Li ho visti stamattina sparsi come un nugolo di insetti.
Oltre duecento bimbetti della scuola media a cui abbiamo offerto asilo politico per le condizioni del loro istituto, reso inospitale dall’alluvione.
Noi siamo vicini a loro.
Vicini territorialmente e vicini col cuore.
Ho visto i loro occhi curiosi, ma anche smarriti.
Vagavano con quell’ingordigia tutta infantile desiderosa di fagocitare il mondo, ignara forse dei disagi che la situazione porta con sé.
Parlavano sottovoce, mentre percorrevano i corridoi che conducevano alla loro nuova sistemazione. Guardavano dal basso in alto i ragazzoni delle classi V e non solo per una questione di altezza, era uno sguardo sottomesso il loro.
Timoroso e ammirato.
Sono i bambini dell’Istituto Comprensivo, termine col quale si intende un immobile che accorpa diversi ordini di scuola. Solitamente scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado.
Ogni manuale di pedagogia che si rispetti sconsiglia di provvedere all’accorpamento anche della scuola secondaria di secondo grado, perché le dinamiche comportamentali degli adolescenti mal si conciliano con quelle dei bambini.
I nostri alunni hanno gli ormoni spettinati, sono desiderosi di dimostrare al mondo che ormai sono cresciuti, che sono in grado di decidere le regole e spesso, per urlare la loro presenza, quelle stesse regole le infrangono in una provocazione continua.
Diciamo che i nostri ragazzi non sono tutti splendidi splendenti e, insieme ad una moltitudine di alunni bravi e rispettosi, ne custodiamo anche qualcuno che proprio bravo e rispettoso non è.
Mi ero scordata un libro in macchina e, mentre mi accingevo a tornare in classe dopo il suo recupero, in un corridoio semideserto ho visto in lontananza uno di quei piccoli nuovi arrivi, solo e smarrito che probabilmente al rientro dal bagno non trovava più la sua nuova aula.
O forse in bagno ci stava andando e non si orientava bene nella grandezza del nostro edificio.
Dall’altro lato del corridoio uno di quei ragazzoni poco splendidi e splendenti anzi, diciamolo pure, abbastanza, opaco gli andava incontro.
Sono rimasta lì ferma, un po’ nascosta, a monitorare la cosa.
Con vent’anni di servizio sulle spalle ho avvertito che si stava per delineare una situazione che, per dirla in termini assolutamente attuali, presentava un livello di criticità abbastanza elevato.
Il ragazzone si è avvicinato al piccolino, si è chinato e gli ha detto qualcosa che la distanza dai due mi ha impedito di sentire. Il bimbetto gli ha risposto qualcos'altro, con vergognosa fronte direbbe Dante.
Non lo guardava in faccia, si osservava le scarpe.
Era evidente che subiva quella presenza con disagio e soggezione.
Fino a quando quello alto si è proprio genuflesso accanto a lui, gli ha sistemato la sciarpa che gli pendeva da un lato, lo ha preso per mano e sono andati insieme non so dove.
Ed io allora sono rimasta lì un’altra manciata di minuti a ricacciare in gola quel nodo nodoso che m’impediva di inghiottire.
Sono rimasta lì un’altra manciata di minuti a ripiegare la moltitudine di pensieri per metterla in tasca e custodirla con cura, ché simili emozioni non devono andare via in pochi istanti.