Una giovane ricercatrice universitaria di una disciplina umanistica, ha partecipato, recentemente, ad un dibattito pubblico insieme a ricercatori di diversi campi di studio, sentendosi ripetere, a proposito dei fondi da assegnare alla ricerca, che con la cultura non si mangia. Lo dicevano giovani ricercatori di formazione tecnica, come agronomi, economisti, giuristi.
Certo, tiravano acqua al loro mulino, date soldi a noi piuttosto che a loro. Ma credo che questa idea formalista della cultura nella funzione dell’economia, sia preponderante anche nella politica economica di questi anni, tanto è vero che, in periodo di vacche magre, i primi tagli vengono fatti proprio alla cultura. Si sa, la politica, con le sue scadenze elettorali ravvicinate, preferisce scelte che abbiano un riscontro immediato, facilmente percepibili dagli elettori, piuttosto che prospettive di lungo termine che producono benefici col tempo. Meglio una strada asfaltata oggi che rimediare alla dispersione scolastica domani. Però questa visione della inutilità economica della cultura sta diventando preoccupante.
Negli anni ’60, successivi alla ricostruzione del dopoguerra, l’Italia si trovò a vivere il periodo del cosiddetto boom economico, che da nazione distrutta e sconfitta nella seconda guerra mondiale giunse ad essere la sesta (e per un breve periodo la quinta), potenza industrializzata del mondo, dietro Usa, Giappone, Germania e Francia, e al pari dell’Inghilterra, cioè della nazione che aveva inventato la rivoluzione industriale. L’Italia, senza materie prime, e senza aver mai avuto colonie di un certo rilievo, si ritrovò, in pochi anni, grazie a quel boom, a rivaleggiare con le più potenti economie mondiali, tutte nazioni di tradizione coloniale e che potevano vantare, appunto, a nostra differenza, enormi risorse e materie prime da usufruire. Certo, quella crescita tumultuosa, non consentì al nostro paese di risolvere gli annosi problemi sociali che ancora ci trasciniamo e che con il tempo si stanno accentuando. Ma problemi sociali a parte, come era stato possibile un miracolo simile? Il miracolo dell’Italia era il prodotto di una serie di congiunture favorevoli, dal piano Marshall all’apertura dei mercati mondiali, alla possibilità di usufruire dei braccianti agricoli del sud alla nascente industria, chimica, meccanica e siderurgica. La caratteristica economica peculiare era la presenza di un tessuto di medie e piccole imprese che, grazie al Made in Italy, si imponeva nei mercati mondiali producendo una grande crescita dell’esportazione. Il Made in Italy, insomma, si imponeva nel mondo e diventava il marchio col maggior plusvalore esistente. Un giorno un mio amico tedesco mi spiegò molto bene la potenza del Made in Italy: “vedi” mi disse, afferrando il primo oggetto che gli capitò a tiro, una caffettiera, “se questa cosa si produce in Cina, noi tedeschi la paghiamo due euro, se in Germania, 5 euro, se si produce in Italia, la paghiamo 10 euro”. Semplice no? Ma cos’è che rende così costosa la stessa identica caffettiera italiana? “perché voi avete Michelangelo”, mi rispose l’amico tedesco.
Molto semplice. Il mondo garantisce un plusvalore ai prodotti italiani, perché abbiamo avuto Michelangelo. Cioè abbiamo quella cosa che si chiama lunga e gloriosa tradizione culturale, che dall’antica Roma prosegue nel medioevo con i conventi che salvavano dall’oblio l’antico sapere greco, passando per la letteratura dell’Umanesimo, per il grande periodo artistico del Rinascimento, per giungere infine al Romanticismo e al Verismo dell’800 e al Neorealismo del secolo scorso.
E anche i successi nella meccanica speciale, come grandi gru che sollevano i container nei porti di mezzo mondo, o la pistola italiana in dotazione ai più importanti corpi di polizia del mondo, cosi come le opere di architettura a di ingegneria civile, affondano la loro tradizione nei disegni di Leonardo da Vinci, ovvero in un epoca dove senso del bello e del funzionale, arte e tecnica, erano la stessa cosa.
Viviamo nel mondo dell’immagine, e come sanno bene gli economisti, l’immagine promuove i prodotti, promuove l’economia. Senza Michelangelo e Leonardo, che immagine avrebbe l’Italia? Le corna di Berlusconi nei convegni internazionali? La mondezza delle nostre città? Le scuole che cadono a pezzi? Invece, per fortuna, l’immagine che ancora sopravvive, sempre più faticosamente,
è quella delle città d’arte, dei monumenti, delle chiese, dei musei, è quella dei chiaroscuri di Caravaggio, dei concerti di Vivaldi, dell’opera lirica, è quella della vecchia 500, capolavoro insuperato del design, o della Hepburn e Gregory Peck che girano, in Vespa, tra i monumenti di Roma in Vacanze Romane.
Ma questa tradizione, questa immagine ereditata dai secoli, rischia di sbiadirsi con il tempo se non viene sostenuta, se non vi sono politiche d’impresa, di protezione dei marchi italiani, di promozione del Made in Italy, e se, soprattutto, non viene incentivata l’arte e la cultura, cioè la migliore cosa che gli italiani sanno fare e che tutto il mondo riconosce.
E rilancio, su questo punto. Se la classe dirigente italiana di questi anni avesse avuto una cultura umanistica e scientifica più robusta, forse oggi le nostre aziende non sarebbero state svendute al miglior offerente. Ed è triste che questa classe dirigente, manageriale e politica, non abbia ancora capito tutto questo. Ed è ancora più triste che così la pensino dei giovani ricercatori universitari.
La cultura si mangia, altroché, e non solo. Al contrario: senza cultura non si mangia, soprattutto in Italia.
Certo, tiravano acqua al loro mulino, date soldi a noi piuttosto che a loro. Ma credo che questa idea formalista della cultura nella funzione dell’economia, sia preponderante anche nella politica economica di questi anni, tanto è vero che, in periodo di vacche magre, i primi tagli vengono fatti proprio alla cultura. Si sa, la politica, con le sue scadenze elettorali ravvicinate, preferisce scelte che abbiano un riscontro immediato, facilmente percepibili dagli elettori, piuttosto che prospettive di lungo termine che producono benefici col tempo. Meglio una strada asfaltata oggi che rimediare alla dispersione scolastica domani. Però questa visione della inutilità economica della cultura sta diventando preoccupante.
Negli anni ’60, successivi alla ricostruzione del dopoguerra, l’Italia si trovò a vivere il periodo del cosiddetto boom economico, che da nazione distrutta e sconfitta nella seconda guerra mondiale giunse ad essere la sesta (e per un breve periodo la quinta), potenza industrializzata del mondo, dietro Usa, Giappone, Germania e Francia, e al pari dell’Inghilterra, cioè della nazione che aveva inventato la rivoluzione industriale. L’Italia, senza materie prime, e senza aver mai avuto colonie di un certo rilievo, si ritrovò, in pochi anni, grazie a quel boom, a rivaleggiare con le più potenti economie mondiali, tutte nazioni di tradizione coloniale e che potevano vantare, appunto, a nostra differenza, enormi risorse e materie prime da usufruire. Certo, quella crescita tumultuosa, non consentì al nostro paese di risolvere gli annosi problemi sociali che ancora ci trasciniamo e che con il tempo si stanno accentuando. Ma problemi sociali a parte, come era stato possibile un miracolo simile? Il miracolo dell’Italia era il prodotto di una serie di congiunture favorevoli, dal piano Marshall all’apertura dei mercati mondiali, alla possibilità di usufruire dei braccianti agricoli del sud alla nascente industria, chimica, meccanica e siderurgica. La caratteristica economica peculiare era la presenza di un tessuto di medie e piccole imprese che, grazie al Made in Italy, si imponeva nei mercati mondiali producendo una grande crescita dell’esportazione. Il Made in Italy, insomma, si imponeva nel mondo e diventava il marchio col maggior plusvalore esistente. Un giorno un mio amico tedesco mi spiegò molto bene la potenza del Made in Italy: “vedi” mi disse, afferrando il primo oggetto che gli capitò a tiro, una caffettiera, “se questa cosa si produce in Cina, noi tedeschi la paghiamo due euro, se in Germania, 5 euro, se si produce in Italia, la paghiamo 10 euro”. Semplice no? Ma cos’è che rende così costosa la stessa identica caffettiera italiana? “perché voi avete Michelangelo”, mi rispose l’amico tedesco.
Molto semplice. Il mondo garantisce un plusvalore ai prodotti italiani, perché abbiamo avuto Michelangelo. Cioè abbiamo quella cosa che si chiama lunga e gloriosa tradizione culturale, che dall’antica Roma prosegue nel medioevo con i conventi che salvavano dall’oblio l’antico sapere greco, passando per la letteratura dell’Umanesimo, per il grande periodo artistico del Rinascimento, per giungere infine al Romanticismo e al Verismo dell’800 e al Neorealismo del secolo scorso.
E anche i successi nella meccanica speciale, come grandi gru che sollevano i container nei porti di mezzo mondo, o la pistola italiana in dotazione ai più importanti corpi di polizia del mondo, cosi come le opere di architettura a di ingegneria civile, affondano la loro tradizione nei disegni di Leonardo da Vinci, ovvero in un epoca dove senso del bello e del funzionale, arte e tecnica, erano la stessa cosa.
Viviamo nel mondo dell’immagine, e come sanno bene gli economisti, l’immagine promuove i prodotti, promuove l’economia. Senza Michelangelo e Leonardo, che immagine avrebbe l’Italia? Le corna di Berlusconi nei convegni internazionali? La mondezza delle nostre città? Le scuole che cadono a pezzi? Invece, per fortuna, l’immagine che ancora sopravvive, sempre più faticosamente,
è quella delle città d’arte, dei monumenti, delle chiese, dei musei, è quella dei chiaroscuri di Caravaggio, dei concerti di Vivaldi, dell’opera lirica, è quella della vecchia 500, capolavoro insuperato del design, o della Hepburn e Gregory Peck che girano, in Vespa, tra i monumenti di Roma in Vacanze Romane.
Ma questa tradizione, questa immagine ereditata dai secoli, rischia di sbiadirsi con il tempo se non viene sostenuta, se non vi sono politiche d’impresa, di protezione dei marchi italiani, di promozione del Made in Italy, e se, soprattutto, non viene incentivata l’arte e la cultura, cioè la migliore cosa che gli italiani sanno fare e che tutto il mondo riconosce.
E rilancio, su questo punto. Se la classe dirigente italiana di questi anni avesse avuto una cultura umanistica e scientifica più robusta, forse oggi le nostre aziende non sarebbero state svendute al miglior offerente. Ed è triste che questa classe dirigente, manageriale e politica, non abbia ancora capito tutto questo. Ed è ancora più triste che così la pensino dei giovani ricercatori universitari.
La cultura si mangia, altroché, e non solo. Al contrario: senza cultura non si mangia, soprattutto in Italia.