Galleggiare, sospeso, tra aria e acqua, in quella linea instabile che delimita l’azzurro leggero dal blu profondo, come un minuscolo puntino adagiato tra due infiniti. Eccomi qui. Un essere insignificante, microscopico, immobile, tra aria e acqua.
Unica prova della mia esistenza: il respiro.
Respiro lento, in quel luogo magico in cui due universi si confondono e si mescolano, in quei dieci centimetri sopra la superficie in cui l’aria si colma di minuscole particelle liquide. Le sento sulla lingua, sul naso, vanno giù per la trachea, nei miei polmoni, facendo espandere il mio torace con un ritmo sempre più lento, sempre più profondo, all’unisono col lento respiro del mare. Sento questi pezzetti di mare che, attraverso gli alveoli, entrano nel mio sangue, arrivano nei miei tessuti, nelle mie cellule. Le mie estremità si dissolvono, i miei confini diventano labili. Sono aria, sono acqua; sono la linea di confine tra due infiniti che si sciolgono uno sull’altro. Sono instabilità pura, marginale, insignificante. Ecco, ora sono pronto, ora posso fermare il respiro, posso spingermi giù, nel blu profondo, sempre più giù, incontro all’inaspettato, all’oscuro, all’inatteso, al grande respiro silenzioso.
Ecco, questo è il mio mare, quello che mi mancava da morire quando vivevo nell’orribile, fottuta padania, ma anche nella bella e amichevole Londra. Non il mare delle vacanze, dei bagnetti e dell’abbronzatura.
Parlo del mare che si fa demonio e ti entra dentro, quello dell’incessante divenire, dell’incertezza, degli abissi senza confine; il mare dove c’è sempre qualcosa da scoprire oltre l’orizzonte, quello delle tempeste devastanti e della bellezza del perdersi, a vele spiegate, senza meta; quello delle onde che non si fermano sulla spiaggia ma frangono dritte dentro l’anima a demolire ogni certezza.
È il mare che impaurisce chi abita terre protette e intimi focolari, chi, pavido di bellezza e avido di ricchezze, consuma risorse e territorio per puro profitto, chi pensa che tutto sia governabile e monetizzabile, chi trasforma il mare da culla e crocevia di molteplici culture a tristi “acque nazionali”, armate, militarizzate, chiuse, ostili. Costoro, dalle loro roccaforti di razionalità e affollate solitudini, hanno demolito l’idea stessa d’Infinito trasformando tutto l’esistente in finito e consumabile. Troppo vili, troppo avidi e troppo sgraziati per spiegare le vele e prendere il largo con la semplicità di un incauto navigante.
È inutile negarlo, trasformato in enorme pattumiera dai nostri consumi smisurati, il mare sta morendo, e non è un fatto che riguarda solo gli equilibri ecologici e la salute della Terra. Col mare muore la percezione della nostra stessa identità di viventi; si spezzano definitivamente le radici che ci legano alla Natura come parte integrante della sua bellezza, per sentirci definitivamente relegati al tetro ruolo di morbo inestirpabile.
Scriveva Eraclito 2.500 anni fa:
“Dal cielo nasce l'acqua, dall'acqua nasce l'anima...è fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio ...è dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere, è paura, nemica e amica, è confine e infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo e oblio”
Col mare muore la speranza stessa dell’inaspettato, dell’incalcolabile, dell’alternativo al sistema dominante degli uomini portatori di certezze e di stabilità, dei mutanti dominati dal consumo vorace e dalla tristezza del profitto. Il marinaio australiano Ivan MacFayden solca l’Oceano tra Australia e Gappone, tra aria e acqua, e ci racconta l’orrore di gigantesche isole di immondizia, di enormi flotte e sofisticate navi di distruzione di massa per la pesca industriale, di acque radioattive e di nessun delfino, nessun delfino che segue la sua imbarcazione, nessun uccello, nessuna tartaruga, nessun essere vivente per centinaia di miglia. Il suo racconto suona come un requiem definitivo.
Col mare muore la nostra madre antica, il ventre della vita, il liquido amniotico primordiale, e insieme a lei muore per sempre la possibilità di terre sconosciute per incauti naviganti in cerca di silenzi e di nuovi territori dell’anima.
Alla fine, di cosa siamo fatti noi?
Per tre quarti d’acqua, lo dice la scienza,
il resto è solo respiro
raffiche di vento
sogni confusi in orizzonti luminosi
e vino forte,
danza
e figli da baciare
Per tre quarti d’acqua, lo dice la scienza,
il resto è solo respiro
Unica prova della mia esistenza: il respiro.
Respiro lento, in quel luogo magico in cui due universi si confondono e si mescolano, in quei dieci centimetri sopra la superficie in cui l’aria si colma di minuscole particelle liquide. Le sento sulla lingua, sul naso, vanno giù per la trachea, nei miei polmoni, facendo espandere il mio torace con un ritmo sempre più lento, sempre più profondo, all’unisono col lento respiro del mare. Sento questi pezzetti di mare che, attraverso gli alveoli, entrano nel mio sangue, arrivano nei miei tessuti, nelle mie cellule. Le mie estremità si dissolvono, i miei confini diventano labili. Sono aria, sono acqua; sono la linea di confine tra due infiniti che si sciolgono uno sull’altro. Sono instabilità pura, marginale, insignificante. Ecco, ora sono pronto, ora posso fermare il respiro, posso spingermi giù, nel blu profondo, sempre più giù, incontro all’inaspettato, all’oscuro, all’inatteso, al grande respiro silenzioso.
Ecco, questo è il mio mare, quello che mi mancava da morire quando vivevo nell’orribile, fottuta padania, ma anche nella bella e amichevole Londra. Non il mare delle vacanze, dei bagnetti e dell’abbronzatura.
Parlo del mare che si fa demonio e ti entra dentro, quello dell’incessante divenire, dell’incertezza, degli abissi senza confine; il mare dove c’è sempre qualcosa da scoprire oltre l’orizzonte, quello delle tempeste devastanti e della bellezza del perdersi, a vele spiegate, senza meta; quello delle onde che non si fermano sulla spiaggia ma frangono dritte dentro l’anima a demolire ogni certezza.
È il mare che impaurisce chi abita terre protette e intimi focolari, chi, pavido di bellezza e avido di ricchezze, consuma risorse e territorio per puro profitto, chi pensa che tutto sia governabile e monetizzabile, chi trasforma il mare da culla e crocevia di molteplici culture a tristi “acque nazionali”, armate, militarizzate, chiuse, ostili. Costoro, dalle loro roccaforti di razionalità e affollate solitudini, hanno demolito l’idea stessa d’Infinito trasformando tutto l’esistente in finito e consumabile. Troppo vili, troppo avidi e troppo sgraziati per spiegare le vele e prendere il largo con la semplicità di un incauto navigante.
È inutile negarlo, trasformato in enorme pattumiera dai nostri consumi smisurati, il mare sta morendo, e non è un fatto che riguarda solo gli equilibri ecologici e la salute della Terra. Col mare muore la percezione della nostra stessa identità di viventi; si spezzano definitivamente le radici che ci legano alla Natura come parte integrante della sua bellezza, per sentirci definitivamente relegati al tetro ruolo di morbo inestirpabile.
Scriveva Eraclito 2.500 anni fa:
“Dal cielo nasce l'acqua, dall'acqua nasce l'anima...è fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio ...è dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere, è paura, nemica e amica, è confine e infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo e oblio”
Col mare muore la speranza stessa dell’inaspettato, dell’incalcolabile, dell’alternativo al sistema dominante degli uomini portatori di certezze e di stabilità, dei mutanti dominati dal consumo vorace e dalla tristezza del profitto. Il marinaio australiano Ivan MacFayden solca l’Oceano tra Australia e Gappone, tra aria e acqua, e ci racconta l’orrore di gigantesche isole di immondizia, di enormi flotte e sofisticate navi di distruzione di massa per la pesca industriale, di acque radioattive e di nessun delfino, nessun delfino che segue la sua imbarcazione, nessun uccello, nessuna tartaruga, nessun essere vivente per centinaia di miglia. Il suo racconto suona come un requiem definitivo.
Col mare muore la nostra madre antica, il ventre della vita, il liquido amniotico primordiale, e insieme a lei muore per sempre la possibilità di terre sconosciute per incauti naviganti in cerca di silenzi e di nuovi territori dell’anima.
Alla fine, di cosa siamo fatti noi?
Per tre quarti d’acqua, lo dice la scienza,
il resto è solo respiro
raffiche di vento
sogni confusi in orizzonti luminosi
e vino forte,
danza
e figli da baciare
Per tre quarti d’acqua, lo dice la scienza,
il resto è solo respiro