L'inviata di Mediaset mi punta il microfono all'altezza del naso, come fosse un fucile a canne mozze. Prima che il cameraman inizi a girare, la collega si spinge dove nessuno aveva mai osato.
"Devo presentarti come ambientalista? Tu sei un ambientalista, vero?"
"No. Io sono un giornalista. Iscritto all'Albo nazionale dei professionisti dal 2 marzo 2004".
Allora mi sono fermato un attimo a riflettere sui meccanismi che inducono il prossimo ad incasellarmi nella categoria "ambientalista". Allo stesso modo, anni fa, mi ero chiesto perché in molti mi chiamassero "Il Talebano". Non bastavano la mia barba ispida e corvina e i capelli rasati a tre millimetri per spiegarlo, non bastava l'affinità somatica col prototipo dell'arabo fondamentalista.
Io ero e tuttora sono il "Il Talebano" perché vengo visto come interprete integralista di principi cari ad una stretta minoranza popolare, salvo poi essere rivalutati quando accadono le tragedie. Solo a quel punto gli inviati di Rai, Mediaset e La 7 trovano sensazionale e inconcepibile che l'interesse spicciolo dello speculatore immobiliare, spinto dalla complicità con l'amministratore pubblico, prevalga sul buon senso ed il rispetto per la vita. In quel momento, spuntano attorno a me mille altri talebani. Tutti chiedono a gran voce trasparenza e reclamano un colpevole da impiccare sulla pubblica piazza.
Io non sono una persona particolarmente intelligente. Non lo dico per sminuirmi o apparire modesto, lo dico perché è così. E se anche qualcuno sostiene che io me la cavi discretamente nella scrittura, sappiate che la capacità nello scrivere non ha alcuna relazione con il quoziente intellettivo. Occorre sensibilità, piuttosto.
In questi anni ho scritto un sacco di cose ovvie, persino banali, comprensibili a chiunque. Eppure tanto è bastato per meritarmi l'appellativo di "talebano". Pur essendo figlio di un camionista che ha rifornito di blocchi di cemento e sabbia da costruzione tutti i cantieri della Costa Smeralda, numeri ed evidenze mi hanno convinto che l'economia di un territorio non possa basarsi esclusivamente sui cantieri: non bisogna essere dei geni per comprendere che la terra su cui conficcare delle fondamenta prima o poi finisce, non bisogna essere scienziati neppure per capire che la relazione tra uomo e territorio è una faccenda delicata, specie se quel territorio deve le sue fortune alla ricchezza ambientale e certi eccessi rischiano di comprometterlo.
Basta un minimo di coscienza civica per capire che gli interessi di pochi non devono calpestare i diritti dei più e che ogni grande scelta, in qualunque angolo di mondo, debba essere completamente trasparente e partecipata.
Se lo capisco io, dovrebbero capirlo tutti. Invece no. Perché l'aspettativa di un utile immediato, il più delle volte, prevale su una saggia gestione delle risorse del creato.
In questi anni ho scritto che se il titolare di un'impresa di costruzioni diventa amministratore pubblico e gli viene concessa la facoltà di decidere a suo gusto il rilascio di concessioni edilizie e la programmazione urbanistica, è molto probabile che faccia il suo interesse e non quello della comunità. Magari è pure probabile che se gli salta in testa di costruire sulle sponde di un fiume, chi dovrebbe fermarlo faccia finta di niente. Anche perché non di rado accade che chi costruisce e chi dovrebbe fermarlo siano la stessa persona.
Non si può essere arbitri e giocatori nello stesso tempo. Garantisce pari condizioni a tutti i concorrenti un mercato nel quale qualcuno di questi concorrenti abbia dalla sua anche i poteri e le facoltà dell'amministratore pubblico?
È possibile immaginare il superamento della monocultura del mattone se chi ha il compito di delineare gli scenari economici di questo pezzo di Sardegna vive di solo mattone?
La gestione privatistica del territorio non si limita agli affari del cemento.
Non mi stancherò mai di raccontarlo. Nove anni fa, scoprii lo scempio delle spiagge della Costa Smeralda e ne scrissi per settimane sul giornale del quale ero al tempo redattore. Succedeva che, ad ogni stagione, migliaia di metri cubi di sabbia e poseidonia venissero rimossi con le ruspe e gettati in una discarica abusiva, miliardi di granelli sostituiti da sabbia importata da cave di altre zone della Sardegna. Ovviamente, senza alcuna autorizzazione.
Mi sembrava incredibile che si potesse tollerare un'enormità di questo genere quando, per qualche bottiglietta di sabbia rubata dai turisti in altri lidi, scattavano denunce e insistenti campagne giornalistiche. Non era una questione di lana caprina, era la devastazione di un bene fondamentale per l'economia della Gallura. Era la demolizione di luoghi patrimonio di tutti. Pianificata perché, nelle aspettative da cartolina del turista tipo, i filamenti scuri delle alghe non sono contemplate.
Per i periti della Procura di Tempio, in quella discarica erano stati stoccati diecimila metri cubi di sabbia marina. Un'esperta della materia, la biologa Marina Pala, avvertì che quei trattamenti massacranti avrebbero fatto scomparire le spiagge della Costa Smeralda nel giro di dieci anni, eliminando uno dei punti forti dell'economia turistica.
Immaginavo un'ondata di indignazione. Invece divenne una battaglia solo mia e di pochi altri. E quando il Consiglio comunale se ne occupò, condannò con toni severi il danno d'immagine provocato dal giornalista. Il danno lo avevo fatto io, non le ruspe.
In quel Consiglio comunale, il capogruppo di maggioranza era uno dei responsabili di quella devastazione. Ci furono anche processi e condanne, ma nessuno ne seppe mai nulla.
Un'altra volta ricordo che scrissi di un amministratore del mio paese, titolare di milionaria impresa edile, che partecipò al bando di gara per l'assegnazione di lotti nella zona artigianale, messi in palio dal Comune ad un prezzo politico. Ne venne assegnato uno a lui, uno alla moglie ed un altro ad un cognato. Ne ricavai un pezzo sul giornale e lui mi chiese un colloquio. Sulla scrivania del suo ufficio, quando lo incontrai, allineò i biglietti da visita dei tre avvocati che lo assistevano, poi iniziò a parlarmi delle sue cordiali relazioni con il mio editore del tempo, Sergio Zuncheddu.
Minacce, come tante ne ho sentite. Col tempo mi fanno sempre meno impressione. Non c'e' nulla di eroico nel fare giornalismo cercando di evitare i compromessi, è solo una forma di egoismo come un'altra. Serve a saziare la propria coscienza. Però ritengo che una società non possa essere davvero libera se non ha qualcuno che liberamente la racconta.
Quando lessi il fascicolo dell'inchiesta Dirty Money, condotta dalla Direzione investigativa antimafia di Milano, rimasi sconvolto dal grado di penetrazione della 'ndrangheta calabrese a Olbia, dalla sua capacità di mettere in relazione spietati criminali con l'imprenditoria locale.
Erano pagine scioccanti: una cosca del crotonese crea attraverso dei prestanome una finanziaria in Svizzera, poi la chiude truffando gli ignari investitori, quindi decide di investire in Gallura i proventi della frode. Gli investigatori lo vengono a sapere quando trovano planimetrie su diverse proprietà immobiliari di Olbia in una cassaforte della finta finanziaria di Lugano.
La cosca, nel frattempo, ha sguinzagliato in città boss ed emissari e questi trattano con uomini d'affari e politici. Trattano il cambio di destinazione urbanistica di cinquecento ettari nei pressi della discarica di Spiritu Santu, programmano quattrocento appartamenti a Santa Mariedda e l'acquisto di un albergo a Pittulongu.
Raggelo quando, dal fascicolo, scopro che l'uomo di punta della cosca ad Olbia è un certo Salvatore: si era pure candidato alle elezioni, a Olbia, ed un paio di volte mi aveva chiamato inspiegabilmente sul cellulare, con toni allusivi e modi spicci che sin dal primo momento non mi erano piaciuti. Leggendo il suo nome sull'ordinanza capisco tutto.
Quando la bomba esplode, il consigliere comunale d'opposizione Marco Varrucciu chiede che se ne parli nell'assemblea civica. La proposta viene accolta, ma la discussione si chiude in mezzora: il capogruppo di maggioranza Settimo Nizzi ritiene che si stia mettendo in cattiva luce il nome della città per le fantasie di un magistrato e non sia il caso di approfondire la questione. Gli altri si adeguano e del caso non si parlerà mai più. Se non su qualche giornale e sui blog.
Una volta, una giovane ed ambiziosa politica olbiese mi chiese di organizzare un dibattito sull'infiltrazione della criminalità organizzata a Olbia. Iniziai a contattare esperti per proporli come relatori, poi lei si consultò con i suoi capi e non se ne fece nulla. Lasciò semplicemente cadere la cosa, senza neppure una parola.
Quando Andrea Viola denunciò comprovate infiltrazioni della mafia siciliana negli appalti pubblici di Golfo Aranci, la giunta comunale giunse al paradosso di denunciarlo per diffamazione. E quando il giudice archiviò la denuncia, Andrea dovette acquistare una pagina intera de La Nuova Sardegna per far sapere a tutti che quello sfregio era stato cancellato.
Ora voi osserverete che ho messo assieme mille cose alla rinfusa e obietterete che sia difficile trovare una relazione tra i vari elementi. Forse è vero. La linea che unisce questi puntini è tracciata dai mille ostacoli tra la verità e chi la cerca, quella nebbia così fitta da impedirti di veder nitidamente i fatti. C'e' sempre un interesse superiore ed oscuro, c'e' sempre qualcuno che vuole nasconderlo.
Affari che apparentemente non ci riguardano fin quando non finiscono, di traverso, sui percorsi delle nostre vite.
Per tutto quel che ho appena scritto non mi offendo, quando mi chiamano "Il Talebano".
"Devo presentarti come ambientalista? Tu sei un ambientalista, vero?"
"No. Io sono un giornalista. Iscritto all'Albo nazionale dei professionisti dal 2 marzo 2004".
Allora mi sono fermato un attimo a riflettere sui meccanismi che inducono il prossimo ad incasellarmi nella categoria "ambientalista". Allo stesso modo, anni fa, mi ero chiesto perché in molti mi chiamassero "Il Talebano". Non bastavano la mia barba ispida e corvina e i capelli rasati a tre millimetri per spiegarlo, non bastava l'affinità somatica col prototipo dell'arabo fondamentalista.
Io ero e tuttora sono il "Il Talebano" perché vengo visto come interprete integralista di principi cari ad una stretta minoranza popolare, salvo poi essere rivalutati quando accadono le tragedie. Solo a quel punto gli inviati di Rai, Mediaset e La 7 trovano sensazionale e inconcepibile che l'interesse spicciolo dello speculatore immobiliare, spinto dalla complicità con l'amministratore pubblico, prevalga sul buon senso ed il rispetto per la vita. In quel momento, spuntano attorno a me mille altri talebani. Tutti chiedono a gran voce trasparenza e reclamano un colpevole da impiccare sulla pubblica piazza.
Io non sono una persona particolarmente intelligente. Non lo dico per sminuirmi o apparire modesto, lo dico perché è così. E se anche qualcuno sostiene che io me la cavi discretamente nella scrittura, sappiate che la capacità nello scrivere non ha alcuna relazione con il quoziente intellettivo. Occorre sensibilità, piuttosto.
In questi anni ho scritto un sacco di cose ovvie, persino banali, comprensibili a chiunque. Eppure tanto è bastato per meritarmi l'appellativo di "talebano". Pur essendo figlio di un camionista che ha rifornito di blocchi di cemento e sabbia da costruzione tutti i cantieri della Costa Smeralda, numeri ed evidenze mi hanno convinto che l'economia di un territorio non possa basarsi esclusivamente sui cantieri: non bisogna essere dei geni per comprendere che la terra su cui conficcare delle fondamenta prima o poi finisce, non bisogna essere scienziati neppure per capire che la relazione tra uomo e territorio è una faccenda delicata, specie se quel territorio deve le sue fortune alla ricchezza ambientale e certi eccessi rischiano di comprometterlo.
Basta un minimo di coscienza civica per capire che gli interessi di pochi non devono calpestare i diritti dei più e che ogni grande scelta, in qualunque angolo di mondo, debba essere completamente trasparente e partecipata.
Se lo capisco io, dovrebbero capirlo tutti. Invece no. Perché l'aspettativa di un utile immediato, il più delle volte, prevale su una saggia gestione delle risorse del creato.
In questi anni ho scritto che se il titolare di un'impresa di costruzioni diventa amministratore pubblico e gli viene concessa la facoltà di decidere a suo gusto il rilascio di concessioni edilizie e la programmazione urbanistica, è molto probabile che faccia il suo interesse e non quello della comunità. Magari è pure probabile che se gli salta in testa di costruire sulle sponde di un fiume, chi dovrebbe fermarlo faccia finta di niente. Anche perché non di rado accade che chi costruisce e chi dovrebbe fermarlo siano la stessa persona.
Non si può essere arbitri e giocatori nello stesso tempo. Garantisce pari condizioni a tutti i concorrenti un mercato nel quale qualcuno di questi concorrenti abbia dalla sua anche i poteri e le facoltà dell'amministratore pubblico?
È possibile immaginare il superamento della monocultura del mattone se chi ha il compito di delineare gli scenari economici di questo pezzo di Sardegna vive di solo mattone?
La gestione privatistica del territorio non si limita agli affari del cemento.
Non mi stancherò mai di raccontarlo. Nove anni fa, scoprii lo scempio delle spiagge della Costa Smeralda e ne scrissi per settimane sul giornale del quale ero al tempo redattore. Succedeva che, ad ogni stagione, migliaia di metri cubi di sabbia e poseidonia venissero rimossi con le ruspe e gettati in una discarica abusiva, miliardi di granelli sostituiti da sabbia importata da cave di altre zone della Sardegna. Ovviamente, senza alcuna autorizzazione.
Mi sembrava incredibile che si potesse tollerare un'enormità di questo genere quando, per qualche bottiglietta di sabbia rubata dai turisti in altri lidi, scattavano denunce e insistenti campagne giornalistiche. Non era una questione di lana caprina, era la devastazione di un bene fondamentale per l'economia della Gallura. Era la demolizione di luoghi patrimonio di tutti. Pianificata perché, nelle aspettative da cartolina del turista tipo, i filamenti scuri delle alghe non sono contemplate.
Per i periti della Procura di Tempio, in quella discarica erano stati stoccati diecimila metri cubi di sabbia marina. Un'esperta della materia, la biologa Marina Pala, avvertì che quei trattamenti massacranti avrebbero fatto scomparire le spiagge della Costa Smeralda nel giro di dieci anni, eliminando uno dei punti forti dell'economia turistica.
Immaginavo un'ondata di indignazione. Invece divenne una battaglia solo mia e di pochi altri. E quando il Consiglio comunale se ne occupò, condannò con toni severi il danno d'immagine provocato dal giornalista. Il danno lo avevo fatto io, non le ruspe.
In quel Consiglio comunale, il capogruppo di maggioranza era uno dei responsabili di quella devastazione. Ci furono anche processi e condanne, ma nessuno ne seppe mai nulla.
Un'altra volta ricordo che scrissi di un amministratore del mio paese, titolare di milionaria impresa edile, che partecipò al bando di gara per l'assegnazione di lotti nella zona artigianale, messi in palio dal Comune ad un prezzo politico. Ne venne assegnato uno a lui, uno alla moglie ed un altro ad un cognato. Ne ricavai un pezzo sul giornale e lui mi chiese un colloquio. Sulla scrivania del suo ufficio, quando lo incontrai, allineò i biglietti da visita dei tre avvocati che lo assistevano, poi iniziò a parlarmi delle sue cordiali relazioni con il mio editore del tempo, Sergio Zuncheddu.
Minacce, come tante ne ho sentite. Col tempo mi fanno sempre meno impressione. Non c'e' nulla di eroico nel fare giornalismo cercando di evitare i compromessi, è solo una forma di egoismo come un'altra. Serve a saziare la propria coscienza. Però ritengo che una società non possa essere davvero libera se non ha qualcuno che liberamente la racconta.
Quando lessi il fascicolo dell'inchiesta Dirty Money, condotta dalla Direzione investigativa antimafia di Milano, rimasi sconvolto dal grado di penetrazione della 'ndrangheta calabrese a Olbia, dalla sua capacità di mettere in relazione spietati criminali con l'imprenditoria locale.
Erano pagine scioccanti: una cosca del crotonese crea attraverso dei prestanome una finanziaria in Svizzera, poi la chiude truffando gli ignari investitori, quindi decide di investire in Gallura i proventi della frode. Gli investigatori lo vengono a sapere quando trovano planimetrie su diverse proprietà immobiliari di Olbia in una cassaforte della finta finanziaria di Lugano.
La cosca, nel frattempo, ha sguinzagliato in città boss ed emissari e questi trattano con uomini d'affari e politici. Trattano il cambio di destinazione urbanistica di cinquecento ettari nei pressi della discarica di Spiritu Santu, programmano quattrocento appartamenti a Santa Mariedda e l'acquisto di un albergo a Pittulongu.
Raggelo quando, dal fascicolo, scopro che l'uomo di punta della cosca ad Olbia è un certo Salvatore: si era pure candidato alle elezioni, a Olbia, ed un paio di volte mi aveva chiamato inspiegabilmente sul cellulare, con toni allusivi e modi spicci che sin dal primo momento non mi erano piaciuti. Leggendo il suo nome sull'ordinanza capisco tutto.
Quando la bomba esplode, il consigliere comunale d'opposizione Marco Varrucciu chiede che se ne parli nell'assemblea civica. La proposta viene accolta, ma la discussione si chiude in mezzora: il capogruppo di maggioranza Settimo Nizzi ritiene che si stia mettendo in cattiva luce il nome della città per le fantasie di un magistrato e non sia il caso di approfondire la questione. Gli altri si adeguano e del caso non si parlerà mai più. Se non su qualche giornale e sui blog.
Una volta, una giovane ed ambiziosa politica olbiese mi chiese di organizzare un dibattito sull'infiltrazione della criminalità organizzata a Olbia. Iniziai a contattare esperti per proporli come relatori, poi lei si consultò con i suoi capi e non se ne fece nulla. Lasciò semplicemente cadere la cosa, senza neppure una parola.
Quando Andrea Viola denunciò comprovate infiltrazioni della mafia siciliana negli appalti pubblici di Golfo Aranci, la giunta comunale giunse al paradosso di denunciarlo per diffamazione. E quando il giudice archiviò la denuncia, Andrea dovette acquistare una pagina intera de La Nuova Sardegna per far sapere a tutti che quello sfregio era stato cancellato.
Ora voi osserverete che ho messo assieme mille cose alla rinfusa e obietterete che sia difficile trovare una relazione tra i vari elementi. Forse è vero. La linea che unisce questi puntini è tracciata dai mille ostacoli tra la verità e chi la cerca, quella nebbia così fitta da impedirti di veder nitidamente i fatti. C'e' sempre un interesse superiore ed oscuro, c'e' sempre qualcuno che vuole nasconderlo.
Affari che apparentemente non ci riguardano fin quando non finiscono, di traverso, sui percorsi delle nostre vite.
Per tutto quel che ho appena scritto non mi offendo, quando mi chiamano "Il Talebano".