La veronica è un fiore, il fiore che simboleggia la partenza, l’addio, ma non so di quali addii narri la leggenda. Veronica Gelsomino, che nel nome porta l’allegoria di un destino scongiurato, è la ragazza di Priatu salvata da morte certa da Sebastiano, Massimo e Mario dalla foiba di Monti Pinu la notte del ciclone Cleopatra.
Prima Sebastiano e Massimo, poi Mario, sentite le grida d’aiuto che giungevano dall’auto finita nella voragine, non hanno esitato a calarsi fin sotto, dentro l’impeto di una fiumana ululante, rischiando le proprie vite, per portare al riparo la vita di Veronica.
Sebastiano e Massimo sono due ragazzi di Aggius che quella sera rientravano alle loro case dopo una giornata di lavoro e fatica; Mario abita lì, poco distante dallo squarcio della morte. Anche lui tornava a casa con la moglie e il figlio di pochi mesi. E’ bastato niente perché i tre ragazzi raggiungessero, lungo un percorso nella fitta boscaglia, i rottami dell’auto che teneva incagliati il corpo e l’anima di Veronica.
Ieri ho chiesto a Sebastiano che mi raccontasse la storia, che definire di straordinario coraggio non è gratuita retorica. Questo disastro, come altri hanno raccontato prima e meglio, ha tirato fuori il buono di un popolo, che in tempi in cui si tira a campare, non è cosa banale.
Mentre Sebastiano raccontava della tragica notte, ha parlato del gorgo d’acqua che precipitava dalle nubi in collera; della piena schiumante e prepotente ripresasi l’alveo impedito dalla stupidità dell’uomo; delle mani nude con cui hanno scavato dentro una carcassa di lamiere attorcigliate coperte d’acqua, pietrame e fango; ha ricordato delle proprie forze che venivano meno, dissipate oltre che dalla fatica, dalla paura e dall’angoscia di non farcela, perché l’acqua e i detriti stavano lì, per inghiottire un’altra vittima da sacrificare alla follia; ha ricordato dell’oscurità, dello sgomento per quelle rapide furenti, scaturigine di un lampo, invocando affinché si placassero.
Sebastiano, Massimo e Mario hanno tenuto duro, fino allo sfinimento. Mentre scavavano con mani intirizzite e peste dalla furia della natura, parlavano con Veronica, chiedendogli e ripetendo se riuscisse a muovere gli arti, dandogli conforto e incitamento; le risposte, racconta Sebastiano, “erano per noi frustate di adrenalina; ci ripeteva che le gambe erano incastrate ma che poteva muovere le dita dei piedi e questo moltiplicava le nostre forze, finché non l’abbiamo liberata, già in stato di ipotermia. Abbiamo adagiato Veronica a terra, ricoperta dei nostri indumenti più pesanti, fradici e odoranti di fango. Poi anche per noi, esamini, una pausa, in attesa che altri soccorritori, con mezzi più convenienti, intervenissero per completare l’opera”.
Solo dopo, con il sopraggiungere di altre torce, hanno colto che il demone della mala sorte si era nutrito del sacrificio delle tre vittime che giacevano dentro l’auto finita nello stesso precipizio, lì, a qualche decina di metri.
Sebastiano mi ha raccontato anche questa pena, del rimorso che accompagna ancora Massimo, delle notti insonni ripensando alle fauci di quel demone, rimuginando per non aver potuto aiutare anche quelle altre tre persone; e mentre raccontava tutto ciò, coglievo nei suoi occhi un velo di amarezza, perché pare che ad altri siano riservati gli encomi a loro dovuti.
Per carità nessuna medaglia, tutti e in tanti si sono spesi nel salvare altre vite dal turbine di Cleopatra, ma credo che questi tre ragazzi meritino almeno un'umile parola d'encomio da chi nel territorio rappresenta le istituzionili.
Prima Sebastiano e Massimo, poi Mario, sentite le grida d’aiuto che giungevano dall’auto finita nella voragine, non hanno esitato a calarsi fin sotto, dentro l’impeto di una fiumana ululante, rischiando le proprie vite, per portare al riparo la vita di Veronica.
Sebastiano e Massimo sono due ragazzi di Aggius che quella sera rientravano alle loro case dopo una giornata di lavoro e fatica; Mario abita lì, poco distante dallo squarcio della morte. Anche lui tornava a casa con la moglie e il figlio di pochi mesi. E’ bastato niente perché i tre ragazzi raggiungessero, lungo un percorso nella fitta boscaglia, i rottami dell’auto che teneva incagliati il corpo e l’anima di Veronica.
Ieri ho chiesto a Sebastiano che mi raccontasse la storia, che definire di straordinario coraggio non è gratuita retorica. Questo disastro, come altri hanno raccontato prima e meglio, ha tirato fuori il buono di un popolo, che in tempi in cui si tira a campare, non è cosa banale.
Mentre Sebastiano raccontava della tragica notte, ha parlato del gorgo d’acqua che precipitava dalle nubi in collera; della piena schiumante e prepotente ripresasi l’alveo impedito dalla stupidità dell’uomo; delle mani nude con cui hanno scavato dentro una carcassa di lamiere attorcigliate coperte d’acqua, pietrame e fango; ha ricordato delle proprie forze che venivano meno, dissipate oltre che dalla fatica, dalla paura e dall’angoscia di non farcela, perché l’acqua e i detriti stavano lì, per inghiottire un’altra vittima da sacrificare alla follia; ha ricordato dell’oscurità, dello sgomento per quelle rapide furenti, scaturigine di un lampo, invocando affinché si placassero.
Sebastiano, Massimo e Mario hanno tenuto duro, fino allo sfinimento. Mentre scavavano con mani intirizzite e peste dalla furia della natura, parlavano con Veronica, chiedendogli e ripetendo se riuscisse a muovere gli arti, dandogli conforto e incitamento; le risposte, racconta Sebastiano, “erano per noi frustate di adrenalina; ci ripeteva che le gambe erano incastrate ma che poteva muovere le dita dei piedi e questo moltiplicava le nostre forze, finché non l’abbiamo liberata, già in stato di ipotermia. Abbiamo adagiato Veronica a terra, ricoperta dei nostri indumenti più pesanti, fradici e odoranti di fango. Poi anche per noi, esamini, una pausa, in attesa che altri soccorritori, con mezzi più convenienti, intervenissero per completare l’opera”.
Solo dopo, con il sopraggiungere di altre torce, hanno colto che il demone della mala sorte si era nutrito del sacrificio delle tre vittime che giacevano dentro l’auto finita nello stesso precipizio, lì, a qualche decina di metri.
Sebastiano mi ha raccontato anche questa pena, del rimorso che accompagna ancora Massimo, delle notti insonni ripensando alle fauci di quel demone, rimuginando per non aver potuto aiutare anche quelle altre tre persone; e mentre raccontava tutto ciò, coglievo nei suoi occhi un velo di amarezza, perché pare che ad altri siano riservati gli encomi a loro dovuti.
Per carità nessuna medaglia, tutti e in tanti si sono spesi nel salvare altre vite dal turbine di Cleopatra, ma credo che questi tre ragazzi meritino almeno un'umile parola d'encomio da chi nel territorio rappresenta le istituzionili.