Antonio Gramsci è morto non molto tempo fa, il 27 aprile del 1937, dopo undici anni di prigione, in Italia.
Ho in mano il testo di antropologia degli americani Schulz e Lavenda, un classico studiato in tutte le facoltà del mondo. Parlano del concetto di “egemonia” di Gramsci.
Pensate, uno dei più grandi pensatori del nostro secolo, ancora oggi letto e studiato in tutti il mondo, in tutte le facoltà universitarie e in diversi ambiti disciplinari, dall’antropologia alla filosofia alla politologia, che abbiamo fatto morire in carcere dopo undici anni di prigionia. Ucciso lentamente e senza nessuna pietà né per l’uomo né per il pensatore.
Ucciso in periodo di pace, durante il ventennio fascista.
Una cosa di una enormità esagerata.
Questo succedeva in quel ventennio, e oggi non ci si deve meravigliare se la cultura della democrazia e della libertà si fonda in opposizione a quel triste periodo storico.
Più ci si allontana da una idea di opposizione a quel periodo, più ci allontaniamo da una idea di democrazia, armonia civile, sviluppo sociale equilibrato.
Alla faccia di qualunque revisionismo furbo, di maniera e di comodo.
Nel frattempo, in Italia sono stati santificati due Papi, protagonisti del nostro secolo.
Soprattutto la santificazione di Wojtyla, a causa soprattutto della sua contiguità con il crudele regime fascista cileno di Pinochet, è stata discussa e ha sollevato alcune perplessità.
Penso che ciascuno di noi abbia i propri riferimenti spirituali e morali, e io non mi sento di sottrarre a nessuno il proprio. Se la comunità dei cattolici ritiene Wojtyla un santo, a me sta bene.
Da sardo, da laico, da democratico, da universalista, da amante della scienza e dell’armonia tra i popoli e le genti, mi tengo stretto, come riferimento morale e spirituale, il pensatore che da sardo non ha mai rinnegato la sua sardità, anzi ne ha fatto un valore, e che è stato sacrificato, quasi crocifisso, con una agonia infinita, dentro le patrie galere, combattendo ostinatamente, con la potentissima forza del pensiero, per la libertà e per i lavoratori, per le classi meno agiate e indifese, fino alla morte, senza mai rinnegare niente.
Però di una cosa sono convinto. Che noi, ancora oggi, un grande debito abbiamo nei confronti di quell’omino ingobbito che è marcito scrivendo quaderni in carcere. Molto dobbiamo a quella solitudine e a quell’intelligenza, non solo delle cose che possiamo dire in libertà, ma anche del piatto di minestra che, nonostante tutto, ci ritroviamo caldo sul nostro desco.
Ma la memoria degli uomini non sempre è riconoscente, e percorre altre e più facili strade.
A ciascuno, dunque, il suo santo.
Lo scrivo senza ironia.