Il culto ostentato dello spreco è una pratica rituale da tempo oggetto di studio da parte degli antropologi. Franz Boas aveva osservato, in una tribù di pellerossa della costa del nord del Pacifico, la distruzione rituale di beni di consumo, come canoe, tende, oggetti di artigianato anche di pregio, nel corso di grandi banchetti, festeggiamenti per occasioni importanti come, ad esempio, la nascita di un figlio. Ma questo rituale, nelle sue diverse forme, si è osservato un po’ in tutto il mondo. Nonostante la visione dell’accumulazione del capitale, così radicata nell’economia moderna di mercato, e la saggezza contadina che nulla doveva sprecare, nel nostro mondo civilizzato si accompagna ancora questo rituale, più manifesto nei luoghi deputati ad essere “fashion”, come la Costa Smeralda. Lo ha descritto molto bene uno studioso come Bachisio Bandinu nel suo libro “Narciso in vacanza”. Lo spreco di beni all’interno di contesti come i locali smeraldini, che promulgano una sorta di continua festa estiva, con costi esorbitanti sia per l’ingresso che per le consumazioni, evidenziano una ritualità che si avvicina al culto ostentato dello spreco tipico appunto di quelle tribù sperdute. Lo scopo è dimostrare agli altri la propria superiorità economica, al fine di evidenziare le proprie differenze, le proprie capacità di spesa. Mentre nel potlach osservato da Boas, alla fine, la cerimonia aveva un carattere socializzante, simile a quella del “dono”, come studiato da Mauss, nel caso della Costa Smeralda, invece, è l’esclusività che si ricerca, ovvero la distinzione tra il noi, inteso come comunità chiusa e sigillata di persone ammesse nel circo dei facoltosi, e il loro, che spesse volte coincide con una idea di popolazione locale, da tenere alla larga. C’è quindi una forma di moderno e sottile colonialismo determinato dalla ostentazione dello spreco, con tutte le deformazioni che la cultura coloniale produce, ivi compreso un senso di inferiorità, di complesso, su una parte della popolazione locale, che finisce per ammirare il carnefice e per adottare comportamenti imitativi. Un rituale, questo dello spreco, che contiene una componente denigratoria e di dispregio dell’altro, direttamente proporzionale al senso di compiacimento per la propria presunta superiorità. A questo rituale di spreco, si accompagnano infatti giudizi denigratori nei confronti degli esclusi, con ricorso ad insulti che richiamano aspetti del mondo agropastorale: pastori, pecore, capre. Allo stesso, modo, al rituale dello spreco, oltre gli insulti “agropastorali”, tipici di una comunità affetta da antropocentrismo ideologico, si accompagna l’antropocentrismo difensivo, con l’invocazione che “essere ricchi non è un reato”, difesa pronunciata, spesso, quando si tratta di pagare le tasse, che invece reato lo è. Ma a prescindere dalla integrazione o meno dei fatti che la legge stabilisce come rilevanti, occorre dire che, piuttosto, il rituale dello spreco, nei contesti occidentali di ricchezza prodotta a scapito dello sfruttamento di altri popoli che invece affrontano periodi di grave crisi e di conflitti con difficoltà di sopravvivenza vera e propria, rappresenta, sotto il profilo umano ed etico, una insopportabile sopraffazione, un abuso della coscienza, una squallida distorsione della morale dell’uomo. Il potlach Amerindo, fu proibito dalle autorità canadesi e americane, perché inutile. E per inutile, leggesi incomprensibile alla occidentale cultura razionale e materiale, che non è più in grado di cogliere i fatti simbolici e sacri più profondi, ormai residui solo in alcune remote popolazioni. Invece si consente, ai ricchi del pianeta, di spendere 75 mila euro per una borsetta fatta con pelli di animali sottratti al patrimonio di paesi poveri, o di spruzzare decine di migliaia di euro di champagne in ritrovi “chic”. Sono le contraddizione di questo “atomo opaco del male”, come lo definiva Montale. Che non sarebbe così opaco se ci fosse meno cialtroneria e meno ignoranza, e un po’ più di sensibilità. La quale, purtroppo, non si può comprare.