Fu solo fortuna?
Nella storia dello sport, la vittoria alle Olimpiadi invernali di Lillheammer nello short track dell’australiano Bradbury viene considerata, in assoluto, come quella frutto delle più incredibili e fortunose coincidenze. Pensate che in Australia hanno ormai coniato un motto, “fare alla Bradbury”, per indicare la riuscita fortunosa e miracolosa di qualsiasi cosa.
La scena è resa celebre in Italia dai commenti fuori campo di un gruppo di comici, la Gialappa’s Band, che ridicolizzano l’atleta con battute sarcastiche.
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Bradbury, nei quarti di finale, passa il turno grazie alla squalifica di un atleta che ne aveva spinto un altro fuori pista. In semifinale ne cadono due e lui giunge secondo. Incredibile, Bradbury va in finale, dove si ritrovano 5 atleti, anziché i 4 previsti, per la riammissione di uno degli atleti caduto in semifinale con una discutibile decisione dei giudici che non sembrano esenti da un certo favoritismo.
Sono 5 ma in realtà sembrano 4, dato che l’australiano resta avulso da una competizione che schiera dei grandi campioni in una finale combattutissima e di straordinario livello tecnico.
Accade dunque il miracolo: all’ultima curva 3 atleti, lottando tra loro a limite del regolamento e forse oltre, si agganciano e cadono, il quarto ci rovina sopra, e Bradbury, restato a distanza di sicurezza, trionfa.
Una clamorosa, pazzesca, incredibile, anche se simpatica, ingiustizia sportiva.
Fu solo fortuna?
Io ci ho visto anche altro.
Prendiamo, dunque, quella giovane promessa sempre dello short track che, dopo aver vinto, da giovanissimo, diverse medaglie in competizioni mondiali, ebbe la sfortuna, durante una gara, di trovarsi, dopo una caduta, con la lama tagliente del pattino di un avversario sopra l’arteria femorale. L’atleta nell’occasione rischiò la vita, 4 litri di sangue persi e 111 punti di sutura, e una lunghissima fisioterapia per recuperare la muscolatura della gamba devastata e tornare a gareggiare. La giovane promessa ci impiegò due lunghi anni per tornare quasi ai suoi livelli quando, durante un allenamento, per evitare di tranciare con i pattini un compagno caduto davanti, lo saltava rocambolescamente fratturandosi due vertebre cervicali. Il pattinatore rischio la paralisi, ma grazie alla volontà, con molti sacrifici e determinazione, dopo due anni, riprese persino a pattinare. La carriera del non più giovane atleta sembrava segnata, gli sponsor lo abbandonarono, i tecnici lo sconsigliarono di proseguire, i genitori, preoccupati per la sua salute, lo invitarono a cercarsi un lavoro meno rischioso.
Tuttavia, menomato nel fisico e nello spirito, provò ugualmente a proseguire la sua carriera, con molta fatica, perché non era più in grado di reggere pesanti carichi di allenamento e neppure l’equilibrio era più lo stesso.
Tuttavia, grazie alla sua caparbietà e con sacrifici inumani, riuscì lo stesso a qualificarsi per le Olimpiadi di Lillhehammer.
E qui inizia una storia che non è più sarcastica e ridicola, ma è fatta di umiltà, di intelligenza tattica, e anche, soprattutto, di correttezza. Oltre che, naturalmente, di determinazione.
Perché, spesso, raccontare una storia senza conoscere gli antefatti, ci fa capire solo un lato della vita, magari il più scialbo e il più superficiale.
E la storia completa di Steven Bradbury non è così sciocca e ridanciana come ce l’hanno voluta descrivere. E ci ricorda che, in fin dei conti, si può anche sfuggire, con un po’ di fortuna, ad un destino crudele. Ma solo volendolo davvero con tutte le forze.
Che fortuna e sfortuna non sono proprio cieche, ma solo un po’ miopi..