto, dall'aria bonaria, prodigo di pacche sulle spalle per il personale del ristorante, a sua volta deferente con l'ospite. Si vede, insomma, che è uno di casa.
Qualche minuto dopo me lo ritrovo seduto accanto, a pochi centimetri dal tavolo di cui la nostra compagnia aveva finalmente preso possesso. È solo.
"Siete italiani?"
"Sì. Veniamo dalla Sardegna".
Ci lancia un sorriso.
"Molti anni fa sono stato in Sardegna per frequentare un corso alla Brigata Sassari. Sapete, io sono un colonnello in congedo dell'esercito argentino, anche se i miei genitori erano piemontesi".
"Dunque ha combattuto nella guerra della Falkland?" gli domando sapendo di avere commesso una gaffe.
Puntualmente, lui me la fa notare: "No, io ho combattuto nella guerra della Islas Malvinas".
Gli spiego di aver servito la Patria alla Brigata e lui chiude la prima parte della nostra conversazione salutando col più classico "Fortza Paris!"
Qualche minuto dopo, ecco presentarsi al nostro tavolo il maître Pablo. Ci mostra una bottiglia di un pregiato vino argentino, spiegando che ad offrircela è il colonnello. Ringraziamo e ce la scoliamo, mentre la nostra reciproca conoscenza progredisce attraverso una chiacchierata sempre più fitta. Mi consegna un suo biglietto da visita: si chiama Roberto.
In breve, il colonnello ci racconta la sua vita. Dopo poche battute mi ha già classificato per comunista, ma il calmo fluire delle parole rende piacevole l'ascolto delle sue vicende terrene. La conversazione collettiva si trasforma in un confronto tra me e lui
"Quando è stato in Sardegna?"
"Era il 1980. Ero un ufficiale di Videla e venni mandato in Italia per tre mesi per seguire un corso alla Brigata Sassari. Conoscevo molti italiani che avevano rapporti con l'Argentina".
"Quindi lei ha partecipato al colpo di Stato militare?"
"Io ho servito la mia Patria impedendo che i terroristi la distruggessero".
"E delle Madri di Plaza de Mayo cosa pensa?"
"Sono le madri dei terroristi che volevano distruggere la mia Patria".
Mi interessano le sue conoscenze italiane e cerco di approfondire il tema.
"Ha conosciuto Licio Gelli, cui si attribuiva una partecipazione al golpe militare?
"No, non è vero che Gelli veniva in Argentina e che abbia avuto un ruolo nell'avvento dei colonnelli. Però conoscevo bene Umberto Ortolani"
"E di Papa Francesco che idea si è fatto?"
"Nessuna idea. Perché lo conosco personalmente e ci ho parlato un sacco di volte. Levatevi da testa che sia uno di sinistra e ricordatevi sempre che è un Gesuita".
Silenzio. Segue una lunga ed articolata spiegazione sull'insostenibile grado di corruzione dei regimi occidentali, compreso quello spagnolo che lo ospita. Auspica un ritorno al libero mercato che, secondo lui, è stato rovinato dalle interferenze degli apparati statali.
"Eppure - osservo io - molti economisti e sociologi fanno notare come, negli ultimi tempi, il sistema capitalista si regga paradossalmente grazie agli aiuti statali, senza i quali molte grandi aziende sarebbero già crollate".
"I sociologi? Nel mondo hanno la stessa importanza dei suonatori di chitarra".
Arriviamo alle conclusioni.
Domando cosa suggerisce di fare, il colonnello, per risollevare le sorti del pianeta.
"L'unico sistema è una dittatura militare. Non ci sono altre strade e vedrete che succederà".
La cena è finita. Si alza, stringe la mano a tutti e ci saluta calorosamente, accarezzando i nostri bambini. Racconta di un suo figlio omosessuale che vive col compagno in Francia.
"E lei, non torna in Argentina?"
"Non posso tornare in Argentina".
Prima di andarsene, mi poggia una mano sulla spalla:
"Sono un militare, ma non sono un fascista".