Io ricordo che gli alunni scolasticamente smarriti ci sono sempre stati, anche quando io frequentavo le superiori.
Un calo fisiologico dell’utenza che entrava nell’ordine naturale del percorso didattico.
Un po’ come la diminuzione di peso dei neonati subito dopo essere venuti alla luce. Scolasticamente è una selezione naturale della specie: gli alunni che non hanno voglia, motivazione e aspirazioni prima o poi si perdono.
Sic et simpliciter!
Eppure la cosa non destava particolari preoccupazioni nel corpo docente che, anzi, salutava con un sospiro di sollievo quegli studenti che non si facevano più vedere in classe e che spesso, proprio perché poco interessati all’attività didattica, portavano un po’ di scompiglio.
Ed ecco che quando si levavano dalle palle tornavano ordine e quiete.
Poi però questa dispersione scolastica ha cominciato ad essere guardata con sospetto, in particolare da quando la scuola è diventata un’azienda.
Un’attenzione quindi non tanto rivolta agli alunni, quanto alla scuola.
Diciamocelo senza remore.
Quando i dirigenti sono diventati dei manager che devono procacciare clienti per il proprio istituto, confessiamoci anche questo già che ci siamo.
Perché una scuola che ha più alunni, la cui curva di iscrizioni è in crescita, ha proporzionalmente un FIS (fondo di istituto) più elevato, più docenti, più classi e più prestigio.
E allora quegli alunni sospesi nella linea di confine tra il “non rompetemi i coglioni, non vengo più a scuola” e il “quasi quasi vengo in classe ché a casa non c’ho un cazzo da fare” devono essere assolutamente recuperati.
Costi quel che costi.
Come la febbrile attività dei candidati volta a convertire quella parte di elettorato che ha deciso di non andare più alle urne perché demotivata.
Quindi, fedeli al proposito di reclutamento, hanno dato l’avvio a tutta una serie di azioni mirabolanti volte al ritrovamento dei dispersi.
Un giorno hanno deciso che non si poteva più attestare ciò che l’alunno non sapeva fare, guai ad elencare gli obiettivi non conseguiti.
Perché no, non stava bene, minava l’autostima e si attestavano le incompetenze. Si è deciso che si dovevano certificare solo le competenze.
In parole povere io non potevo scrivere “l’alunno non è in grado di strutturare un testo narrativo”, ma dovevo certificare, semmai, che “l’alunno è in grado di comporre semplici testi narrativi solo se guidato”.
E che significa?
Anch’io so pilotare un Boeing 737 se trovo un coglione che mi si siede accanto e mi dice passo passo cosa devo fare.
Ma questo non farà mai di me un pilota.
Però questa rimodulazione delle certificazioni non è bastata e le scuole hanno continuato a drenare utenza.
Qualcuno allora ha pensato che quei poverini scappassero perché si sentivano inadeguati e spaventati da obiettivi troppo elevati.
E allora hanno dato direttive a noi docenti affinché ridimensionassimo i traguardi, tarassimo su un livello mediocre le mete e adeguassimo progressivamente la richiesta di competenze.
Col risultato che non solo non abbiamo arginato la dispersione scolastica, ma abbiamo anche demotivato quei poveracci che invece la voglia di studiare ce l’avevano.
Abbiamo cristallizzato la nostra programmazione ed offerto ben pochi stimoli ai “secchioni” che si sono così arenati.
Non bastava ancora.
Non dovevamo più valutare le abilità, bensì tutto il processo di apprendimento.
Che, detta così, sembra anche una cosa che un senso lo abbia… e invece è una boiata immane.
Significa che prima un alunno veniva valutato in base alle competenze di analisi di un testo poetico, per esempio, se sapeva o non sapeva, analizzare la poesia A Silvia.
E, conseguentemente, portava a casa un voto positivo o negativo.
La valutazione del processo di apprendimento invece indica che se un alunno mi dice, come mi è capitato di recente, che “A Leopardo” è una poesia, io devo valutarlo positivamente perché nel suo percorso, che partiva da un livello di competenze pari a zero, ha compreso che esiste una poesia che inizia con la preposizione semplice “A”.
Ora arriva il signor Pigliaru, che probabilmente, non mette piede in una scuola superiore da quando si è diplomato, e ha deciso che gli alunni sono demotivati perché gli edifici scolastici sono fatiscenti. E quel che serve è una scuola bella e bisogna costruire biblioteche e aule accoglienti in modo da arginare la disaffezione di alunni e insegnanti.
E mi viene da pensare che forse il signor Pigliaru non sa che io c’ho degli alunni, e come me tanti altri docenti, che vengono a scuola un giorno sì e quattro giorni no, e se li porto in biblioteca me li lanciano addosso i libri.
E forse anche gli scaffali.
Io sono del parere, invece, che la scuola debba tornare ad essere una scuola seria.
E non un surrogato sbiadito che sforna diplomati incapaci e analfabeti.
Vorrei insegnare in una scuola dove gli alunni si formano e si temprano anche in base al sacrificio che fanno, al tempo trascorso sui libri, alla curiosità che anima la loro fame di conoscenze.
Dove la conquista della sufficienza sia davvero una conquista che dia loro soddisfazione ed una valutazione positiva sia una seria attestazione di competenze.
Dove chi non ha voglia di studiare non debba essere trattenuto per il braccio e allettato da traguardi facili e indolori perché è necessario diplomarsi e garantire un buon numero di iscritti alla scuola.
Non è affatto necessario diplomarsi, il mondo ha anche bisogno di braccia che lavorino la terra, di mani che sistemino mattoni uno sopra l’altro, di pastori che curino il bestiame.
E lo affermo attribuendo a queste professioni tutta la dignità ed il rispetto che meritano.
Ché io un mondo lavorativo pieno di diplomi svalutati del loro valore non lo vedo di buon occhio.
Un certificato d’istruzione superiore dev' essere attribuito ad offerte non inferiori al prezzo base d’asta.
Un pezzo di carta che si aggiudica solo per rialzi superiori al quanto basta.
Un calo fisiologico dell’utenza che entrava nell’ordine naturale del percorso didattico.
Un po’ come la diminuzione di peso dei neonati subito dopo essere venuti alla luce. Scolasticamente è una selezione naturale della specie: gli alunni che non hanno voglia, motivazione e aspirazioni prima o poi si perdono.
Sic et simpliciter!
Eppure la cosa non destava particolari preoccupazioni nel corpo docente che, anzi, salutava con un sospiro di sollievo quegli studenti che non si facevano più vedere in classe e che spesso, proprio perché poco interessati all’attività didattica, portavano un po’ di scompiglio.
Ed ecco che quando si levavano dalle palle tornavano ordine e quiete.
Poi però questa dispersione scolastica ha cominciato ad essere guardata con sospetto, in particolare da quando la scuola è diventata un’azienda.
Un’attenzione quindi non tanto rivolta agli alunni, quanto alla scuola.
Diciamocelo senza remore.
Quando i dirigenti sono diventati dei manager che devono procacciare clienti per il proprio istituto, confessiamoci anche questo già che ci siamo.
Perché una scuola che ha più alunni, la cui curva di iscrizioni è in crescita, ha proporzionalmente un FIS (fondo di istituto) più elevato, più docenti, più classi e più prestigio.
E allora quegli alunni sospesi nella linea di confine tra il “non rompetemi i coglioni, non vengo più a scuola” e il “quasi quasi vengo in classe ché a casa non c’ho un cazzo da fare” devono essere assolutamente recuperati.
Costi quel che costi.
Come la febbrile attività dei candidati volta a convertire quella parte di elettorato che ha deciso di non andare più alle urne perché demotivata.
Quindi, fedeli al proposito di reclutamento, hanno dato l’avvio a tutta una serie di azioni mirabolanti volte al ritrovamento dei dispersi.
Un giorno hanno deciso che non si poteva più attestare ciò che l’alunno non sapeva fare, guai ad elencare gli obiettivi non conseguiti.
Perché no, non stava bene, minava l’autostima e si attestavano le incompetenze. Si è deciso che si dovevano certificare solo le competenze.
In parole povere io non potevo scrivere “l’alunno non è in grado di strutturare un testo narrativo”, ma dovevo certificare, semmai, che “l’alunno è in grado di comporre semplici testi narrativi solo se guidato”.
E che significa?
Anch’io so pilotare un Boeing 737 se trovo un coglione che mi si siede accanto e mi dice passo passo cosa devo fare.
Ma questo non farà mai di me un pilota.
Però questa rimodulazione delle certificazioni non è bastata e le scuole hanno continuato a drenare utenza.
Qualcuno allora ha pensato che quei poverini scappassero perché si sentivano inadeguati e spaventati da obiettivi troppo elevati.
E allora hanno dato direttive a noi docenti affinché ridimensionassimo i traguardi, tarassimo su un livello mediocre le mete e adeguassimo progressivamente la richiesta di competenze.
Col risultato che non solo non abbiamo arginato la dispersione scolastica, ma abbiamo anche demotivato quei poveracci che invece la voglia di studiare ce l’avevano.
Abbiamo cristallizzato la nostra programmazione ed offerto ben pochi stimoli ai “secchioni” che si sono così arenati.
Non bastava ancora.
Non dovevamo più valutare le abilità, bensì tutto il processo di apprendimento.
Che, detta così, sembra anche una cosa che un senso lo abbia… e invece è una boiata immane.
Significa che prima un alunno veniva valutato in base alle competenze di analisi di un testo poetico, per esempio, se sapeva o non sapeva, analizzare la poesia A Silvia.
E, conseguentemente, portava a casa un voto positivo o negativo.
La valutazione del processo di apprendimento invece indica che se un alunno mi dice, come mi è capitato di recente, che “A Leopardo” è una poesia, io devo valutarlo positivamente perché nel suo percorso, che partiva da un livello di competenze pari a zero, ha compreso che esiste una poesia che inizia con la preposizione semplice “A”.
Ora arriva il signor Pigliaru, che probabilmente, non mette piede in una scuola superiore da quando si è diplomato, e ha deciso che gli alunni sono demotivati perché gli edifici scolastici sono fatiscenti. E quel che serve è una scuola bella e bisogna costruire biblioteche e aule accoglienti in modo da arginare la disaffezione di alunni e insegnanti.
E mi viene da pensare che forse il signor Pigliaru non sa che io c’ho degli alunni, e come me tanti altri docenti, che vengono a scuola un giorno sì e quattro giorni no, e se li porto in biblioteca me li lanciano addosso i libri.
E forse anche gli scaffali.
Io sono del parere, invece, che la scuola debba tornare ad essere una scuola seria.
E non un surrogato sbiadito che sforna diplomati incapaci e analfabeti.
Vorrei insegnare in una scuola dove gli alunni si formano e si temprano anche in base al sacrificio che fanno, al tempo trascorso sui libri, alla curiosità che anima la loro fame di conoscenze.
Dove la conquista della sufficienza sia davvero una conquista che dia loro soddisfazione ed una valutazione positiva sia una seria attestazione di competenze.
Dove chi non ha voglia di studiare non debba essere trattenuto per il braccio e allettato da traguardi facili e indolori perché è necessario diplomarsi e garantire un buon numero di iscritti alla scuola.
Non è affatto necessario diplomarsi, il mondo ha anche bisogno di braccia che lavorino la terra, di mani che sistemino mattoni uno sopra l’altro, di pastori che curino il bestiame.
E lo affermo attribuendo a queste professioni tutta la dignità ed il rispetto che meritano.
Ché io un mondo lavorativo pieno di diplomi svalutati del loro valore non lo vedo di buon occhio.
Un certificato d’istruzione superiore dev' essere attribuito ad offerte non inferiori al prezzo base d’asta.
Un pezzo di carta che si aggiudica solo per rialzi superiori al quanto basta.