Dovrei iniziare il post in questo modo: “Oggi mentre camminavo…”, ma ruberei il famoso incipit al mio amico Marcello Cadeddu, e tra amici non è cosa né bella né saggia (altrimenti che cappero di amicizia sarebbe..?).
Ma è andata proprio così. Dopo una giornata abbastanza faticosa, mi sono concesso una piccola passeggiata tra Piazza Giovanni e Piazza Repubblica, con l’idea di sgranchirmi le gambe e scolarmi una bella birra fresca nel mio buen retiro. Faccio alcuni passi, poco dopo la BNL ed ecco che mi si avvicina un ragazzo senegalese chiedendomi l’elemosina. Nell’arco di 50 metri la stessa scena si è ripetuta con altri 4 ragazzi senegalesi, 3 italiani e 2 ragazze rom (quasi sicuramente italiane anch’esse); qualcuno chiedeva danari, qualcun altro che gli si comprasse un panino.
Questa scena, mentre camminavo, mi ha fatto pensare ai segni, i segni visibili del disagio e della povertà. Ci sono momenti storici in cui questi segni lasciano il fondale delle proprie intimità e, come le bollicine d’aria, emergono in superficie alla portata dello sguardo e del gesto – più o meno caritatevole, di tutti. Questo è uno di quei momenti storici, ho pensato.
Molti anni fa ho scritto un libro sulla povertà; la cosa strana (allora, strana) è che non riuscivo a finirlo qui a Cagliari. Non che non conoscessi situazioni di sofferenza economica, o che non ne avessi avuto dolorose accesso. Avevo già vissuto esperienze molto forti. La prima volta che andai in Asia, appena fuori l’aeroporto di Katmandu il personale welcome fu una ragazza mezzo nuda, uno scheletro di ragazza, che stava sulla cima di una piccola collinetta di rifiuti e si alimentava raccogliendo direttamente da terra scarti di derrate. E fu solo l’inizio. Non è che in Pakistan (almeno allora, era il 1999) abbia visto cose molto differenti…
Ma, in quel momento, in Italia, a Cagliari, mi mancava la massa, la visibilità della massa in sofferenza capace di dare materialità ai concetti che stavo elaborando, alle categorie che stavo usando e su cui mi esercitavo a scrivere. Andai da amici a Palermo, precisamente dietro il mercato di Ballarò, e lì finii il libro, passando le mattine per strada, attraversando quei puzzle di disagio che prima riuscivo “a pensare” ma non “a sentire” nelle mie frasi.
Cagliari aveva (le ha sempre avute) larghe sacche di disagio profondissimo ma, spesso, erano fisicamente visibili allo sguardo (e all’ascolto) degli operatori del welfare locale, del volontariato e delle parrocchie (la sinistra è molto brava a elaborare concetti ma molto meno ad essere quotidianamente presente nelle pratiche di aiuto, purtroppo…). Ma erano ancora ambiti (auto)costretti nell’ombra.
Ora non più. A Cagliari i segni della fame, della miseria, della stanchezza fisica sono alla portata di tutti noi. E se “il fenomeno povertà” è un male, se è un male che il 22 % delle famiglie isolane viva al di sotto della linea di povertà, forse è un bene che queste dimensioni siano semplicemente esplicite, parlino da sole, premano per un’attivazione della sfera della politica.
Se è idiota parlare di “risoluzione del problema”, almeno si incominci a parlare di “riduzione del danno”. Si leghino finalmente le politiche del welfare con quelle del lavoro; si prenda concretamente quella strada. Si riduca la forza della delega del benessere dei singoli alle famiglie. Le famiglie hanno la spia della riserva accesa, adesso.
Ma è andata proprio così. Dopo una giornata abbastanza faticosa, mi sono concesso una piccola passeggiata tra Piazza Giovanni e Piazza Repubblica, con l’idea di sgranchirmi le gambe e scolarmi una bella birra fresca nel mio buen retiro. Faccio alcuni passi, poco dopo la BNL ed ecco che mi si avvicina un ragazzo senegalese chiedendomi l’elemosina. Nell’arco di 50 metri la stessa scena si è ripetuta con altri 4 ragazzi senegalesi, 3 italiani e 2 ragazze rom (quasi sicuramente italiane anch’esse); qualcuno chiedeva danari, qualcun altro che gli si comprasse un panino.
Questa scena, mentre camminavo, mi ha fatto pensare ai segni, i segni visibili del disagio e della povertà. Ci sono momenti storici in cui questi segni lasciano il fondale delle proprie intimità e, come le bollicine d’aria, emergono in superficie alla portata dello sguardo e del gesto – più o meno caritatevole, di tutti. Questo è uno di quei momenti storici, ho pensato.
Molti anni fa ho scritto un libro sulla povertà; la cosa strana (allora, strana) è che non riuscivo a finirlo qui a Cagliari. Non che non conoscessi situazioni di sofferenza economica, o che non ne avessi avuto dolorose accesso. Avevo già vissuto esperienze molto forti. La prima volta che andai in Asia, appena fuori l’aeroporto di Katmandu il personale welcome fu una ragazza mezzo nuda, uno scheletro di ragazza, che stava sulla cima di una piccola collinetta di rifiuti e si alimentava raccogliendo direttamente da terra scarti di derrate. E fu solo l’inizio. Non è che in Pakistan (almeno allora, era il 1999) abbia visto cose molto differenti…
Ma, in quel momento, in Italia, a Cagliari, mi mancava la massa, la visibilità della massa in sofferenza capace di dare materialità ai concetti che stavo elaborando, alle categorie che stavo usando e su cui mi esercitavo a scrivere. Andai da amici a Palermo, precisamente dietro il mercato di Ballarò, e lì finii il libro, passando le mattine per strada, attraversando quei puzzle di disagio che prima riuscivo “a pensare” ma non “a sentire” nelle mie frasi.
Cagliari aveva (le ha sempre avute) larghe sacche di disagio profondissimo ma, spesso, erano fisicamente visibili allo sguardo (e all’ascolto) degli operatori del welfare locale, del volontariato e delle parrocchie (la sinistra è molto brava a elaborare concetti ma molto meno ad essere quotidianamente presente nelle pratiche di aiuto, purtroppo…). Ma erano ancora ambiti (auto)costretti nell’ombra.
Ora non più. A Cagliari i segni della fame, della miseria, della stanchezza fisica sono alla portata di tutti noi. E se “il fenomeno povertà” è un male, se è un male che il 22 % delle famiglie isolane viva al di sotto della linea di povertà, forse è un bene che queste dimensioni siano semplicemente esplicite, parlino da sole, premano per un’attivazione della sfera della politica.
Se è idiota parlare di “risoluzione del problema”, almeno si incominci a parlare di “riduzione del danno”. Si leghino finalmente le politiche del welfare con quelle del lavoro; si prenda concretamente quella strada. Si riduca la forza della delega del benessere dei singoli alle famiglie. Le famiglie hanno la spia della riserva accesa, adesso.