Lingua? [Luca Ronchi]
La discussione sulla lingua sarda, anima Sardegnablogger da tempo e un po’ tutti stiamo contribuendo a renderla viva; ora ha toccato alcuni nodi dolorosi. E vale la pena andare fino in fondo. Roberto Bolognesi e Fiorenzo Caterini, il primo assolutamente competente in materia, essendo un linguista, il secondo sicuramente più competente di me, essendo un antropologo, sono scivolati in modo fecondo sul terreno della politica. E va benissimo così. Si stanno confrontando sul come votare alle prossime regionali, in relazione alla centralità della questione-lingua nei vari programmi elettorali.
Vorrei dire alcune cose in proposito, che mi salgono su dal colon, o dal fegato, non ho capito bene, e che si incastrano nel dibattito prendendo la rincorsa.
La lingua di un posto la immagino come la lingua che viene parlata dalle persone che vivono in quel posto. È una mia definizione e me ne assumo la responsabilità. Poi ci sono i canoni linguistici, su cui a volte è difficile trovare un accordo anche a causa della cattiva politica, che si inserisce nel dibattito e lo inquina, per ragioni elettorali e di distribuzione delle risorse. Però, una cosa è il canone, che immagino come un modello che a un certo punto viene ufficialmente “fotografato” e fissato su supporti fisici (carta, memorie digitali, apparato neurocognitivo di specialisti); altra cosa è la lingua che la gente di un luogo parla vivendo.
Ecco: che la lingua in esame sia l’Italiano, il Sardo, il Gallurese o altro, io, all’interno del dibattito, non riesco a non soffermarmi sulla gente che la parla, e che con quella lingua ha un rapporto biologico più che intellettuale o didattico.
E quella gente mi fa paura.
Mi fanno paura gli italiani, i sardi e i galluresi.
Mi fanno paura perché negli ultimi decenni (quelli che ho visto con i miei occhi) hanno (abbiamo) favorito la distruzione del proprio contesto vitale nei suoi vari aspetti: ecologico, sociale, politico, economico, culturale. Mi fanno paura e rabbia perché più stanno male (e in questo periodo stanno male) più sembrano votati alla mancanza di raziocinio e buonsenso, e alla esaltazione di quei comportamenti distruttivi il primo dei quali è l’assoluta incapacità, nella dimensione politica, di elaborare, riconoscere e votare una proposta in grado di dare un briciolo di speranza alla loro terra, che sia a forma di stivale, di impronta di Sandalo o di vecchio scarpone (non tanto la Gallura, ma l’area in cui si parla Gallurese ha questa forma: la sommità del collo è la linea del Coghinas, la suola è la costa che va da Santa Teresa a San Teodoro; le isole – come accade alla Sardegna e alla Sicilia rispetto al topos dello stivale, possono essere assimilate a pozzanghere o schizzi di fango lungo il cammino).
Mi dispiace per Roberto Bolognesi che mi tirerà una scarpa (appunto) al primo pranzo utile, e per Fiorenzo Caterini, che si sentirà afferrare per la caviglia e tirare giù in uno sprofondo di malumore (il mio malumore), ma le parabole esistenziali di quelle lingue, per quanto catastrofiche, sono al massimo un rigurgito, un rutto di acidità nella devastazione del metabolismo generale degli organismi cui appartengono, che sono L’Italia, la Sardegna e la Gallura. I grandi temi, e la lingua lo è, e gli uomini e le donne di buona volontà, che esistono ovunque e a tutti i livelli, possono veramente poco, se stanno dentro popoli che continuano a credere nel voto di scambio e nella raccomandazione, come cinquant’anni fa, a sinistra e a destra. Popoli dentro cui molti continuano a evocare Hitler e Mussolini e altri, di fronte a certe evocazioni, si mettono pure a ragionare e a discutere. Popoli che prima fanno marcire la politica facendosi rappresentare poco e male da alcuni dei peggiori, e poi corrono secondo loro ai ripari pompando l’antipolitica, come se il rimedio a una politica malata non fosse una politica sana, ma la rinuncia all’idea stessa che questa possa esistere.
È colpa mia eh, sia chiaro, non dei linguisti né degli specialisti in genere, se non riesco ad appassionarmi a quasi nulla in questo periodo, e quindi neanche al dibattito sulla lingua. È colpa della rabbia che mi sale per il fatto che tutta la bellezza che c’è, ce la stiamo giocando per piatti di lenticchie transgeniche, insapori, avariate e pure costose. Ci stiamo giocando la speranza di sentire che fra trent’anni avrà ancora senso parlare di Italia e di Sardegna. C’è la concreta possibilità che il più scaltro e basso dei pregiudicati, continui a occupare spazi che non coincidano con quelli di una cella, e le uniche alternative che riusciamo a proporre, come civiltà, sono governi di larghe intese finché dio (o Napolitano) vorranno. Anzi, per darmi il colpo di grazia, sicuro che arriverà anche a voi, ho il sospetto che, come già nel 2009… ma no, non lo dico. Non lo dico. E mi riservo la speranza che anche tacere su qualche malumore possa ogni tanto servire a qualcosa.
Finché sono lucido, vi prego, se siete in grado di convincermi che mi sbaglio, fatelo, o almeno provateci.
E ora vado in bagno e mi sciacquo la faccia, che mi sta salendo l’influenza e il mio malumore peggiora a vista d’occhio.
Scusate, vi prometto che appena mi passa, scrivo un sonetto.
La discussione sulla lingua sarda, anima Sardegnablogger da tempo e un po’ tutti stiamo contribuendo a renderla viva; ora ha toccato alcuni nodi dolorosi. E vale la pena andare fino in fondo. Roberto Bolognesi e Fiorenzo Caterini, il primo assolutamente competente in materia, essendo un linguista, il secondo sicuramente più competente di me, essendo un antropologo, sono scivolati in modo fecondo sul terreno della politica. E va benissimo così. Si stanno confrontando sul come votare alle prossime regionali, in relazione alla centralità della questione-lingua nei vari programmi elettorali.
Vorrei dire alcune cose in proposito, che mi salgono su dal colon, o dal fegato, non ho capito bene, e che si incastrano nel dibattito prendendo la rincorsa.
La lingua di un posto la immagino come la lingua che viene parlata dalle persone che vivono in quel posto. È una mia definizione e me ne assumo la responsabilità. Poi ci sono i canoni linguistici, su cui a volte è difficile trovare un accordo anche a causa della cattiva politica, che si inserisce nel dibattito e lo inquina, per ragioni elettorali e di distribuzione delle risorse. Però, una cosa è il canone, che immagino come un modello che a un certo punto viene ufficialmente “fotografato” e fissato su supporti fisici (carta, memorie digitali, apparato neurocognitivo di specialisti); altra cosa è la lingua che la gente di un luogo parla vivendo.
Ecco: che la lingua in esame sia l’Italiano, il Sardo, il Gallurese o altro, io, all’interno del dibattito, non riesco a non soffermarmi sulla gente che la parla, e che con quella lingua ha un rapporto biologico più che intellettuale o didattico.
E quella gente mi fa paura.
Mi fanno paura gli italiani, i sardi e i galluresi.
Mi fanno paura perché negli ultimi decenni (quelli che ho visto con i miei occhi) hanno (abbiamo) favorito la distruzione del proprio contesto vitale nei suoi vari aspetti: ecologico, sociale, politico, economico, culturale. Mi fanno paura e rabbia perché più stanno male (e in questo periodo stanno male) più sembrano votati alla mancanza di raziocinio e buonsenso, e alla esaltazione di quei comportamenti distruttivi il primo dei quali è l’assoluta incapacità, nella dimensione politica, di elaborare, riconoscere e votare una proposta in grado di dare un briciolo di speranza alla loro terra, che sia a forma di stivale, di impronta di Sandalo o di vecchio scarpone (non tanto la Gallura, ma l’area in cui si parla Gallurese ha questa forma: la sommità del collo è la linea del Coghinas, la suola è la costa che va da Santa Teresa a San Teodoro; le isole – come accade alla Sardegna e alla Sicilia rispetto al topos dello stivale, possono essere assimilate a pozzanghere o schizzi di fango lungo il cammino).
Mi dispiace per Roberto Bolognesi che mi tirerà una scarpa (appunto) al primo pranzo utile, e per Fiorenzo Caterini, che si sentirà afferrare per la caviglia e tirare giù in uno sprofondo di malumore (il mio malumore), ma le parabole esistenziali di quelle lingue, per quanto catastrofiche, sono al massimo un rigurgito, un rutto di acidità nella devastazione del metabolismo generale degli organismi cui appartengono, che sono L’Italia, la Sardegna e la Gallura. I grandi temi, e la lingua lo è, e gli uomini e le donne di buona volontà, che esistono ovunque e a tutti i livelli, possono veramente poco, se stanno dentro popoli che continuano a credere nel voto di scambio e nella raccomandazione, come cinquant’anni fa, a sinistra e a destra. Popoli dentro cui molti continuano a evocare Hitler e Mussolini e altri, di fronte a certe evocazioni, si mettono pure a ragionare e a discutere. Popoli che prima fanno marcire la politica facendosi rappresentare poco e male da alcuni dei peggiori, e poi corrono secondo loro ai ripari pompando l’antipolitica, come se il rimedio a una politica malata non fosse una politica sana, ma la rinuncia all’idea stessa che questa possa esistere.
È colpa mia eh, sia chiaro, non dei linguisti né degli specialisti in genere, se non riesco ad appassionarmi a quasi nulla in questo periodo, e quindi neanche al dibattito sulla lingua. È colpa della rabbia che mi sale per il fatto che tutta la bellezza che c’è, ce la stiamo giocando per piatti di lenticchie transgeniche, insapori, avariate e pure costose. Ci stiamo giocando la speranza di sentire che fra trent’anni avrà ancora senso parlare di Italia e di Sardegna. C’è la concreta possibilità che il più scaltro e basso dei pregiudicati, continui a occupare spazi che non coincidano con quelli di una cella, e le uniche alternative che riusciamo a proporre, come civiltà, sono governi di larghe intese finché dio (o Napolitano) vorranno. Anzi, per darmi il colpo di grazia, sicuro che arriverà anche a voi, ho il sospetto che, come già nel 2009… ma no, non lo dico. Non lo dico. E mi riservo la speranza che anche tacere su qualche malumore possa ogni tanto servire a qualcosa.
Finché sono lucido, vi prego, se siete in grado di convincermi che mi sbaglio, fatelo, o almeno provateci.
E ora vado in bagno e mi sciacquo la faccia, che mi sta salendo l’influenza e il mio malumore peggiora a vista d’occhio.
Scusate, vi prometto che appena mi passa, scrivo un sonetto.