Sono appena rientrato da Roma. La mia Roma ha sempre diversi sentieri e diverse musiche che le girano intorno: da Piazza Navona a Primavalle, tra via Fani e via Caetani, dalla fermata del 46 barrato e quegli sprazzi di vita tra la Garbatella e i Fori Imperiali. Perché Roma è così: tua. Ma non proprio. E non sempre. E, in questi giorni, è avvolta da una strana bellezza: amante e nemica, solitaria e triste, pronta alle lacrime. Quelle del tassista che non si lamenta più del traffico, ma tra un semaforo e l’altro mi racconta di suo figlio e dell’impossibilità di trovargli un lavoro. Non tanto il posto fisso agognato da quel borghese piccolo piccolo di Alberto Sordi. Ma almeno un attimo di dignità. Quando lo saluto mi ringrazia della chiacchierata e mi dice una cosa apparentemente insignificante: “me auguro che vince ‘a granne bellezza”. Gli chiedo il perché e lui, con un sorriso lento e solitario come questa città, risponde : “armeno se parla de Roma, ormai qua i romani nun ce stanno più”. E, pensando al film di Sorrentino ho deciso di camminare nel silenzio di Via Margutta, ad imprimere i colori e i suoni di quella strada apparentemente fuori dal mondo. Non ci passa più nessuno. Solo qualche piccolo negozio, un bar e un ristorante. Nient’altro. I romani “nun ce stanno più”. A Piazza Vittorio i negozi sono tutti dei cinesi. A Trastevere, nei ristoranti, mi accolgono gli indiani, i rumeni, sorrisi aperti e disponibili. Ma non è Roma. Quella mia Roma, ridondante e forte, un po’ eccessiva e un po’ puttana. Ma vera. Quella Roma papalina, ansimante tra i rumori e i silenzi di una politica avvolta da matasse indescrivibile di parole. Passare a Botteghe Oscure o Piazza del Gesù e non vedere nessuno che si sofferma, nessuno che ricorda, nessuno che comprenda. La Roma dei palazzi. Quella grigia e materialista intrisa nell’incenso e nell’arte. Roma abbandonata e quasi dimenticata. Spolpata degli affetti, amante dimenticata. Ho percorso il Tevere osservando il muoversi dell’acqua. Non riesce ad andare “lento lento”. Ha un altro movimento. Che non mi appartiene. E scompare, tra i ricordi, l’isola Tiberina, il ghetto degli ebrei, i luoghi dolci e sommessi. I miei luoghi. Dove vedevo Ottiero Ottieri, Pasolini, dove sorridevo all’idea del picche nicche di Moravia, a Carlo Verdone, a Montesano, a Mastroianni, a Fellini. A quella strana e immensa bellezza di una città madre e mai matrigna. Alla quale tutto si perdona. Sono passato per via del Corso e ho approfittato per vedere la mostra di Modigliani e i suoi pittori, amici maledetti. I suoi quadri immensi e incommensurabili, quelle donne dal collo lungo e senza occhi. Come Roma. Che osserva e non ti guarda, ti abbraccia e non ti sente, ti ama e non ti ascolta. Una strana e stridente bellezza. La mia Roma. Tra Fontana di Trevi e pineta Sacchetti ad aspettare un autobus che non passa. A guardare gli occhi di questa città e vederci il mare. Questo, tra le calde lacrime perdute, è quello che dolcemente appare. Roma. La grande bellezza.