La Siria, l’alluvione, gli U2.
di Fiorenzo Caterini.
La condivisione del dolore indotto da un eccesso di immedesimazione involontaria è un atto che contiene, in sé, tutto l’egoismo e l’altruismo del mondo. Parlarne serve, aiuta a sputarlo fuori, quel dolore, a polverizzarlo e condividerlo con altri, che ciascuno se ne prende un poco in grembo. E’ insopportabile la vista di un genitore, e di un padre come io sono, con un figlio, un bambino esanime. Forse sono più fortunati gli insensibili che sentono i popoli altri lontani, e non scatta il meccanismo dell’immedesimazione, che è quello che ti turba, che ti frega e ti porta ad immaginarti con il tuo pargolo in braccio, un attimo maledetto, lampo che scacci subito, via dalla testa, ma che, troppo tardi, ti apre una falla nella mente, un varco velenoso dove affoga istinto e rabbia, impotenza per questo mondo assurdo, mondo sconvolgente, allucinato. Poi ti tradisce, subdola, l’immagine di quel padre, nell’alluvione, a Olbia, che non voleva sopravvivere alla figlioletta, affogata nell’auto finita nel canale con la mamma. Una visione insopportabile che non si riesce neppure a raccontare in parole, neppure a materializzare, solo a rimuovere.
Gli oltre 200 bambini morti in Siria per colpa di scontri che sono di puro potere economico e politico, e che vedono anche i paesi Occidentali recitare un ruolo da protagonista, restano un numero statistico fino a che non si para davanti agli occhi una foto come questa, di un padre smarrito nell’inferno con il suo immobile fagottino imbiancato in braccio. Per non parlare della Palestina, per non parlare del Congo, per non parlare e basta, per non parlare. Allora il pensiero rifugge e si rifugia nei sotterfugi sperimentati del proprio ego, scappa e ancora sfugge, si nasconde, cerca ragione in questa follia, non la trova, si allontana dalle zone d’ombra della propria mente. Una vecchia canzone degli U2, “One”, riverbera nella mente, come culla desolata. Chi la ricorda? Parte con pochi accordi di chitarra, poi la voce, cauta, pacata, prosegue, con sequenze di note e parole che sembrano comporre dei cerchi concentrici, come presente e passato che si confondono; c’è una tensione, un inseguimento verso qualcosa di illusorio, la ricerca di una sintesi, di una ferita da curare con la forza dell’amore, dolore ed umiliazione, e vergogna; infine la canzone si avvia verso la fine con un crescendo che culmina in una specie di estasi straziante, quasi dolorosa, come di una rottura insanabile. Canzone che fu votata, anni fa, da una giuria qualificata, come la più bella canzone d’amore di tutti i tempi. Note che ti circondano e ti stordiscono con amore e dolcezza. E infatti i fidanzatini altro non fanno che condividersela a vicenda su internet, con baci, cuori e altri ammiccamenti sciocchi e amorevoli. Quelle cose che fanno gli innamorati, insomma, e che li rende tanto teneri e un po’ incoscienti. Ma poi scopri che il percorso laterale del pensiero non ti ha portato verso quella canzone per caso, che quelle note armoniose non erano un rifugio tanto per scacciare lo spettro della colpa e del dolore, no, ma per ricordarti della tua immedesimazione, dalla quale non c’è scampo. Perché, in realtà, e questo gli innamorati non lo sanno, “One” degli U2 (dopo anni di ricerche e di discussioni pare si sia capito) è si una canzone d’amore, ma di un amore straniante, tormentato, e narra proprio di un distacco tra un padre e un figlio, che non riescono a trovare una condivisione di valori e di idee. Quanto è difficile, oggi, instaurare un rapporto umano positivo tra padri e figli. E’ una ricerca interiore continua, un adeguarsi ai tempi, un restare esempio forte, tracciando una strada tra sterpi e rovi, e nello stesso tempo non facendo mancare affetto e presenza. Una missione difficile e continua, un lavoro di costanza ed equilibrio tra amore e ruolo. Vedo i miei figli crescere e mi domando, ancora, se ho fatto bene, se non li ho viziati, se sono stato troppo molle, o troppo duro, severo, se sono stato presente nel momento del bisogno, o al contrario invadente. Mi domando sempre se ho fatto il giusto, se faccio cose buone e giuste, e cosa farò poi. Poi rivedo quella foto, e svaniscono tutte queste cure e premure. Afferro i miei cuccioli e li stringo forte. Io posso fare questa cosa così bella, così straziante, e saziarci d’amore fino a scoppiarne. Sono fortunato, penso, sono fortunati, penso. In fin dei conti l’ingiustizia e la sofferenza, la cecità della stirpe umana è serva del caso, è servita a mani basse e sparpagliata ingiustamente nel mondo. Si potrebbe farne a meno, ma la natura umana è dunque questa, si può solo farne ammenda, un crocifisso dentro un aula sorda, ingoiare eucaristie infinite, e sperare nel tempo che forse ci redimerà, e sperare ancora e ancora in qualche insignificante barlume di condivisibile consapevolezza. Non so trovare altro pretesto, non riesco a formulare miglior scusa per godermi i baci e il calore di queste mie creature senza rimpianto, senza sentirmi a disagio per non essere riuscito a consegnare loro un mondo migliore di questo.
di Fiorenzo Caterini.
La condivisione del dolore indotto da un eccesso di immedesimazione involontaria è un atto che contiene, in sé, tutto l’egoismo e l’altruismo del mondo. Parlarne serve, aiuta a sputarlo fuori, quel dolore, a polverizzarlo e condividerlo con altri, che ciascuno se ne prende un poco in grembo. E’ insopportabile la vista di un genitore, e di un padre come io sono, con un figlio, un bambino esanime. Forse sono più fortunati gli insensibili che sentono i popoli altri lontani, e non scatta il meccanismo dell’immedesimazione, che è quello che ti turba, che ti frega e ti porta ad immaginarti con il tuo pargolo in braccio, un attimo maledetto, lampo che scacci subito, via dalla testa, ma che, troppo tardi, ti apre una falla nella mente, un varco velenoso dove affoga istinto e rabbia, impotenza per questo mondo assurdo, mondo sconvolgente, allucinato. Poi ti tradisce, subdola, l’immagine di quel padre, nell’alluvione, a Olbia, che non voleva sopravvivere alla figlioletta, affogata nell’auto finita nel canale con la mamma. Una visione insopportabile che non si riesce neppure a raccontare in parole, neppure a materializzare, solo a rimuovere.
Gli oltre 200 bambini morti in Siria per colpa di scontri che sono di puro potere economico e politico, e che vedono anche i paesi Occidentali recitare un ruolo da protagonista, restano un numero statistico fino a che non si para davanti agli occhi una foto come questa, di un padre smarrito nell’inferno con il suo immobile fagottino imbiancato in braccio. Per non parlare della Palestina, per non parlare del Congo, per non parlare e basta, per non parlare. Allora il pensiero rifugge e si rifugia nei sotterfugi sperimentati del proprio ego, scappa e ancora sfugge, si nasconde, cerca ragione in questa follia, non la trova, si allontana dalle zone d’ombra della propria mente. Una vecchia canzone degli U2, “One”, riverbera nella mente, come culla desolata. Chi la ricorda? Parte con pochi accordi di chitarra, poi la voce, cauta, pacata, prosegue, con sequenze di note e parole che sembrano comporre dei cerchi concentrici, come presente e passato che si confondono; c’è una tensione, un inseguimento verso qualcosa di illusorio, la ricerca di una sintesi, di una ferita da curare con la forza dell’amore, dolore ed umiliazione, e vergogna; infine la canzone si avvia verso la fine con un crescendo che culmina in una specie di estasi straziante, quasi dolorosa, come di una rottura insanabile. Canzone che fu votata, anni fa, da una giuria qualificata, come la più bella canzone d’amore di tutti i tempi. Note che ti circondano e ti stordiscono con amore e dolcezza. E infatti i fidanzatini altro non fanno che condividersela a vicenda su internet, con baci, cuori e altri ammiccamenti sciocchi e amorevoli. Quelle cose che fanno gli innamorati, insomma, e che li rende tanto teneri e un po’ incoscienti. Ma poi scopri che il percorso laterale del pensiero non ti ha portato verso quella canzone per caso, che quelle note armoniose non erano un rifugio tanto per scacciare lo spettro della colpa e del dolore, no, ma per ricordarti della tua immedesimazione, dalla quale non c’è scampo. Perché, in realtà, e questo gli innamorati non lo sanno, “One” degli U2 (dopo anni di ricerche e di discussioni pare si sia capito) è si una canzone d’amore, ma di un amore straniante, tormentato, e narra proprio di un distacco tra un padre e un figlio, che non riescono a trovare una condivisione di valori e di idee. Quanto è difficile, oggi, instaurare un rapporto umano positivo tra padri e figli. E’ una ricerca interiore continua, un adeguarsi ai tempi, un restare esempio forte, tracciando una strada tra sterpi e rovi, e nello stesso tempo non facendo mancare affetto e presenza. Una missione difficile e continua, un lavoro di costanza ed equilibrio tra amore e ruolo. Vedo i miei figli crescere e mi domando, ancora, se ho fatto bene, se non li ho viziati, se sono stato troppo molle, o troppo duro, severo, se sono stato presente nel momento del bisogno, o al contrario invadente. Mi domando sempre se ho fatto il giusto, se faccio cose buone e giuste, e cosa farò poi. Poi rivedo quella foto, e svaniscono tutte queste cure e premure. Afferro i miei cuccioli e li stringo forte. Io posso fare questa cosa così bella, così straziante, e saziarci d’amore fino a scoppiarne. Sono fortunato, penso, sono fortunati, penso. In fin dei conti l’ingiustizia e la sofferenza, la cecità della stirpe umana è serva del caso, è servita a mani basse e sparpagliata ingiustamente nel mondo. Si potrebbe farne a meno, ma la natura umana è dunque questa, si può solo farne ammenda, un crocifisso dentro un aula sorda, ingoiare eucaristie infinite, e sperare nel tempo che forse ci redimerà, e sperare ancora e ancora in qualche insignificante barlume di condivisibile consapevolezza. Non so trovare altro pretesto, non riesco a formulare miglior scusa per godermi i baci e il calore di queste mie creature senza rimpianto, senza sentirmi a disagio per non essere riuscito a consegnare loro un mondo migliore di questo.