Il mio nome tutto intero è Babakar. E per essere più precisi, io ero.
Ero quel corpo incastrato sotto quelle due sagome bluastre che tutti, credo, avete visto morte e abbracciate.
E dunque non mi avete visto perché ero sotto.
Voi non lo sapete, ma mi avevate visto in televisione circa sei anni fa. Ero sul porto di Lampedusa, appena arrivato dalla Libia. Io non sono libico, cioè, non lo ero. Ero senegalese. Ma per arrivare in Italia mi è toccato passare per la Libia, che è la strada più breve e anche la più difficile. Almeno per quelli come me. Comunque, dovevo passare per forza, anche a costo di morire. Sembra una cosa bruttissima, invece è solo brutta. Se non fossi passato era sicuro che sarei morto, quindi anche solo la possibilità di non morire ancora, era già qualcosa. Insomma, sei anni fa ero in Italia. Ero sbarcato con altri sessanta da una barca piena di merda e senza vernice. Poi da Lampedusa ero riuscito a raggiungere la Sicilia, provincia di Palermo, dove c’erano dei ragazzi del mio villaggio. Mi avevano prestato dei soldi per andare fino a Torino, dove mi aspettavano altre persone. Sapevo che lì avrei trovato qualcosa da fare, e che piano piano avrei restituito i soldi agli amici in Sicilia e avrei potuto iniziare a spedirne un po’ in Senegal.
Sembrava che le cose andassero bene. Per tre anni. Poi una sera, al telefono, mio fratello più piccolo mi ha avvisato che mia madre stava male. Sia il medico che una vecchia del villaggio avevano detto che poteva morire entro pochi giorni. Allora avevo chiesto altri soldi in prestito, questa volta meno perché avevo da parte qualcosa, ed ero partito. Mia madre era vissuta ancora due mesi, altro che pochi giorni. Era molto forte, lei. Però per due anni non ero più riuscito a ripartire. Il Senegal è il Senegal, il mio villaggio è il mio villaggio. E l’Africa…
Ma non potevo restare a lungo. Mi toccava riprovarci, tornare in Europa, riprendere il vecchio percorso, riallacciare i fili con le opportunità, per lo stesso motivo della prima volta: non morire.
Solo che ad arrivare in Libia, questa volta ci ho messo quasi tre anni. Come se il Deserto fosse diventato più denso e viscoso.
Alla fine però, un bel giorno mi sono trovato nuovamente di fronte al vostro mare, pronto a imbarcarmi di nuovo. Il fatto che il clan di Gheddafi non comandasse più la Libia, che all’inizio mi era sembrato un bene, aveva reso tutto più difficile. La Libia è un paese dove la cattiveria nascosta con la forza per quarant’anni, ora spunta dalla sabbia come gas. Però alla fine c’ero tornato, davanti al Mediterraneo. Sembra l’oceano, ma non è l’oceano. È vero che quando arrivi sulla costa, guardi davanti a te e vedi solo acqua e cielo. Però non è la stessa cosa. L’oceano lo percepisci, percepisci quanto sia infinito. Il Mediterraneo è come se rimandasse sempre un po’ più in là. Come se dalla sponda opposta arrivasse qualcosa, niente che colpisca gli occhi e le orecchie, ma qualcosa.
E poi una mattina siamo partiti. Acqua, poco cibo, molto carburante. E africani appiccicati uno all’altro. come i paesi da cui venivano, però mescolati. Il Senegal toccava la Nigeria, il Camerun strusciava sul Marocco a ogni onda, il Burundi e il Niger cercavano di parlare e di alzarsi per respirare bene, ogni tanto. Ci avevano detto di bere e mangiare bene il giorno prima; di bere, soprattutto. E io l’avevo fatto. E dopo due ore di viaggio mi stavo già pisciando addosso. Ero riuscito a spostarmi un po’ e a farla in mare. Ma sapevo che non mi sarebbe andata sempre così bene. C’era di peggio, però. Dopo sei ore il mare ha iniziato a gonfiarsi. Sbattevamo dentro la barca e uno sull’altro, sempre di più. Vomitare era la cosa migliore che potesse capitare. Il vento teneva abbastanza pulita l’aria sulla barca e ormai sapevo che avevo poco da pensare; c’era da aspettare e basta. Due giorni, ci avevano detto. C’era mare mosso, e il peschereccio era pieno da scoppiare; l’elica più di tanto non poteva spingerlo. Poi il vento è aumentato e i giorni sono diventati tre. Ma all’inizio del terzo, quando in molti non ci credevano più e piangevano, qualcuno è riuscito a vedere la terra e ha sparso la voce. Qualcun altro ha pensato che dovevamo farci vedere dai mezzi di soccorso. Ed ha acceso il fuoco. Il carburante stipato sulla barca ha preso fuoco a sua volta e molti, troppi, spaventati si sono spostati sullo stesso lato della barca. Io da quel momento non ricordo bene le cose. Ricordo che ho perso l’equilibrio, qualcuno mi è caduto addosso spezzandomi un dito e il mio collo è rimasto piegato per molti secondo sotto un peso che non vedevo e non riuscivo a spostare. Poi la faccia si è riempita d’acqua. All’inizio ho resistito, trattenendo il fiato per non bere. Poi ho iniziato a sentire freddo e a non vedere più tanta luce. Poi non ce l’ho fatta più, e visto che non riuscivo a liberarmi devo aver avuto bisogno di respirare, e l’ho fatto. Lo sapevo che non avrei dovuto. Lo sapevo bene. Eppure quando non ti resta più niente, ma sei ancora vivo, l’istinto prende il posto di tutto il resto e fa fare cose senza rimedio.
Dopo pochi secondi sono morto.
So che avete parlato di noi e vi siete commossi.
Non tutti, perché qualcuno ha detto che era contento; so anche questo.
Qualcun altro ha detto che ce lo siamo meritati.
Pochi si sono chiesti, fino in fondo, se avessero qualche colpa o responsabilità.
Per me ormai non fa differenza.
Ma per voi, dico, sarebbe importante andarci fino in fondo, a questa domanda.
Senza preoccuparvi per me.
Perché io non sono mai esistito e sotto quei corpi abbracciati che avete visto in televisione, c’era solo il legno del peschereccio.
Ma questa storia è vera.
Ero quel corpo incastrato sotto quelle due sagome bluastre che tutti, credo, avete visto morte e abbracciate.
E dunque non mi avete visto perché ero sotto.
Voi non lo sapete, ma mi avevate visto in televisione circa sei anni fa. Ero sul porto di Lampedusa, appena arrivato dalla Libia. Io non sono libico, cioè, non lo ero. Ero senegalese. Ma per arrivare in Italia mi è toccato passare per la Libia, che è la strada più breve e anche la più difficile. Almeno per quelli come me. Comunque, dovevo passare per forza, anche a costo di morire. Sembra una cosa bruttissima, invece è solo brutta. Se non fossi passato era sicuro che sarei morto, quindi anche solo la possibilità di non morire ancora, era già qualcosa. Insomma, sei anni fa ero in Italia. Ero sbarcato con altri sessanta da una barca piena di merda e senza vernice. Poi da Lampedusa ero riuscito a raggiungere la Sicilia, provincia di Palermo, dove c’erano dei ragazzi del mio villaggio. Mi avevano prestato dei soldi per andare fino a Torino, dove mi aspettavano altre persone. Sapevo che lì avrei trovato qualcosa da fare, e che piano piano avrei restituito i soldi agli amici in Sicilia e avrei potuto iniziare a spedirne un po’ in Senegal.
Sembrava che le cose andassero bene. Per tre anni. Poi una sera, al telefono, mio fratello più piccolo mi ha avvisato che mia madre stava male. Sia il medico che una vecchia del villaggio avevano detto che poteva morire entro pochi giorni. Allora avevo chiesto altri soldi in prestito, questa volta meno perché avevo da parte qualcosa, ed ero partito. Mia madre era vissuta ancora due mesi, altro che pochi giorni. Era molto forte, lei. Però per due anni non ero più riuscito a ripartire. Il Senegal è il Senegal, il mio villaggio è il mio villaggio. E l’Africa…
Ma non potevo restare a lungo. Mi toccava riprovarci, tornare in Europa, riprendere il vecchio percorso, riallacciare i fili con le opportunità, per lo stesso motivo della prima volta: non morire.
Solo che ad arrivare in Libia, questa volta ci ho messo quasi tre anni. Come se il Deserto fosse diventato più denso e viscoso.
Alla fine però, un bel giorno mi sono trovato nuovamente di fronte al vostro mare, pronto a imbarcarmi di nuovo. Il fatto che il clan di Gheddafi non comandasse più la Libia, che all’inizio mi era sembrato un bene, aveva reso tutto più difficile. La Libia è un paese dove la cattiveria nascosta con la forza per quarant’anni, ora spunta dalla sabbia come gas. Però alla fine c’ero tornato, davanti al Mediterraneo. Sembra l’oceano, ma non è l’oceano. È vero che quando arrivi sulla costa, guardi davanti a te e vedi solo acqua e cielo. Però non è la stessa cosa. L’oceano lo percepisci, percepisci quanto sia infinito. Il Mediterraneo è come se rimandasse sempre un po’ più in là. Come se dalla sponda opposta arrivasse qualcosa, niente che colpisca gli occhi e le orecchie, ma qualcosa.
E poi una mattina siamo partiti. Acqua, poco cibo, molto carburante. E africani appiccicati uno all’altro. come i paesi da cui venivano, però mescolati. Il Senegal toccava la Nigeria, il Camerun strusciava sul Marocco a ogni onda, il Burundi e il Niger cercavano di parlare e di alzarsi per respirare bene, ogni tanto. Ci avevano detto di bere e mangiare bene il giorno prima; di bere, soprattutto. E io l’avevo fatto. E dopo due ore di viaggio mi stavo già pisciando addosso. Ero riuscito a spostarmi un po’ e a farla in mare. Ma sapevo che non mi sarebbe andata sempre così bene. C’era di peggio, però. Dopo sei ore il mare ha iniziato a gonfiarsi. Sbattevamo dentro la barca e uno sull’altro, sempre di più. Vomitare era la cosa migliore che potesse capitare. Il vento teneva abbastanza pulita l’aria sulla barca e ormai sapevo che avevo poco da pensare; c’era da aspettare e basta. Due giorni, ci avevano detto. C’era mare mosso, e il peschereccio era pieno da scoppiare; l’elica più di tanto non poteva spingerlo. Poi il vento è aumentato e i giorni sono diventati tre. Ma all’inizio del terzo, quando in molti non ci credevano più e piangevano, qualcuno è riuscito a vedere la terra e ha sparso la voce. Qualcun altro ha pensato che dovevamo farci vedere dai mezzi di soccorso. Ed ha acceso il fuoco. Il carburante stipato sulla barca ha preso fuoco a sua volta e molti, troppi, spaventati si sono spostati sullo stesso lato della barca. Io da quel momento non ricordo bene le cose. Ricordo che ho perso l’equilibrio, qualcuno mi è caduto addosso spezzandomi un dito e il mio collo è rimasto piegato per molti secondo sotto un peso che non vedevo e non riuscivo a spostare. Poi la faccia si è riempita d’acqua. All’inizio ho resistito, trattenendo il fiato per non bere. Poi ho iniziato a sentire freddo e a non vedere più tanta luce. Poi non ce l’ho fatta più, e visto che non riuscivo a liberarmi devo aver avuto bisogno di respirare, e l’ho fatto. Lo sapevo che non avrei dovuto. Lo sapevo bene. Eppure quando non ti resta più niente, ma sei ancora vivo, l’istinto prende il posto di tutto il resto e fa fare cose senza rimedio.
Dopo pochi secondi sono morto.
So che avete parlato di noi e vi siete commossi.
Non tutti, perché qualcuno ha detto che era contento; so anche questo.
Qualcun altro ha detto che ce lo siamo meritati.
Pochi si sono chiesti, fino in fondo, se avessero qualche colpa o responsabilità.
Per me ormai non fa differenza.
Ma per voi, dico, sarebbe importante andarci fino in fondo, a questa domanda.
Senza preoccuparvi per me.
Perché io non sono mai esistito e sotto quei corpi abbracciati che avete visto in televisione, c’era solo il legno del peschereccio.
Ma questa storia è vera.