Nelle retrospettive dei pensieri più pessimistici, molti di noi conservano un filo di ottimismo che solitamente, convenzionalmente, chiamiamo “speranza”.
Ma chiamarla così ci porta a pensare che la speranza sia qualcosa la cui riuscita non dipende da noi, tant'è che in molti pregano (nella loro fede) i loro dei, a finché la realizzino o aiutino a realizzarsi.
Io, da sempre, la chiamo “inconsapevole consapevolezza”.
E come tale la tratterei.
Quella che noi chiamiamo speranza, altro non è che la percezione, inscritta nel nostro istinto, che le cose potrebbero (e dovrebbero) andare diversamente in certi momenti “problematici” della nostra esistenza., ma questa positività poggia tutta sulle nostre possibilità e capacità di ascoltarla e porne in atto le azioni ed i pensieri più risolutivi. Quella percezione, o consapevolezza inconsapevole, deve diventare piena ed efficiente, se vuole ottenere risultati.
Chiamandola e vedendola come “speranza”, si ha invece la sensazione che la soluzione ai nostri problemi debba arrivare dall'esterno, da una entità materiale o trascendentale, che sia essa Budda o la Fortuna. Questo ci inibisce l'azione e le reazioni, ci può aiutare, per un attimo, a sentirci meno gravati dal problema, ma non lo risolve, non del tutto se non per nulla.
É difficile, caspita se lo so! Difficile perché nei momenti di sconforto, nelle preoccupazioni impellenti è quasi impossibile restare sereni e pensare, agire positivamente. Tutto sembra nero e l'unica luce pare quella di aggrapparsi alla speranza, di attendere come in un letargo che le cose si sistemino, di gettarsi nel “non vivere” per non sentire quel peso.
Che cosa succeda poi, quando quelle speranze non si realizzano, ce lo raccontano quelle poche (rispetto alla realtà dei numeri) cronache che parlano di “chi non ce l'ha fatta e si è arreso”, ha preferito chiuderla lì con un addio, lasciando i suoi problemi a chi resta.
Chi reagisce invece, chi coglie quello spiraglio di consapevolezza e lotta, si impegna e si ingegna per risolvere il problema, nella maggior parte dei casi ci riesce. Nel caso non riesca, comunque, acquisisce una migliore percezione di se stesso e “non si arrende”, non arriverà mai al gesto estremo.
La speranza l'applichiamo a quasi tutto, dai nostri sogni sino alla politica “partecipata con delega”, votiamo i nostri “beniamini” sperando che essi realizzino ciò che ci serve, è quella speranza a spingerci a votare, ancora una volta riposta in altri e ben distante, distaccata dalle nostre azioni perché, anche se siamo attivi militanti, le decisioni importanti poi le prendono quelli che, secondo noi, avremmo delegato a farlo, ma non sempre collimano con quello che ci aspettavamo o che ci eravamo “ripromessi”, quasi mai.
Se tutte queste speranze, un bel giorno, divenissero anche solo labili consapevolezze, se ognuno si desse veramente da fare, si attivasse nel suo piccolo a cambiare le cose partendo da se e lasciando a chi non ha davvero altre possibilità la speranza, si potrebbe certamente arrivare a soddisfarne parecchie, tanto da potere smettere di nutrirne di nuove perché le si starà già realizzando, anche quelle.
Non sperare che le cose cambino ma cambiarle, ogni giorno anche un solo piccolo pezzo, è il cammino più sostenibile che potremmo metterci davanti se davvero vogliamo dare esito a quell'aspettativa che chiamiamo “speranza” ma che altro non è che una necessità innata, un bisogno vitale del quale, sperando e delegando, ci siamo abituati a farne a meno.
Non è un caso, se di lei dicono sia “l'ultima a morire”, perché oltre lei, è provato, non resta null'altro, mentre dalla consapevolezza e dall'azione, nascono sempre tantissime, nuove e realizzabili possibilità.
« Keating: "Cogli l'attimo, cogli la rosa quand'è il momento"... Perché il poeta usa questi versi?
Dalton: Perché va di fretta!
Keating: No! [finge di premere un pulsante] Ding! Grazie per aver partecipato al nostro gioco. Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Adesso avvicinatevi tutti, e guardate questi visi del passato. Li avrete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai guardati. Non sono molto diversi da voi, vero? Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni, come voi, invincibili, come vi sentite voi. Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi, i loro occhi sono pieni di speranza, proprio come i vostri. Avranno atteso finche non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi ora, sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito: Carpe… Carpe diem… Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita! »
Ma chiamarla così ci porta a pensare che la speranza sia qualcosa la cui riuscita non dipende da noi, tant'è che in molti pregano (nella loro fede) i loro dei, a finché la realizzino o aiutino a realizzarsi.
Io, da sempre, la chiamo “inconsapevole consapevolezza”.
E come tale la tratterei.
Quella che noi chiamiamo speranza, altro non è che la percezione, inscritta nel nostro istinto, che le cose potrebbero (e dovrebbero) andare diversamente in certi momenti “problematici” della nostra esistenza., ma questa positività poggia tutta sulle nostre possibilità e capacità di ascoltarla e porne in atto le azioni ed i pensieri più risolutivi. Quella percezione, o consapevolezza inconsapevole, deve diventare piena ed efficiente, se vuole ottenere risultati.
Chiamandola e vedendola come “speranza”, si ha invece la sensazione che la soluzione ai nostri problemi debba arrivare dall'esterno, da una entità materiale o trascendentale, che sia essa Budda o la Fortuna. Questo ci inibisce l'azione e le reazioni, ci può aiutare, per un attimo, a sentirci meno gravati dal problema, ma non lo risolve, non del tutto se non per nulla.
É difficile, caspita se lo so! Difficile perché nei momenti di sconforto, nelle preoccupazioni impellenti è quasi impossibile restare sereni e pensare, agire positivamente. Tutto sembra nero e l'unica luce pare quella di aggrapparsi alla speranza, di attendere come in un letargo che le cose si sistemino, di gettarsi nel “non vivere” per non sentire quel peso.
Che cosa succeda poi, quando quelle speranze non si realizzano, ce lo raccontano quelle poche (rispetto alla realtà dei numeri) cronache che parlano di “chi non ce l'ha fatta e si è arreso”, ha preferito chiuderla lì con un addio, lasciando i suoi problemi a chi resta.
Chi reagisce invece, chi coglie quello spiraglio di consapevolezza e lotta, si impegna e si ingegna per risolvere il problema, nella maggior parte dei casi ci riesce. Nel caso non riesca, comunque, acquisisce una migliore percezione di se stesso e “non si arrende”, non arriverà mai al gesto estremo.
La speranza l'applichiamo a quasi tutto, dai nostri sogni sino alla politica “partecipata con delega”, votiamo i nostri “beniamini” sperando che essi realizzino ciò che ci serve, è quella speranza a spingerci a votare, ancora una volta riposta in altri e ben distante, distaccata dalle nostre azioni perché, anche se siamo attivi militanti, le decisioni importanti poi le prendono quelli che, secondo noi, avremmo delegato a farlo, ma non sempre collimano con quello che ci aspettavamo o che ci eravamo “ripromessi”, quasi mai.
Se tutte queste speranze, un bel giorno, divenissero anche solo labili consapevolezze, se ognuno si desse veramente da fare, si attivasse nel suo piccolo a cambiare le cose partendo da se e lasciando a chi non ha davvero altre possibilità la speranza, si potrebbe certamente arrivare a soddisfarne parecchie, tanto da potere smettere di nutrirne di nuove perché le si starà già realizzando, anche quelle.
Non sperare che le cose cambino ma cambiarle, ogni giorno anche un solo piccolo pezzo, è il cammino più sostenibile che potremmo metterci davanti se davvero vogliamo dare esito a quell'aspettativa che chiamiamo “speranza” ma che altro non è che una necessità innata, un bisogno vitale del quale, sperando e delegando, ci siamo abituati a farne a meno.
Non è un caso, se di lei dicono sia “l'ultima a morire”, perché oltre lei, è provato, non resta null'altro, mentre dalla consapevolezza e dall'azione, nascono sempre tantissime, nuove e realizzabili possibilità.
« Keating: "Cogli l'attimo, cogli la rosa quand'è il momento"... Perché il poeta usa questi versi?
Dalton: Perché va di fretta!
Keating: No! [finge di premere un pulsante] Ding! Grazie per aver partecipato al nostro gioco. Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Adesso avvicinatevi tutti, e guardate questi visi del passato. Li avrete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai guardati. Non sono molto diversi da voi, vero? Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni, come voi, invincibili, come vi sentite voi. Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi, i loro occhi sono pieni di speranza, proprio come i vostri. Avranno atteso finche non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi ora, sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito: Carpe… Carpe diem… Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita! »