Era la mia prima volta e la felicità era tanta, sbarcato dall'aereo nel primo pomeriggio, aspettavo curioso di vedere se, almeno al tramonto, il Mar Rosso fosse veramente rosso.
Stravaccato a prua del catamarano, godevo di quella piacevole brezza marina dopo un pomeriggio davvero infuocato passato alla ricerca del natante che avrebbe dovuto accogliermi e che non mi aveva aspettato solo perché, all'aeroporto, chi era venuto a prendermi aveva tenuto in mano ma al contrario il foglio con su scritto il mio nome, ed io, euforico per quel viaggio, l'avevo forse scambiato per una scritta in arabo.
Ma tutto si risolse, ci eravamo trovati infine.
Mancava poco all'ora x, quando il rumore dei motori riprese a cantare, “lo vedrai domani il tramonto, ora abbiamo un'altra immersione da fare, il tuo battesimo con gli squali” mi gridò Andrea dal ponte di comando, ed io corsi ad aiutare Enza nelle manovre a poppa, ritirare le cime e assicurare la passerella, partenza.
In me un misto di euforia e fifa combattevano ad armi pari, gli squali, sarà mica pericoloso?
In mezzora raggiungemmo il punto di ancoraggio ed in pochi minuti eravamo già sul gommone pronti ed attrezzati per l'immersione, intorno uno spettacolo di reef dai mille colori che, una volta immersi, diventavano forme e presenze fantastiche.
Miriadi di pesci di vari colori e specie, di spugne e coralli anche pericolosi, ma erano gli squali ad occupare i miei pensieri. Un fondale di venti metri nel punto più alto, poca roba, quindi sufficientemente illuminato senza l'ausilio di torce, ma nel frattempo imbruniva la sera.
Mi posizionai vicino ad una grossa pietra che pareva un grosso cerebro, facendo attenzione a non toccare nulla perché ero privo di guanti protettivi, poi lo spettacolo. Dapprima due squaletti di un metro e mezzo di lunghezza, appaiati, ci vennero incontro ondeggianti col muso all'ingiù insieme ad uno strano pesce San Pietro che corse subito in tana. Sembravano incuriositi da quelle strane figure tutte nere che sbuffavano bolle d'aria, poi, di colpo, li vedemmo accelerare ed allontanarsi in fretta da noi. Un branco possente di grossi barracuda oscurò la scena, fecero un largo giro sopra le nostre teste per poi allontanarsi anche loro, un enorme pesce Napoleone ci osservava perplesso, ed ecco arrivare lui, un esemplare di smeriglio di tutto rispetto, almeno quattro metri di imponente architettura marina, a seguire altri, non molto più piccoli, alla fine erano otto in tutto.
Nei retini tenevamo dei pezzi di pesce e dei totani, loro ne sentivano l'odore, disposti in un circolo che andava via via restringendosi ci si avvicinavano sempre più, e sempre più mi batteva il cuore.
Munito di guanto di ferro, Andrea cominciò ad offrire loro qualche assaggino, graditissimi. Piano piano cominciavano a prendere confidenza, io molto meno. Poi mi decisi, estrassi dal mio retino parte della pelle di una cernia che era stata la cena del giorno prima in barca e la feci sventolare, volevo mollarla ed allontanarmi, ma pensai che meno mi sarei mosso, meno rischi avrei corso e, senza nemmeno rendermene conto, restai lì, fermo con quel chilozzo di pelle in mano. Lo squalo più grosso distava da me una decina di metri, mi guardava, poi cominciò ad avvicinarsi, ed io a sbiancare, cercavo di evitare di guardarlo negli occhi, ma era più forte di me, non ci riuscivo. Mentre si avvicinava la mia paura scemava, forse soppiantata da pura follia pensavo. Tre metri, due metri, un metro. Più si avvicinava e più rallentava, come a volermi e volersi rassicurare, il mio braccio fermo, alzato con quella bandiera scura di cernia in mano, ora me la stacca, ora mi trancia un braccio, ora mi divora, ma restavo fermo. Sino a che non l'ebbi faccia a faccia e, con una delicatezza indescrivibile, senza spalancare troppo le fauci ma abbastanza da farmi vedere ben bene le due file di acuminati denti che incoronavano quella enorme bocca, addentò dolcemente quel boccone senza strapparmelo di mano, senza sfiorarla.
Lasciai la presa e riuscii a carezzargli il dorso, a toccare quella pinna dorsale così tremendamente bella, mi lasciò fare, ingurgitò il boccone in pochi attimi, poi si rifece avanti. Ed allora un totano, un altro pezzo di cernia e poi altri ancora, ad ogni boccone una carezza per lui e qualche quintale di brividi per me, fra l'emozione che cresceva e la paura che piano piano spariva.
Era quasi buio, quando accendemmo le torce e cominciammo la risalita, a parete, sotto gli occhi del branco che restava sul fondo a perlustrare qualche avanzo dimenticato, per poi sparire nell'oscurità.
Quel giorno avevo imparato quanto può essere bella “la bestia”, quando non ha le nostre sembianze.
Stravaccato a prua del catamarano, godevo di quella piacevole brezza marina dopo un pomeriggio davvero infuocato passato alla ricerca del natante che avrebbe dovuto accogliermi e che non mi aveva aspettato solo perché, all'aeroporto, chi era venuto a prendermi aveva tenuto in mano ma al contrario il foglio con su scritto il mio nome, ed io, euforico per quel viaggio, l'avevo forse scambiato per una scritta in arabo.
Ma tutto si risolse, ci eravamo trovati infine.
Mancava poco all'ora x, quando il rumore dei motori riprese a cantare, “lo vedrai domani il tramonto, ora abbiamo un'altra immersione da fare, il tuo battesimo con gli squali” mi gridò Andrea dal ponte di comando, ed io corsi ad aiutare Enza nelle manovre a poppa, ritirare le cime e assicurare la passerella, partenza.
In me un misto di euforia e fifa combattevano ad armi pari, gli squali, sarà mica pericoloso?
In mezzora raggiungemmo il punto di ancoraggio ed in pochi minuti eravamo già sul gommone pronti ed attrezzati per l'immersione, intorno uno spettacolo di reef dai mille colori che, una volta immersi, diventavano forme e presenze fantastiche.
Miriadi di pesci di vari colori e specie, di spugne e coralli anche pericolosi, ma erano gli squali ad occupare i miei pensieri. Un fondale di venti metri nel punto più alto, poca roba, quindi sufficientemente illuminato senza l'ausilio di torce, ma nel frattempo imbruniva la sera.
Mi posizionai vicino ad una grossa pietra che pareva un grosso cerebro, facendo attenzione a non toccare nulla perché ero privo di guanti protettivi, poi lo spettacolo. Dapprima due squaletti di un metro e mezzo di lunghezza, appaiati, ci vennero incontro ondeggianti col muso all'ingiù insieme ad uno strano pesce San Pietro che corse subito in tana. Sembravano incuriositi da quelle strane figure tutte nere che sbuffavano bolle d'aria, poi, di colpo, li vedemmo accelerare ed allontanarsi in fretta da noi. Un branco possente di grossi barracuda oscurò la scena, fecero un largo giro sopra le nostre teste per poi allontanarsi anche loro, un enorme pesce Napoleone ci osservava perplesso, ed ecco arrivare lui, un esemplare di smeriglio di tutto rispetto, almeno quattro metri di imponente architettura marina, a seguire altri, non molto più piccoli, alla fine erano otto in tutto.
Nei retini tenevamo dei pezzi di pesce e dei totani, loro ne sentivano l'odore, disposti in un circolo che andava via via restringendosi ci si avvicinavano sempre più, e sempre più mi batteva il cuore.
Munito di guanto di ferro, Andrea cominciò ad offrire loro qualche assaggino, graditissimi. Piano piano cominciavano a prendere confidenza, io molto meno. Poi mi decisi, estrassi dal mio retino parte della pelle di una cernia che era stata la cena del giorno prima in barca e la feci sventolare, volevo mollarla ed allontanarmi, ma pensai che meno mi sarei mosso, meno rischi avrei corso e, senza nemmeno rendermene conto, restai lì, fermo con quel chilozzo di pelle in mano. Lo squalo più grosso distava da me una decina di metri, mi guardava, poi cominciò ad avvicinarsi, ed io a sbiancare, cercavo di evitare di guardarlo negli occhi, ma era più forte di me, non ci riuscivo. Mentre si avvicinava la mia paura scemava, forse soppiantata da pura follia pensavo. Tre metri, due metri, un metro. Più si avvicinava e più rallentava, come a volermi e volersi rassicurare, il mio braccio fermo, alzato con quella bandiera scura di cernia in mano, ora me la stacca, ora mi trancia un braccio, ora mi divora, ma restavo fermo. Sino a che non l'ebbi faccia a faccia e, con una delicatezza indescrivibile, senza spalancare troppo le fauci ma abbastanza da farmi vedere ben bene le due file di acuminati denti che incoronavano quella enorme bocca, addentò dolcemente quel boccone senza strapparmelo di mano, senza sfiorarla.
Lasciai la presa e riuscii a carezzargli il dorso, a toccare quella pinna dorsale così tremendamente bella, mi lasciò fare, ingurgitò il boccone in pochi attimi, poi si rifece avanti. Ed allora un totano, un altro pezzo di cernia e poi altri ancora, ad ogni boccone una carezza per lui e qualche quintale di brividi per me, fra l'emozione che cresceva e la paura che piano piano spariva.
Era quasi buio, quando accendemmo le torce e cominciammo la risalita, a parete, sotto gli occhi del branco che restava sul fondo a perlustrare qualche avanzo dimenticato, per poi sparire nell'oscurità.
Quel giorno avevo imparato quanto può essere bella “la bestia”, quando non ha le nostre sembianze.