Una delle più grandi teste del Novecento, Wittgenstein, raccontava che le riflessioni migliori riusciva ad impostarle se le sue mani, e una parte della testa, erano impegnate a pelare patate. A me capita la stessa cosa a un livello –diciamo- leggermente inferiore, quando lavo i piatti.
Sono giorni che cerco di farmi un’idea di quello che accade in Ucraina. Mi sono andato a leggere un po’ di notizie qua e là ma le mie conoscenze sono ancora scarsine. Anche la mia comprensione. Ma è un tentativo che non vorrei abbandonare. Vediamo di cosa stiamo parlando.
Innanzitutto i morti, gente che nel momento in cui si è esposta per chiedere qualcosa di vitale, ha smesso di vivere. Poi i feriti. Basta una pallottola nel fianco, o perdere un dito, o tutti i denti, per rimanere legati per sempre a una richiesta di libertà durata magari lo spazio di un pomeriggio. Ti esponi, ti colpiscono e sei segnato a vita.
Poi c’è il potere. Dietro tanti morti, quando non c’è la natura, c’è sempre uno smisurato potere.
Poi ci sono le costanti storiche, quelle istanze che curvano attorno a sé lo spazio e il tempo, costringendo generazioni e nazioni a occuparsi, per secoli, sempre della stessa cosa: in questo caso, l’impossibilità per la Russia di rinunciare ad un’interfaccia sul Mediterraneo. Non solo: anche il desiderio degli Stati Uniti di tagliare fuori la Russia dal Mediterraneo. Il Mar Nero, per semplicità, lo considero un pezzo di Mediterraneo.
Poi c’è il gas, e basterebbe questo per costringerci a riflettere sulle nostre responsabilità, anche per quello che succede a Kiev in queste ore, per la nostra fame patologica di energia.
Una cosa credo non ci sia, anche se ce la raccontano lo stesso, ed è la divisione di quel mondo tra bene e male. O meglio, c’è, ma non è lo spartiacque tra chi vuole l’Ucraina in Europa e chi non la vuole.
Io continuo a pensare che il cambiamento e la resistenza al cambiamento lavorino in perenne tensione e non mi scandalizzo: l’equilibrio che viene fuori da questa tensione è la vita. Il problema è l’uso delle armi, come sempre. Le idee non sparano. Il primo che in un teatro del genere usa un’arma, il primo che la porta sulla scena, il primo che la evoca, il primo che la pensa come necessaria, costui ha ottime possibilità di essere dalla parte del male. Se esiste un’arma, esisterà anche, in qualche appunto di Dio, la traiettoria del proiettile che va dalla bocca di quell’arma a un certo essere umano. Non è detto che questo essere umano, nel momento in cui sentirà il suo petto aprirsi, desideri l’Ucraina in Europa. È sicuro invece che desideri stare al mondo.
Poi c’è la convivenza forzata tra popoli, perché l’Ucraina è anche questo; una cosa che nel Novecento abbiamo visto spesso e che sappiamo come può andare a finire
E poi, lasciate che lo dica ancora una volta, il potere. Quello di chi resiste al cambiamento e quello di chi, seguendo altri calcoli, e dall’esterno, preme per quel cambiamento.
In mezzo c’è gente che chiede una storia diversa e ci mette la faccia, nel senso del naso, dei denti da rompere, della gola che entra nel mirino.
Tornando a Wittgenstein e alle patate, mentre lavavo i piatti mi è tornata in mente l’idea di tale Von Balthasar, secondo cui l’inferno esiste ma è probabilmente vuoto.
Un cazzo. L’inferno è pieno di gente ancora viva. Gente che spara, gente che ordina di sparare, gente che muove altra gente come se non ci fosse il rischio di spari. E chi si contende un popolo che rischia i denti per la libertà, fa di tutto per meritarsi l’inferno. Compresi noi.
Sono giorni che cerco di farmi un’idea di quello che accade in Ucraina. Mi sono andato a leggere un po’ di notizie qua e là ma le mie conoscenze sono ancora scarsine. Anche la mia comprensione. Ma è un tentativo che non vorrei abbandonare. Vediamo di cosa stiamo parlando.
Innanzitutto i morti, gente che nel momento in cui si è esposta per chiedere qualcosa di vitale, ha smesso di vivere. Poi i feriti. Basta una pallottola nel fianco, o perdere un dito, o tutti i denti, per rimanere legati per sempre a una richiesta di libertà durata magari lo spazio di un pomeriggio. Ti esponi, ti colpiscono e sei segnato a vita.
Poi c’è il potere. Dietro tanti morti, quando non c’è la natura, c’è sempre uno smisurato potere.
Poi ci sono le costanti storiche, quelle istanze che curvano attorno a sé lo spazio e il tempo, costringendo generazioni e nazioni a occuparsi, per secoli, sempre della stessa cosa: in questo caso, l’impossibilità per la Russia di rinunciare ad un’interfaccia sul Mediterraneo. Non solo: anche il desiderio degli Stati Uniti di tagliare fuori la Russia dal Mediterraneo. Il Mar Nero, per semplicità, lo considero un pezzo di Mediterraneo.
Poi c’è il gas, e basterebbe questo per costringerci a riflettere sulle nostre responsabilità, anche per quello che succede a Kiev in queste ore, per la nostra fame patologica di energia.
Una cosa credo non ci sia, anche se ce la raccontano lo stesso, ed è la divisione di quel mondo tra bene e male. O meglio, c’è, ma non è lo spartiacque tra chi vuole l’Ucraina in Europa e chi non la vuole.
Io continuo a pensare che il cambiamento e la resistenza al cambiamento lavorino in perenne tensione e non mi scandalizzo: l’equilibrio che viene fuori da questa tensione è la vita. Il problema è l’uso delle armi, come sempre. Le idee non sparano. Il primo che in un teatro del genere usa un’arma, il primo che la porta sulla scena, il primo che la evoca, il primo che la pensa come necessaria, costui ha ottime possibilità di essere dalla parte del male. Se esiste un’arma, esisterà anche, in qualche appunto di Dio, la traiettoria del proiettile che va dalla bocca di quell’arma a un certo essere umano. Non è detto che questo essere umano, nel momento in cui sentirà il suo petto aprirsi, desideri l’Ucraina in Europa. È sicuro invece che desideri stare al mondo.
Poi c’è la convivenza forzata tra popoli, perché l’Ucraina è anche questo; una cosa che nel Novecento abbiamo visto spesso e che sappiamo come può andare a finire
E poi, lasciate che lo dica ancora una volta, il potere. Quello di chi resiste al cambiamento e quello di chi, seguendo altri calcoli, e dall’esterno, preme per quel cambiamento.
In mezzo c’è gente che chiede una storia diversa e ci mette la faccia, nel senso del naso, dei denti da rompere, della gola che entra nel mirino.
Tornando a Wittgenstein e alle patate, mentre lavavo i piatti mi è tornata in mente l’idea di tale Von Balthasar, secondo cui l’inferno esiste ma è probabilmente vuoto.
Un cazzo. L’inferno è pieno di gente ancora viva. Gente che spara, gente che ordina di sparare, gente che muove altra gente come se non ci fosse il rischio di spari. E chi si contende un popolo che rischia i denti per la libertà, fa di tutto per meritarsi l’inferno. Compresi noi.