A cercarle le parole magari le trovo pure, ma con custa basca a Buoncammino non è cosa. Ci ho ho buttato fuori a Mariolino che era dormito da ieri sera, incazzato perdiu perchè l’italia ha perso e ne è uscita dai mondiali. “O Mariolì “ l’appo nau, “a me la finisci che quelli solo per quel giorno hanno fatto i soldi che noi manco tutto l’anno”. E quindi a me m’indimportada pagu della sconfitta degli italiani. E poi, a dire il vero, noi siamo sardi e il Cagliari ai mondiali non c’è. Solo Ibarbo che gioca con la colombia e Antonello su biu tifa la colombia. Antonello si chiama su biu perchè è il cugino di antonello su mortu, che l’hanno preso a Olbia con un pacco di roba e lui, scimpru, non mette a manetta davanti agli sbirri e corre e non vede un palo e si ci sfracellada tottu. L’hanno raccolto che manco il cane antidroga capiva quale era lui e quale era la coca. Tutto perso e questo già è dispiaciuto un pochettino. Comunque, stamattina a mente tiepida, perchè freddo in galera non ce n’è manco a bastone, ci siamo trovati io Antonino su biu, Mariolino e Francesco sbrindellato, fissato con le moto e con Valentino Rossi, uno che di calcio non ne capisce niente tanto che quando Mariolino poco poco incazzato ha detto che Prandelli ha fatto male a lasciare Pepito Rossi in italia, Francesco ha subito detto che era d’accordo che Valentino era meglio di Balottelli. Unu maccu totalmente imbreagu. A me Balottelli non mi è mai piaciuto, manco quando giocava nell’Inter e mi che sono cagliaritano di nascita e interista di adozione, quando una mia pivella si era innamorata di Bergomi e mi avevo fatto crescere i baffi come lui e mi ero anche comprato la maglia. Poi, una sera mi dice: A ci andiamo al sant’elia che domenica l’inter gioca con il Cagliari? E io amico di tutti gli sconvolts a le potevo dire che non potevo andare nei distinti dalla parte degli ospiti? E lei allora mi ha detto che se l’accompagnavo a tifare Inter me la dava. Mi sono messo un cappello in testa e occhiali scuri e lei ridendo che quasi pioveva e itta cintrana gli occhiali , e io non ti preoccupare e intanto seduti alla gradinata cominciavo la tecnica del polpo ma lei a dire che me la dava solo se l’Inter vinceva. E non vince il Cagliari? Insomma, la pivella non me l’ha data ma sono rimasto interista perché aveva perso con il Cagliari. Comunque, tornando alla partita, e che cosa dobbiamo dire? Parlare ne abbiamo parlato, in galera, tanto, le parole già si sprecano che sembriamo tutti scrittori di romanzi. Adesso tutti a dire del morso a Chiellini, tranne quelli anti juventini che ce ne sono sia al destro che al sinistro contenti perché chiellini già non è molto simpatico. Ed è vero. La cosa più incredibile della partita che sembravano fermi come gli uomini del calcio balilla che abbiamo nella sala socialità. Adesso siamo tutti più tranquilli perché non c’è più l’Italia e possiamo tifare quello che ci piace come io che tifo più Cagliari dell’Inter perché tanto la mia nuova pivella non ne capisce di calcio e fuorigioco, come immobile, cognome che ieri gli stava come un capotto di alta moda. Insomma, io tifo Argentina, Mariolino ha detto che tifa gli olandesi che magari arrivano ancora in finale a perderla torna, Antonello su biu tifa Ibarbo e la Colombia e Francesco ha detto che tifa Germania in onore di Schumacher che è amico di valentino rossi. Boh boh, il sole a Buoncammino a volte scalda troppo le teste. Già vi faccio sapere come continua. Sempre se quelli di sardegna blogger mi danno l’incarico a scrivere.
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Pallone a sbarre (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Sassari, Germania - Portogallo 4-0) Diario dei mondiali di calcio – sesta puntata Oggi in questa galera che sembra un deserto e quando penso a S.Sebastiano mi metto a piangere perchè conoscevo tutto anche i sorighi, abbiamo giocato una partita a calcetto nei passeggi. Sul cemento, che la bagassa loro se cadi finisci subito in infermeria. In ogni caso c’erano due squadre pronte a vincere a tutti i costi: La germania e il Portogallo. Io, Antonio lu tedesco, Mariolino millibrinchi, Francesco la tana e marcellino birretta eravamo la germania. I portoghesi erano invece tre stranieri che non ne conosco bene i nomi e li chiamiamo Alì, Alà e dalialà, Portez detto Cristoforo Colombo e un rumeno un bè fissato con Cristiano Ronaldo e, infatti l’abbiamo chiamato Lu setti. Abbiamo perso di brutto e Marcellino si è tirato a terra tutto incazzato. Non se ne voleva andare dall’aria. Ajò gli ho detto che devi cucinare e lavare i piatti che ti tocca e non fare come Inzaghi chi “candu lu sfiorani pari sempri murendi”. Io, poi ho detto a Cristoforo Colombo che stasera tifo Germania perchè a me i portoghesi mica mi piacciono. Ci siamo lasciati così. Ne abbiamo raccolto a birretta da terra e ci siamo messi in fila, tipo spogliatoio per tornarcene a casa. In cella. Stasera la partita è alle sei, giusto all’ora di sbobba. Perchè in galera, per chi non lo sapesse, è come l’ospedale dove ne hanno tolto il fegato a babbo: alle cinque e mezzo passa il carrello della cena e se ne vuoi bene se no ti arrangi. E noi ci arrangiamo. Cuciniamo per i fatti nostri. Oggi un bè di insalata così ci riempie la pancia e filetti di merluzzo fritti che Birretta li fa davvero un bè bene. Tra questo e le scommesse sulla partita ci siamo seduti. La squadra di calcetto non è la squadra della cella ma abbiamo chiesto la socialità e ce l’hanno data. Adesso ci ascoltano e ci fanno stare più larghi che rispetto a san sebastiano ci sembra di essere all’aeroporto e quasi ci perdiamo. A me i tedeschi mi fazini ischiffu, ma a calcio sono bravi e ho una mia teoria. Se vincono e passano il turno come primi e anche noi arriviamo primi poi, con loro, ci vediamo in semifinale e li castighiamo. Come nel 1970 e nel 2006. Solo che Antonio lu tedescu non li sopporta e lui si chiama così solo perchè è biondo e solo Mariolino millibrinchi mi da un po’ di ragione ma dice che sicuramente il Portogallo è più forte perché lo dice lu setti. “Ascò bello bè,”gli ho detto “mi chi un cristiano ronaldo non può giocare a la sola che non è Mandrake.” Mariolino sorride e dice: “e a te lo ricordi a Mandrake contro la Spagnola? Dezi a zero li ha fatto”. Tutti cominciano a ridere e gli diciamo di smetterla con la coca e le pasticche nascoste. Perché Mariolino è fatto così: tossico perso , si ciuccia le pastiglie davanti all’infermiere, ma solo un pò e poi le sputa e le fa asciugare alla finestra. Poi se ne mette insieme un cinque o sei e se le fa con la coca cola e dopo un pò si mette a letto e comincia a brincare che sembra una cavalletta. Ecco perchè lo chiamiamo millibrinchi. La partita comincia male. Rigore per la Germania e Mueller segna. “Cazzo Antò”, dice Birretta “ma chistu da quando c’era giggi riva continua a segnare”. “Mi che non è lo stesso mì, “ dico io e gli giro con uno schiaffo ai capelli e mi guarda male. Germania uno Portogallo zero. Sentiamo l’urlo di terrore di Lu setti dall’altra camera. Non gira dico io, la perdete. E girami li.... insomma ne buttano uno del Portogallo fuori e poi segna il due a zero la Germania. “Abà comincia la vendetta, “dice Birretta ma si capisce che lo dice così, giusto per parlare, così come in tribunale quando ci stavano condannando e sette anni. Lui si avvicina all’avvocato e dice e cosa facciamo avvocà? Ci prendiamo sette anni? E l’avvocato serio gli dice: “non ti preoccupare, ci vendichiamo in appello”. Nove anni ci hanno dato, la bagassa loro, in appello. Manco finito il pensiero che Mueller fa il tre a zero. Antonio comincia ad incazzarsi davvero: a me chistu Muller non mi piace molto. Alla fine del primo tempo passa l’assistente e ci dice se vogliamo andare alla sala socialità che c’è il televisore perché adesso hanno inventato questa cosa della socialità e che i detenuti devono stare bene. O appuntà, a casa nostra stiamo bene, a lo vuole capire? Birretta lava i piatti e noi ci fumiamo una sigaretta. La cosa che funziona in ogni carcere è la possibilità di fumare sempre e da tutte le parti. Ma secondo gli educatori questa cosa non dura che dobbiamo fare le cose come le fanno fuori. A me mica mi piace questa novità di fare gli educati. Il secondo tempo non ha molta storia e si capisce che i crucchi ne capiscono di calcio. Mi dispiace aver tifato la Germania ma sono davvero forti. Solo che non mi ricordo manco un nome tranne quello che solo a calcio poteva giocare e si chiama Kroos. Fanno subito il quattro a zero tripletta di Muller e tutti a casa. Io penso che ci troviamo in semifinale, Birretta dice che il portogallo già passa, Antonio risponde che a lui i tedeschi gli stanno sulle balle a prescindere e con noi perdono sempre, millibrinchi è stirrigato sul letto e russa alla grande. Adesso ci tocca il telegiornale e le cose della vita. Domani altra partita. Io ho deciso che dobbiamo giocare ai passeggi con quelli della cella sette e otto. Che sono sagome. magari con quelli vinciamo e ci portiamo a casa la stecca di ms. Che male non fa. Mi chiamo Pedro Celachè e sono honduregno. A Regina Coeli mi chiamano tutti coccodè perché mi hanno beccato a Fiumicino con una pancia piena di ovuli che ho dovuto espellere in questura prima di finire in carcere. Quindici anni. Mica pochi. Era la seconda volta che facevo il trasportatore. Ad Amsterdam mi era andata bene. Lavoro abbastanza semplice e ben remunerato. Insomma, qualcuno, ne sono convinto, mi ha venduto per far passare un altro con più ovuli. Non si spiega altrimenti l’attenzione spasmodica nei miei confronti da parte della polizia. Sono qui a guardare Francia Honduras con i miei compagni di cella. Dico subito che ho un tifo amico. I francesi non sono ben visti a Roma e in Italia in genere. Almeno a livello calcistico. Tutti ricordano la testata di Zidane e Materazzi in questa sezione è, pur essendo interista, una sorta di eroe. Nella mia cella siamo in tre: io, er carota detto così perché quando si arrabbia arrossisce tutto e il vikingo, capelli lunghi, barba bionda e terribilmente tifoso della magica. Che sta per la Roma. Il problema più grosso in questa sezione è la discussione tra laziali e romanisti. Ci sono ortodossi che fischiano ad ogni palla che tocca Candreva. Anche il vikingo non lo ama molto ma quando ha fatto il cross e Balotelli ha segnato ha esultato e ha detto: “an vedi sti negri e sti burini”. Comunque hanno deciso di tifare Honduras. Anche un altro, nella cella a fianco ha affermato di tifare gli honduregni. Lui è interista, mal visto da queste parti, ma siccome è sardo e ha la foto della Canalis che ha avuto una storia con Vieri, tutti lo rispettano. E’ di Sassari e dice anche che è parente lontano della Canalis. Non so se sia vero, non so neppure dove sia Sassari. So solo che la Canalis, quella del calendario, è messa abbastanza bene e potrebbe giocarsela con chiunque. La partita è vaporosa, non c’è l’enfasi di Italia-Inghilterra e noi facciamo la figura degli agnelli sacrificali. Dobbiamo perdere per forza. Il vikingo ha in mano una cipolla e prepara la cena. “A coccodè” mi dice “me sa che oggi piagnete” e mi mostra la cipolla. Purtroppo non c’è bisogno di surrogati. Quelli, i francesi, hanno Benzema e si capisce subito che è la sua serata. Infatti: rigore, gol quasi gol e poi autogol e gol di forza, di prepotenza. 3-0 e addio Honduras. Poco tifo, poche occasioni, qualche pacca sulle spalle da parte di Er carota che è rimasto bianco latte per tutta la partita a differenza di quella con l’Italia che pareva una fiamma incandescente più che una carota. Ci sediamo a cenare in una cella di dieci metri quadri. C’è poco spazio e dobbiamo spostarci uno per volta. I mondiali però fanno trascorrere il tempo abbastanza velocemente. Il vikingo mentre addenta una mela dice: “Ahò, se stavo fori me vedevo l’Argentina che a casa c’ho Sky. Sti morti de fame der gabbio stanno ancora con la rai”. Io sorrido e penso a Messi. Il mio giocatore preferito: la pulce. Questo vorrei essere per fuggire da queste sbarre. “A coccodè”, dice er carota “me sa che ve ne ite a casa”. Sorrido mentre comincio a lavare i piatti. E’ il mio turno. “pensa che fortuna”, rispondo “loro ritornano a casa. Io qui, ancora per tredici anni”. Er carota non risponde. I mondiali, in fondo, sono solo una parentesi colorata dentro una galera. (traduzione a cura della redazione di Sardegna blogger) Io l'ho detto subito che non sono sano. Ma quelli di sardegna blogger, che manco so cosa vuol dire, mi hanno detto scrivi, scrivi. E io devo raccontare di Italia Inghilterra dal carcere di Buoncammino. Siccome sono nato vicino allo stadio di Sant'Elia io di calcio ne capisco. Anche di scippi e droga. Tifo Cagliari, giusto per essere chiari con tutti i caghini che hanno un'altra squadra ma, quando gioca l'Italia non si discute. Infatti al sinistro tutti tifano Italia, anche quelli scoppiati parecchio tipo Antonello detto fiamma, perché si è bruciato la faccia con il fornellino e gigi lo storto che io l'ho sempre chiamato così perché mica è storto solo che gli vanno tutte storte le cose che fa ed è sempre in galera. Mica che a me mi vada meglio ma più fuori di lui sono stato. Insomma, vi parlo di questa partita che è già finita e tutti siamo contenti. All'inizio mica era così. Dico subito che gli inglesi mi stanno sulle p. (quelli del blogger mi hanno detto che non si scrivono parolacce e quindi per me è un casino, ma casino si può dire? Boh) perché io una volta sono finito anche in carcere a Londra per due etti di fumo. Posto di m. il carcere di Londra. Non è che puoi lavorare o fumare tranquillamente. Li lavori a gratis e le sigarette solo dieci al giorno, che manco in comunità. Dunque gli inglesi devono morire a prescindere. Minchiolino, quello si chiama così e non vi dico perché, prima di vedere la partita è andato dal dottore e gli ha detto che era più scoppiato del solito e vedeva cose strane e non poteva dormire e che voleva il tavor. Quello non so come gli ha dato una bella razione e alle undici era drommiu perdiu e gli abbiamo dato quattro schiaffi quando è cominciata la partita. Siamo in quattro in cella, io, minchiolino, antonello su nordista, che è di Olbia e quindi del nord, e Tonino pigadinni e anche questo non lo spiego sennò mica me lo pubblicano. Insomma tutti a tifare Italia e soprattutto Sirigu che noi lo chiamiamo siringa, perché ci ricorda i nostri bei tempi andati di eroina e coglionate ( e si può dire? boh). Insomma a me mi dispiace che non c'è Buffon ma Tonino mi dice subito ma pigadinni tu e Buffon che è uno scoppiato antico. Poi però lui tifa Inter e allora gli dico che di calcio non ne capisce niente e dimmi un nome di un interista in nazionale e mi dice nagatomo. Oh tonino, gli dico, ma pigadinni e cittudidda che non ne capisci di pallone. All'aria stamattina abbiamo deciso che al gol dell'Italia si devono sbattere le gavette ma poco, sennò ci fanno rapporto. Minchiolino, come sempre, da ragione a noi e a me che sono per anzianità il capo della cella e lui a volte mi fa anche il letto, ma solo perché è più bravo. Niente birra perché adesso in questa galera siamo diventati no vino, in inglese e non capisco cosa c'intrada sa birra ma solo fanta e coca cola. E vabbeh. Manco ci sistemiamo davanti alla televisione perché in cella anche se piccola ci sono sempre cose da fare, tipo lavare le pentole e pulire il cesso e scrivere alla pivella, che Marchisio ti tira un calcio che manco lui lo capisce e segna. Gavette a molla, urla e cori contro gli inglesi. Sentiamo anche il casino che fanno al destro e anche l'agente passando dice non fate troppo casino e si capisce che il troppo non è lo stesso troppo degli altri giorni. Poi manco finito il casino che quello scimpru di inglese prende e segna. Io, una cosa la voglio dire ma tra tanti italiani proprio l'argentino più cretino ci dovevamo portare ai mondiali? capisco se uno si porta a Maradona o a Messi e allora siamo messi bene, ma questo Paletta non vuole visto. La discussione dura molto, minchiolino lo difende ma lui ne capisce quanto il suo nome, tonino gli ha tirato una decina di pigadinni in su ..... mentre antonello su nordista parla solo di siringa Sirigu che è di vicino a casa sua e che è il migliore della partita. Dentro questa discussione ci siamo dimenticati di togliere il latte dal fornellino a gas e succede un casino. Fine del primo tempo e minchiolino si è torra dormito. Vicino alla nostra cella se la prendono con Ballottelli che adesso si sposa e quindi pensa ad altro. Minchiolino si sveglia e dice subito e mica cussu è caghineri. Insomma le sigarette riempiono la cella di fumo quando lui, Supermario prende una palla incredibile e la mette dentro. Le urla sono più forti e tutti ci abbracciamo. Mi che stiamo facendo una bella figura. Poi c'è stanchezza, molto umido e molto caldo. Questo dice il commentatore e noi sbuffando e fumando diciamo eh... per un mese anche in albergo siete. E noi, una basca che c'è dalla cinque del mattino, una cella che ci sembra l'amazzonia e che se strizziamo le lenzuola esce acqua per la pastasciutta. Gli ultimi dieci minuti sono molto silenziosi. c'è l'ispettore che passa ogni tre minuti e allora, e allora, e allora. Allora zitto ispettò che porti sfiga che ne abbiamo abbastanza. Quando fischia l'arbitro siamo tutti felici e ci beviamo una bella coca cola. Questa storia della birra non si capisce, scriveremo al direttore si ci autorizza almeno per l'Italia. Vi farò sapere. Minchiolino adesso gli è passato l'effetto del tavor e ha due occhi grandi come un gufo e non ha voglia di dormirsi. A me quelli di sardegna blogger mi hanno detto che mi fanno scrivere solo se vince l'Italia. Spero di diventare un grande scrittore allora. Alle tre del mattino tutto il carcere dorme. Io mi corico dopo l'ultima sigaretta e, mentre sto per dormire, Minchiolino mi guarda e mi dice: a te lo immagini se c'era anche Zola? Tonino si gira nel letto e gli risponde Oh minchiolino ma pigadinni in su c...... Insomma, le solite cose da galera. Quelli di Sardegna Blogger mi hanno chiesto di commentare la partita Spagna Olanda. Mi hanno pregato inoltre di spiegare come si vive la partita attimo per attimo dentro la cella di un carcere. Ho detto si. Consapevole di essere uno spergiuro e quindi di non poter dire mai la verità. Ho attesto che l’Olanda con Robben firmasse il quinto gol e ho deciso di provare a dirvi quello che penso. Il pallone non è rotondo, ma ha trovato giustizia. Certo, dopo quattro anni ma con gli interessi. Quell’Olanda eterna seconda si è presa il gusto di umiliare i campioni del mondo come mai era accaduto. Il mio compagno di cella era per gli spagnoli. Io, come sempre, per chi vince. Annuso l’aria e osservo gli occhi. Poi non mi faccio fregare al primo gol. Che era della Spagna. Ho capito, fin da subito, che non c’era la squadra, non c’era il tiki taka, non c’era Iniesta, Xavi, non c’era la squadra. Il mio compagno, rapinatore solitario, mi ha detto, fin da subito, che le furie rosse vincono con calma. Son diventate più rosse e meno furie. Chissà. Ai passeggi, stamattina si accettavano le scommesse. La Spagna era favorita. Quando Xavi ha segnato il rigore ho pensato che avrebbero perso. Facile dirlo adesso. Certo. Sono furbo. Questo l’ho sempre saputo. Tre rapine commesse e solo una pagata. Un buon ritmo. Per dire. In carcere, il pallone è la metafora della vita. Provo a spiegarlo. Mi chiamano il professore. Perché avevo un certo portamento nelle parole anche quando compivo le rapine. E davanti ai ragionieri impauriti mi scusavo. Avevo letto Brecht e ero profondamente convinto che i veri rapinatori erano i banchieri, mica i poveri bancari. Mai sparato un colpo. Mai. Ho visto la Spagna squagliarsi davanti ad una squadra allegra, felice. L’Olanda arriverà anche alla finale e la perderà. Un pò come la mia vita. Sono giunto alla rapina più bella e proprio quella mi andò male. Quindici anni. Non si può perdere cinque a uno e rischiare il sesto e il settimo e sbagliare vergognosamente con il Nino almeno il secondo gol. Non si può. Questa è la vita. Ho scommesso stamattina due pacchetti di sigarette sulla Spagna. Le ho perse. Ma scommettere non significa tifare. Stasera ho scoperto che il calcio non è mai banale. Non poteva finire in quel modo. Eppure è finita. Ho detto le stesse parole quando Marta mi ha lasciato. Mi ha segnato troppi gol e io come uno stupido, aspettavo di poter vincere. Non mi ero reso conto che i piccoli passaggi, a volte, non regalano ampie soluzioni, ma solo piccole opportunità. E ho perso. Come la Spagna. Quelli di Sardegna Blogger chiedevano una mia cronaca sulla partita. Forse non ci sono riuscito. Il carcere, a volte, complica le cose. Domani, però tiferò da questa galera del Veneto quella pazza e incredibile Italia. Noi, nella nostra cella siamo in nove. Quasi una squadra di calcio. E siamo tutti per l'Italia. Non ci siamo scelti, il destino ha lavorato per noi. C'era un algerino sino a ieri ma è stato scarcerato. Teneva per il Camerun ma ci aveva promesso di tifare Italia se fosse rimasto. la sua partita, almeno lui, l'ha vinta. Noi siamo qui, al caldo ad aspettare la mezzanotte. In carcere, per fortuna, si aspetta sempre qualcosa e si aspetta a volte per giorni, mesi, anni. Non solo la libertà anche un pacco dei familiari, una lettera, una visita, un sorriso. Mai un abbraccio. Il carcere è il sottosuolo della vita vera, quella reale, quella che si sposta velocemente. Credo che la giornata degli altri sarà più o meno normale, lavoro,figli, pranzo, qualcuno al mare, siesta, amici, bar e, solo a mezzanotte con una birra davanti si metteranno a guardare l'Italia. Qui, invece, qualche piano più sotto, l'attesa per la partita è l'unica cosa che ci proietta verso qualcosa di serio, di intenso. Ne parliamo da giorni. La cella dodici, per esempio, ha messo tutte le foto degli azzurri sui muri. Teoricamente non si può fare, solo teoricamente però. Come non si dovrebbero mettere quelle della Canalis o di Belen. Sopratutto adesso che in questo carcere il comandante è una donna. Ma non ha mai protestato. Quando passa guarda e non dice niente. Sono solo piccoli vezzi del sottosuolo. La cella sedici, invece è totalmente per la Spagna. Piena di spagnoli e qualche italiano scemo, da ieri sono in religioso silenzio. Contano ancora i gol presi dagli arancioni. Sono cose che fanno male. Nella nostra pittoresca sezione, la terza del primo piano, tutti hanno la loro squadra: russi, svizzeri, messicani, croati. Quelli che non c'è l'hanno solitamente si buttano sul Brasile e sull'Italia per paura. Paura di essere sfottuti, sia chiaro. In carcere una partita di calcio è un evento mediatico unico e irripetibile. Quando gioca l'Italia nessuno si muove, nessuno si taglia, nessuno tenta il suicidio, nessuno comincia una rissa. Semmai dopo. Subito dopo o molto dopo. Dipende da come è andata. In carcere, nel sottosuolo della vita, il pallone non è rotondo ma è la voce della libertà, un modo per poter urlare senza prendere rapporto quando la tua squadra segna, la possibilità di essere insieme, nel tifo anche con i poliziotti, anche se stanno lavorando e mantengono un certo comportamento quasi asettico. In carcere c'è sempre qualcuno che si allena alla partita anche da giorni. Un allenamento legato a nascondere le lattine di birra. Accumulare per qualche giorno per poi avere la possibilità di bercele tutte in una sera. È vietato. E lo sappiamo. Infatti, la paura è la perquisizione proprio il giorno della partita. Lo hanno fatto ieri alla quarta sezione, quella dei napoletani. Ma loro esagerano con il prepartita: erano due settimane che accumulavano e, più di qualcuno che se l'ha cantata, era proprio evidente che c'era troppa birra dalle loro parti. Noi, nella nostra cella siamo stati bravi, solo tre lattina a testa. La prima quando inizia la partita, la seconda all'intervallo e la terza per brindare. Brindare cosa? Magari si vince o si pareggia ma perdere non è contemplato. Nel sottosuolo perdiamo soltanto e non possiamo permetterci cose del genere. Se si perde è perché gli inglesi hanno rubato e la terza lattina c'è la beviamo per rabbia. Qualcuno dice che gli spagnoli sono terribilmente tristi e minacciano il suicidio. Non è vero. Hanno solo deciso di vincere tutte le altre. Come dice il mio compagno di cella Mario, detto il sordo, perché fa sempre finta di non sentire: "non dobbiamo mai pensare al fallimento di una rapina, ma dobbiamo riflettere su come fare bene la prossima". Il sordo di rapine ne ha fatte parecchie e qui, nel sottosuolo ci campa da una vita a riflettere. Io non so come va a finire questa partita. So però, per certo che nessuno nella nostra sezione tifa per l'Inghilterra. Squadra poco amata dalle nostre parti. L'ispettore sardo, all'aria stamattina ci ha salutati e ha sorriso. Lui, quando Zola segnò all'Inghilterra, a Wembley, nel 1997, era di servizio a Pianosa e quella partita se la ricorda ancora. Noi abbiamo restituito il sorriso e gli abbiamo detto che stanotte, a mezzanotte tutta l'Italia tiferà gli azzurri. Anche noi del sottosuolo. Aspettando un nuovo Capello e un piccolo grande Zola. Buona partita a tutti. Ho deciso di tifare Brasile. Mica devo essere sfigato anche nel calcio. IL mio compagno, diciamo d’avventura, tifa i croati, quelli a scacchi, che solo per la maglietta strana manco morto li avrei tifati. Vabbeh, il gusto di perdere il mio compagno ce l’ha. L’hanno preso mentre faveva il palo ad un furto anche facile. Lui stava andando via frusciando tranquillo e invece, la sfiga lo perseguita: e non c’era un maresciallo che passava per caso da quelle parti? Dentro, senza manco una prova. Allora ha detto che tifa solo squadre sfigate che magari vincono. Eh... gli ho detto, allora ne vinci di mondiale. A lui però non interessa vincere. A uno che fa il palo in un furto cosa possiamo chiedere? Mi sono acceso una sigaretta perché la partita comincia. Faccio sempre così quando inizio una competizione. Anche a casa, quando mi capita di essere a casa. Ho visto il mondiale del 98, quello vinto dalla Francia in un carcere della Liguria. Avevo deciso di tifare Brasile e non è andata molto bene. Quello del 2006, vinto dall’Italia mi ero fissato con la Francia e ho pagato due stecche di Marlbor ad un marocchino che tifava Italia. Odiava i francesi e odiava Zidane. Per me, invece, Zidane era il calcio. Nel 2006 ero in galera nel Lazio. Tutti tifosi dell’Italia, tranne io e il serpichino, uno stronzo napoletano che tifava Argentina perché lui tifa solo Argentina, perché Maradona, per lui continuava a giocare. per sempre. Gli ultimi mondiali li ho visti a casa. La mia donna era sempre incazzata perché mi ero fissato con le squadre e tifavo l’Olanda. Poi hanno vinto gli spagnoli. Che mi sono anche simpatici, ma una volta avevo un compagno in cella. Uno spagnolo che rubava le sigarette e voleva vedere solo telenovelas. Adesso con il mio amico che si chiama Franchino, lui dice perché dice sempre la verità, io dico perché il nome è uguale alla sfiga e al lavoro: un palo sfortunato mica può avere un nome serio. Insomma comincia la partita e mi sembra che i verdeoro non giocano a calcio. Camminano in silenzio. Neppure la sigaretta riesco a finire che quel Marcello che mi sembra la controfigura di Ficarra segna dalla sua parte. Autogol. I verdeoro. A Casa loro. Mi guardo il mio compagno di cella che rimane fermo. E ci provasse a urlare Franchino che in sezione lo ammazzano. Tutta la sezione è brasiliana. Poi, quando gioca l’Italia, tranne due rumeni, tiferemo gli azzurri. Io non ci posso credere che il brasile può perdere la partita. Non è possibile che un palo di un furto e anche sfigato può vincere. Non è mai successo. Adesso passa anche l’appuntato che ci chiede come è la partita e io gli rispondo che non siamo messi molto bene. Lui sorridendo dice, vedrai che i più forti vincono sempre, come nei film che vinciamo noi. Cosi mi dice l’appuntato e quasi quasi gli rispondo ma poi mi prendo rapporto e mi perdo i giorni e mi tocca il consiglio di disciplina e magari mi danno l’isolamento e non mi vedo le partite. Vincono loro. Ma loro chi, dico io? Franchino sorride ma a me sembra si sia pentito di tifare quelli tutti pettinati e zitti. Non sanno neppure gioire per un gol. L’appuntato ripassa e chiede quanto siamo e gli rispondo che i forti perdono e non è come nei film. Magari vince davvero la Croazia. E invece c’è quello piccolo che corre e fugge che prima pareggia e poi segna il rigore. Rigore da non dare dicono tutti. Anche io. Ma siccome ci faccio il tifo sto zitto. Fino al terzo gol di Oscar. Ecco. Franchino è sistemato lui e la sua vita da palo. Almeno stasera, mentre salgo sul letto a castello ho vinto qualcosa. E lo sai perché tifo Brasile? Lo chiedo a Franchino ma non mi risponde. Perché loro sono poveri. E sfigati. E giocano con il pallone sulla sabbia. Come quel maledetto nostro campo di calcetto. Sabbia e pietre. Ecco perché tifo Brasile. L’unico problema che anche l’appuntato sta con il brasile. E quindi, per una notte abbiamo vinto tutti: guardie e ladri. Il gioco del pallone è la metafora della vita. Queste sono cose che si imparano da grandi. Quando sei piccolo ti devi schierare e devi “tifare”. La scelta cade sul calciatore che più ti attrae più che su una squadra. Ai miei tempi, poi, era semplicissimo: il calciatore giocava quasi sempre con la stessa squadra. A cambiare “maglia” erano solo quelli con meno luce “addosso” non erano i fuoriclasse. Ai miei tempi però c’era da effettuare una scelta radicale e a quell’età fu importante e segnò il futuro calcistico (niente di serio, per carità) di tante generazioni: molti cominciarono a tifare il Cagliari. Non i giocatori di quella squadra ma il Cagliari che rappresentava, almeno allora, la Sardegna. Lo era anche per i sassaresi, gli olbiesi, gli algheresi. I campanili, a quei tempi non esistevano. A dieci anni, poi, il calcio era solo uno splendido gioco dove la passione e la voglia di esultare era la felicità di un bambino. Di Rovelli e di Moratti i bambini non sapevano nulla, ma di Gigi Riva e di Sandro Mazzola conoscevano praticamente tutto. Erano figurine, icone di quel periodo. Arrivò lo scudetto e scesero sull’isola giornalisti seri, importanti, tutti a raccontare, a provare a capire cosa fosse successo di antropologicamente importante. Qualcuno scrisse che lo scudetto rappresentava un riscatto per l’isola. Io, sempre dentro i miei dieci anni, contavo i giocatori del Cagliari nella Nazionale del Messico, quella che arrivò seconda al mondiale vinto da Pelè. Quella con Nicolai in mondovisione (la bellissima battuta è del compianto Manlio Scopigno). Poi, dopo quello scudetto, piccoli sussulti, cambi di presidenza, scoperta di non avere più imprenditori in grado di gestire il giocattolo, discese in serie minori sino a quando Massimo Cellino, nel 1992, acquisto il Cagliari: un ragazzo con la faccia da simpatico gaglioffo; un po’ rocker e un po’ spaccone, un giocatore di poker sempre sorridente che portò il Cagliari nell’inferno della serie B per riportarlo poi in A. Che cambiò decine di allenatori, che usò la scaramanzia come assoluta religione che finì, come Napoleone, due volte sulla polvere (due parentesi nel carcere di Buoncammino) e qualche volta sull’altare. Adesso molla. Vende tutto, dopo la fuga personale a Miami e dopo aver acquistato una squadra inglese, il Cagliari Calcio passa la mano. Arrivano gli americani. Chissà. Magari sarà la svolta, magari sarà un fallimento. Ma non ci sono più le figurine, i Pizzaballa, i Nicolai, i Boninsegna e i Carmignani di una volta. Non ci sono più quei bambini che urlavano festanti intorno ad un gioco bellissimo, metafora della vita. E se tutto questo non c’è più è perché un po’ non c’è più Gigi Riva e un po’ perché al posto suo, nel 1992, è entrato in questo strano mondo uno come Cellino. E tutto ha preso un’altra piega. La parola di questi giorni è, indubbiamente, “trattativa”. Si è trattato con Genny ‘a carogna? E chi lo ha fatto? Con quale mandato politico? Tutto questo discutere e discettare mi ha portato indietro nel tempo: esattamente a trentasei anni fa. Proprio il 5 maggio del 1978 le trattative con le Brigate Rosse erano praticamente chiuse. Non ci credeva più nessuno. Probabilmente Craxi tentava di dialogare con frange estremiste di Potere Operaio e con Franco Piperno. Nulla più. Il comunicato numero nove, consegnato il cinque maggio 1978, parlava di “esecuzione della sentenza”. Eppure in quei cinquantacinque giorni si misurarono due grandissime scuole di pensiero: quelle favorevoli a trattare e quelle “conservatrici e irremovibili.” Non si tratta con il nemico e con gli assassini. Non si tratta con le brigate rosse. Questa visione ortodossa racchiudeva la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista italiano. Non tutti gli uomini di quei partiti a dire il vero. Per la trattativa, invece, c’erano quelli del “Manifesto” e molti socialisti. Eugenio Scalfari e la sua “Repubblica” erano assolutamente contro ogni possibilità di mediare e discutere con gli uomini delle brigate rosse. Io, nel 1978 avevo diciannove anni e, diciamolo, ero per la trattativa. Si parlava di salvare la vita di una persona e istintivamente avrei lottato per qualsiasi vita. Così come oggi. Facevo anche un ragionamento politico e, per quei tempi, squisitamente ideologico: avrei preferito Aldo Moro vivo. Sicuramente il corso degli eventi e della storia avrebbe intrapreso strade molto diverse. Oggi, però, la situazione è fondamentalmente diversa. Si doveva giocare una partita di calcio. Non c’erano vite da barattare, solo un pallone per provare a trascorrere un attimo di tranquillità. E poi, diciamocelo: Genny ‘a carogna non ha lo stesso peso politico delle brigate rosse. Nel senso di credibilità. le BR sono state sicuramente più feroci e, purtroppo, più coerenti. Questo ragazzo tatuato, gonfiato, abbronzato, con una maglietta oltraggiosa non era assolutamente credibile. Non si poteva trattare e non si doveva venire a patti per una partita di calcio. Invece, incredibilmente, “uomini degli apparati” (ma chi erano?) si sono avvicinati, hanno discusso, mediato, hanno trattato. Lui, dall’alto della sua posizione, fisicamente ma non intellettualmente apicale, ha speso poche parole e ha deciso che si, si poteva fare. Ha alzato il pollice in alto. “I like” e lo spettacolo è cominciato. E’ il segno dei tempi. Una volta si discuteva di trattare con uomini “assassini” e crudeli, uomini che avevano ingaggiato in nome di un popolo inesistente una battaglia contro lo Stato. Oggi si tratta con uomini “arroganti”, uomini che hanno come valore una battaglia contro se stessi e contro la loro terribile solitudine. Nel 1978, a diciannove anni ero per la trattativa, per salvare una vita umana. Oggi, davanti a Genny ‘a carogna, non riesco a trovare le giuste note su un pentagramma terribilmente stonato. Vorrei trattare per uno sport colorato, dove tutti siano avversari durante la competizione e incredibilmente uniti quando si sente il fischio finale. Vorrei poter dire che anche Genny, in fondo, ha le sue motivazioni. Che però non trovo. E che, sinceramente, non riesco a comprendere. Fu solo fortuna? Nella storia dello sport, la vittoria alle Olimpiadi invernali di Lillheammer nello short track dell’australiano Bradbury viene considerata, in assoluto, come quella frutto delle più incredibili e fortunose coincidenze. Pensate che in Australia hanno ormai coniato un motto, “fare alla Bradbury”, per indicare la riuscita fortunosa e miracolosa di qualsiasi cosa. La scena è resa celebre in Italia dai commenti fuori campo di un gruppo di comici, la Gialappa’s Band, che ridicolizzano l’atleta con battute sarcastiche. http://www.youtube.com/watch?v=u7wUockPJM0 - Bradbury, nei quarti di finale, passa il turno grazie alla squalifica di un atleta che ne aveva spinto un altro fuori pista. In semifinale ne cadono due e lui giunge secondo. Incredibile, Bradbury va in finale, dove si ritrovano 5 atleti, anziché i 4 previsti, per la riammissione di uno degli atleti caduto in semifinale con una discutibile decisione dei giudici che non sembrano esenti da un certo favoritismo. Sono 5 ma in realtà sembrano 4, dato che l’australiano resta avulso da una competizione che schiera dei grandi campioni in una finale combattutissima e di straordinario livello tecnico. Accade dunque il miracolo: all’ultima curva 3 atleti, lottando tra loro a limite del regolamento e forse oltre, si agganciano e cadono, il quarto ci rovina sopra, e Bradbury, restato a distanza di sicurezza, trionfa. Una clamorosa, pazzesca, incredibile, anche se simpatica, ingiustizia sportiva. Fu solo fortuna? Io ci ho visto anche altro. Prendiamo, dunque, quella giovane promessa sempre dello short track che, dopo aver vinto, da giovanissimo, diverse medaglie in competizioni mondiali, ebbe la sfortuna, durante una gara, di trovarsi, dopo una caduta, con la lama tagliente del pattino di un avversario sopra l’arteria femorale. L’atleta nell’occasione rischiò la vita, 4 litri di sangue persi e 111 punti di sutura, e una lunghissima fisioterapia per recuperare la muscolatura della gamba devastata e tornare a gareggiare. La giovane promessa ci impiegò due lunghi anni per tornare quasi ai suoi livelli quando, durante un allenamento, per evitare di tranciare con i pattini un compagno caduto davanti, lo saltava rocambolescamente fratturandosi due vertebre cervicali. Il pattinatore rischio la paralisi, ma grazie alla volontà, con molti sacrifici e determinazione, dopo due anni, riprese persino a pattinare. La carriera del non più giovane atleta sembrava segnata, gli sponsor lo abbandonarono, i tecnici lo sconsigliarono di proseguire, i genitori, preoccupati per la sua salute, lo invitarono a cercarsi un lavoro meno rischioso. Tuttavia, menomato nel fisico e nello spirito, provò ugualmente a proseguire la sua carriera, con molta fatica, perché non era più in grado di reggere pesanti carichi di allenamento e neppure l’equilibrio era più lo stesso. Tuttavia, grazie alla sua caparbietà e con sacrifici inumani, riuscì lo stesso a qualificarsi per le Olimpiadi di Lillhehammer. E qui inizia una storia che non è più sarcastica e ridicola, ma è fatta di umiltà, di intelligenza tattica, e anche, soprattutto, di correttezza. Oltre che, naturalmente, di determinazione. Perché, spesso, raccontare una storia senza conoscere gli antefatti, ci fa capire solo un lato della vita, magari il più scialbo e il più superficiale. E la storia completa di Steven Bradbury non è così sciocca e ridanciana come ce l’hanno voluta descrivere. E ci ricorda che, in fin dei conti, si può anche sfuggire, con un po’ di fortuna, ad un destino crudele. Ma solo volendolo davvero con tutte le forze. Che fortuna e sfortuna non sono proprio cieche, ma solo un po’ miopi.. La sportività e la politica. di Fiorenzo Caterini Avevo preparato con molta cura e molti sacrifici quel campionato sardo di triathlon del 1996, a Porto Rotondo. Non avevo perso un allenamento ed ero in forma. Ero uno dei favoriti. All’uscita dall’acqua, nella frazione di 1500 metri di nuoto in mare, inforcai al volo la bici poco distante da Chicco Porcu, che da subito si era mostrato come l’avversario più agguerrito. Era molto vicino, lo vedevo ad un centinaio di metri da me. Chicco era un abile ciclista, ma all’epoca ancora un po’ carente nella corsa. Le cose si mettevano molto bene, perché nella frazione podistica, quella a me più congeniale, lo avrei certamente superato. Poteva anche guadagnare qualche secondo nella bici, la cosa non mi preoccupava. Lo tenevo a bada a distanza. I 40 chilometri della frazione ciclistica si avvicinavano al termine, e io pregustavo già la vittoria. Poi accadde l’imponderabile. Improvvisamente il mio sellino iniziò a basculare paurosamente. Si era svitato non so come e, a parte i rischi di fantozziana memoria, ogni curva era un incubo, rischiavo di finire spalmato sull’asfalto. Intanto Chicco si allontanava, e io incominciai a preoccuparmi seriamente. Feci l’ultima discesa “a tomba aperta”, rischiando l’inverosimile, riuscendo a contenere il distacco dentro il limite dei due minuti, il divario tecnico, teorico, tra me e Chicco nella frazione podistica. Mi gettai all’inseguimento. Sentivo di potercela fare, e dopo pochi chilometri dei 10 previsti, in lontananza, incominciai a vedere la sagoma del rivale. “Sei mio”, pensai. Ma a pochi chilometri dal traguardo, dopo due ore di gara serratissima, a causa del percorso nervoso, tutto curve e saliscendi, le gambe incominciarono a non rispondere più. Chicco era a poche decine di metri, ma tutte quelle variazioni di dislivello e di direzione mi impedivano di sviluppare la mia falcata da mezzofondista, e di avvicinarmi. Chicco nel frattempo, sentendo il fiato mio sul collo e il traguardo vicino, aveva dato fondo, digrignando i denti, a tutte le sue risorse. Niente da fare. Pochi secondi mi dividevano da lui. Ma avevo perso. Lui primo, io secondo. Presi la bici e la scagliai lontano. Maledetta. Poi mi ricomposi, andai verso Chicco, lo abbracciai sportivamente e gli feci i miei complimenti sinceri. Si era battuto come un leone e con grande intelligenza tattica. Lui ricambiò dandomi consigli sulla manutenzione della bicicletta, che ne avevo bisogno. Anni dopo, anni di battaglie nei campi di gara, di vittorie e di sconfitte, mi ritrovai in fuga con Chicco nella frazione ciclistica del campionato sardo del 2001, a Oristano. Dietro si trovava il favorito della gara, Giuseppe Solla. E noi ci alleammo per batterlo, collaborando per portare a termine quella fuga con un buon margine di vantaggio per l’ultima frazione podistica. In quella occasione mi sorprese il comportamento leale di Chicco. Sapeva che a piedi io ero più forte di lui, ma non mise in atto nessun tatticismo; in quella fuga si sarebbe potuto risparmiare, saltando qualche “cambio”, facendomi impegnare di più, per stancarmi e giocarsi meglio le sue carte, ma non lo fece. Tirò a testa bassa senz’altro. Nella frazione a piedi Giuseppe superò Chicco e mi si avvicinò pericolosamente, e anche quella volta accadde l’imponderabile. Scivolai in una curva stretta, nello sterrato, sbucciandomi ambedue le ginocchia, sanguinanti. Giuseppe era a pochi metri, galvanizzato. Quella volta, però, il rettilineo finale era lungo e pianeggiante, e vinsi quel titolo. Lo vinsi grazie alla sportività di Chicco e alla nostra alleanza “contro” Giuseppe, il più forte. Il quale venne da me, sportivamente, mi abbracciò e mi fece i complimenti. E’ giunto il momento di raccontarvi, per capire meglio la morale della favola, quest'altro episodio, occorso qualche anno prima. Era il 1998 e, nel lido di Torregrande, il maestrale aveva sollevato onde anche alte due metri. Dopo infinite titubanze, e con mille precauzioni, gli organizzatori ci fecero partire ugualmente. Ricordo quella frazione natatoria come un incubo, trasformato, nella mia immaginazione, in un personale e mistico aneddoto. Le boe di segnalazione, per quanto enormi, sparivano continuamente nel moto ondoso; si nuotava a vista, con la testa fuori dall’acqua. Presi un buon ritmo e mi ritrovai, non so come, in testa a quella gara, con a fianco l’immancabile Chicco Porcu. Il braccio era buono, quel giorno, mi pareva di volare sull’acqua, e con Chicco, senza parlarci, ci aiutammo a non disperderci, quando sbagliava rotta l’uno l’altro la correggeva. All’uscita dall’acqua le onde ci gettarono sul bagnasciuga. Mi voltai e vidi il resto del gruppo come sperduto nel mare ondoso. Ricordo che presi la bici e sbandai paurosamente per i primi chilometri, a causa del mal di mare. Chicco invece fu molto più svelto di me al cambio e lo ritrovai solo dopo il traguardo. Al termine della gara ci accalcammo tutti sul foglio dei risultati, appena appeso alla parete. Con Chicco convenimmo, con un misto tra la soddisfazione e il compiacimento, sulla figuraccia fatta da Giuseppe Solla, già fortissimo ciclista professionista, che si era cimentato per l’occasione nel triathlon. Giuseppe nel nuoto aveva portato a termine la sua frazione con un ritardo enorme e con mille difficoltà, e nella bici non era riuscito a fare la differenza. Spesso campioni di altri sport si avvicinavano al triathlon con molta supponenza, finendo per prendere severe legnate. Ci demmo di gomito con Chicco. Solo tanti anni dopo Giuseppe mi confidò che, mentre io e Chicco lo canzonavamo, lui era dietro di noi che ascoltava. Con un mezzo sorriso, mi disse: “quel giorno vi giurai vendetta”. E vendetta fu. Negli anni successivi Giuseppe ci diede tante di quelle batoste, che ancora mi fa male pensarci. E divenne, specie nelle lunghe distanze del triathon, uno dei più forti atleti italiani, con prestigiosi piazzamenti anche a livello internazionale. “Vi giurai vendetta ma ora vi ringrazio”, mi disse. Quando vado a trovarlo a Quartu S.E., nel suo negozio sportivo “Due Ruote”, un caffè pagato per me so di trovarlo sempre. Ora rapportiamo tutto questo alle cose della vita. Ad esempio a queste ultime elezioni regionali, alle analisi fatte, ai commenti dei protagonisti. E fate le vostre considerazioni, i vostri liberi paragoni. Traetene voi le vostre liberissime conclusioni. Io ne traggo una sola. Che è quella di far fare sport ai nostri figli. (nella foto: fase ciclistica di una gara di triathlon, nell'ordine: Caterini, Solla, Porcu.) Pensavo alla velocità. A quel brivido che comporta andare contro vento, contro tutto, in destinazione ostinata e contraria, come direbbe De André. Pensavo ai battiti rallentati, all’orrore di una curva quando ti si piazza che neppure te ne accorgi, a quel cambiare marcia repentinamente, a quello sterzare e poi sterzare e poi frenare e ripartire. Quel viaggiare borderline tra lo schianto e l’attesa. Pensavo all’adrenalina che ti gira quando la strada si rimpicciolisce e gli alberi volano e tutto riparte e cammina e i colori si fondono. Pensavo a questo come mestiere, quello di Fangio, di Lauda, di Villenueve, di Senna, di Prost, di Hunt, di Alonso, di Schumacher. Pensavo al destino, al crocevia della vita, alla girandola di cose che si rimescolano, si ripercuotono sulla tua esistenza. E tu pensi: mi son giocato la vita a dadi e ho sempre vinto. Meglio non esagerare. E si smette, si abbandona il luccichio dell’alluminio rosso Ferrari o grigio Mercedes, si smette perché si giunge alla salita della vita e quando arrivi in cima non c’è più voglia di scendere ma solo bellezza nell’osservare. Pensavo ai dadi. Uno li lancia e li rilancia. E vince. Non si pareggia mai con i dadi. Meglio non riprenderli. Neppure per un tiro. Ed invece, eccoci qui, ad esserne usciti indenni da tutte le curve del mondo, da tutte le piste, da tutto il nero del carbonio, da tutti quei sorpassi al limite, da quell’acceleratore che non stacca, da quella polvere sottile, quelle gocce su un asfalto imprendibile e, a volte, maledetto. “Perché corri?” chiesero un giorno ad un pilota, “per sopravvivere alla normalità”. Pensavo alla lentezza. Quell’osservare da lontano le cose. Quasi distaccati. Mi chiedevo quale fosse il confine tra il non muoversi e il muoversi troppo. Probabilmente essere sospesi. Farla franca a tutte le insidie della velocità pura e finire tra la vita e la morte per un sasso sotto la neve era un libro indescrivibile e impossibile da raccontare. Ma non si rilanciano i dadi. E quando si tocca l’asfalto con i piedi si dovrebbe provare a rallentare. Ma non è facile. Lo so. E’ difficile sopravvivere alla normalità. Auguri Schumi, per tutte le volte che la tua Ferrari è passata a dipingere il cielo di rosso annebbiando, per quell’attimo, tutti i colori del mondo. Marco ha solo dodici anni e, per dirla con una canzone “ha il cuore pieno di paura”. Gioca a pallone Marco e, per Natale, ha chiesto come regalo, un paio di scarpette. I piedi crescono velocemente a quell’età e le ultime, oltre ad essere distrutte, non gli stanno proprio più. Il papà di Marco è stato licenziato da qualche mese e la madre lavora, ad ore, per pochi soldi. Le scarpette non fanno parte delle loro primarie necessità. Marco lo sa. Sa quanto morde questa crisi maledetta, questo voler fuggire verso altri lidi di alcuni produttori, tra i quali quello di suo padre. Il padre di Marco ha perso il lavoro perché il suo “padrone” ha delocalizzato la fabbrica. Produceva lampadari. E’ andato in Bulgaria. Da quelle parti gli operai si pagano meno. Marco ha sorrisi ramificati nei ricordi. Di quando poteva giocare con le scarpette e provare a sognare. Buon regista, Marco. Bella visione del campo. I soliti idoli: Totti, Del Piero, Pirlo e, chissà perché, amava Baggio. Il divin codino. Ci pensa tutta la settimana Marco. Ha capito che non può chiedere dal “suo” babbo natale un regalo come le scarpette. Allora decide di cambiare. Di delocalizzare Babbo Natale. Si rivolge, direttamente al “padrone” a chi ha licenziato il suo babbo. Ecco il testo della lettera di Marco. Gentile signor S.D., sono Marco, il figlio di un suo operaio, licenziato dalla sua fabbrica non perché non faceva bene i lampadari, ma perché, secondo lei, quei lampadari costavano meno da altre parti. Questa cosa non l’ho capita. Se poi gli stessi lampadari li riporta in Italia, nella mia città, e li rivende allo stesso prezzo, mi dice cosa ci guadagna la nostra gente? Mi sembra di capire che il guadagno è solo il suo. Bene. Ho detto a tutti i miei amici, quelli con un padre e una madre ancora occupati di chiedere regali, ma di acquistare quelli fabbricati dalle mie parti, nel nostro paese. Lo so, è molto difficile, pensi che anche i giocattoli “feltrinelli” sono made in Thailandia. Questo me lo ha detto la mia professoressa che ci ha anche spiegato il concetto di solidarietà, parola per lei sicuramente sconosciuta. Non aspetto risposte a questa lettera. Mi auguro, però che lei possa passare un natale al buio, anche se produce lampadari. Io domani giocherò a pallone e le scarpe saranno quelle da tennis e non da calcio. Grazie a lei. Ma se segno con quelle scarpe, sarò sicuramente più felice e spero un giorno di illuminare tutto lo stadio con i miei gol e non con le luci dei suoi lampadari. Marco. Il giorno successivo Marco si presentò nel campo di calcio, con quelle scarpette ruvide, prese un pallone che sembrava stregato, tirò senza guardare e il portiere lo fece passare…. [liberamente ispirata a “LA leva calcistica della classe 68, di Francesco De Gregori] Sono consapevole che questo post mi renderà abbastanza impopolare, però non posso più tacere: il calcio non mi piace. Cioè non è che semplicemente non lo apprezzo, lo odio proprio. Non mi capita mai di seguire una partita, se non in occasione dei mondiali. E un piccolo strappo alla regola ogni quattro anni lo faccio esclusivamente per assaporare l’atmosfera goliardica e campanilista che si respira in quel frangente, non certo per godermi lo spettacolo della gara in sé. Odio la melodrammaticità del calcio, l’esagerazione, i tifosi imbizzarriti, la platealità dei falli, le urla dei mister, la disperazione del gol subìto e la sproporzionata contentezza di quello inflitto agli avversari. Non mi piacciono i tifosi i cui neuroni per 90 minuti rotolano insieme al pallone. Ho avversione per quell’urlo “gooooool” strillato fino a raschiare le corde vocali, unito agli sguardi da invasati e le carotidi che si trasformano in autostrade. Mi stanno sulle balle anche arbitri e giocatori e, crepi l’avarizia, pure i guardalinee. I primi perché secondo me avrebbero voluto fare i giocatori, ma non avevano la stoffa ed hanno ripiegato in un’attività simile, ma che resta comunque un surrogato: anziché inseguire il pallone corrono appresso ai giocatori I calciatori perchè, secondo me, avrebbero voluto fare gli attori di soap opera. Infatti, se malauguratamente entrano in contatto con un avversario, danno prova della loro celata vocazione. I guardalinee perché serve una propensione prepotente alla coglioneria per stare impalati per tutto il tempo della partita a sorvegliare che una riga bianca non venga oltrepassata dalla palla. Quando tiravo di scherma e la mia guardia non era perfetta, il maestro ci infilava il fioretto nello spazio ricavato dalla distanza tra i miei piedi e lo agitava vorticosamente frustandomi i polpacci fino a farmi venire i lividi. E in un campo di calcio io ho visto uomini col cerchietto per i capelli. Cos'altro c’è da aggiungere? Fai clic qui per effettuare modifiche.(di Giampaolo Cassitta) Chi collezionava le figurine panini lo sapeva: Luigi Riva, nato a Leggiuno il 7 novembre 1944. Io avevo dieci anni nel 1969 e quasi undici quando il Cagliari di Giggiriva conquistò il suo primo e unico scudetto. Collezionavo figurine e trotterellavo nella fantasia infantile con gaiezza e solide convinzioni: a me, giggiriva piaceva. Perché era uno del Nord ma giocava in una squadra del Sud, era uno che alzava le mani al cielo, perché segnava di testa tuffandosi, perché aveva un tiro portentoso, perché Gianni Brera lo aveva chiamato Rombo di tuono. Ma, soprattutto, perché era in campo il giorno di Italia-Germania 4 a 3, una delle poche partite che quasi ricordo a memoria. Un’impresa epica, una sorta di rivincita contro i tedeschi, nostri alleati e poi nemici, con i quali eravamo affondati nella polvere solo pochi anni prima e ci eravamo macchiati di terribili nefandezze. Io, tutto questo, chiaramente mica lo sapevo. Avevo giggiriva e Mazzola, Domenghini e Albertosi nel cuore. Questa era la mia poesia, insieme al Carducci dell’albero cui tendevo la pargoletta mano. I gol di giggiriva, gli abbracci ai suoi compagni, la maglia azzurra con dietro il solo numero: undici. Perché ai miei tempi i giocatori li riconoscevi senza doverti stropicciare gli occhi per leggere il nome sulla maglia. Li riconoscevi da come si muovevano in campo, da come correvano e da come segnavano. E giggiriva lo riconoscevi sempre. Anche alla radio. Perché Ameri cambiava tono di voce quando giggigheddu prendeva il pallone e, senza accarezzarlo, lo buttava dentro, per segnare, per gioire, per far sognare. E, come tutti gli eroi tristi, ha vinto poco giggiriva. E’ diventato campione d’Italia una sola volta, campione d’Europa in un campionato non proprio memorabile e capocannoniere. Poi vice campione del mondo e altre piccole cose. Non ha vinto altro. Il problema è che tutti gli eroi tristi rimangono eroi. E lo rimangono per sempre. Probabilmente perché, ai nostri tempi, gli eroi si costruivano con poco o meglio, non si costruivano proprio. Giggiriva era immortale, doveva esserlo. Ed era l’orgoglio della Sardegna, quando l’orgoglio aveva un suo peso specifico, era riscatto verso tutti e contro tutti. Poi, da grande le cose le vedi da un altro orizzonte e capisci che per vincere gli scudetti non bastava giggiriva. Però aiutava. Io me lo ricordo Riva, come ricordo gli altri che fecero l’impresa: Albertosi, Martiradonna, Cera e Greatti, Domenghini e Gori, un giuramento eterno c’è nei nostri cuori. Avevo il disco e lo avevo imparato a memoria. Riva era il cannoniere: quando tira il rigore fa tremare il portiere. Scorrono come lente immagini ossidate e lontane quelle dove Giggiriva segnava ed esultava, al Sant’Elia come in Messico, in Austria come in Francia e io a guardare e sistemare le figurine. Quelle doppie da scambiare, quelle triple da giocarcele a “creus e crastu”. Gigi Riva da Leggiuno ha compiuto sessantanove anni. Che sono, in fondo solo quindici più dei miei. Auguri. Io me lo ricordo ancora quando correva all’ala sinistra e prendeva la mira e non guardava e tirava e segnava ed esultava. Non aveva neppure un tatuaggio Giggiriva. Non ne aveva bisogno. Aveva molti segni d’affetto tra la pelle e il cuore. Auguri Gigi, cassetto dolce della mia infanzia. Auguri architetto, costruttore di traiettorie tra il pallone e l’emozione. Chi collezionava le figurine panini lo sapeva: Luigi Riva, nato a Leggiuno il 7 novembre 1944. Io avevo dieci anni nel 1969 e quasi undici quando il Cagliari di Giggiriva conquistò il suo primo e unico scudetto. Collezionavo figurine e trotterellavo nella fantasia infantile con gaiezza e solide convinzioni: a me, giggiriva piaceva. Perché era uno del Nord ma giocava in una squadra del Sud, era uno che alzava le mani al cielo, perché segnava di testa tuffandosi, perché aveva un tiro portentoso, perché Gianni Brera lo aveva chiamato Rombo di tuono. Ma, soprattutto, perché era in campo il giorno di Italia-Germania 4 a 3, una delle poche partite che quasi ricordo a memoria. Un’impresa epica, una sorta di rivincita contro i tedeschi, nostri alleati e poi nemici, con i quali eravamo affondati nella polvere solo pochi anni prima e ci eravamo macchiati di terribili nefandezze. Io, tutto questo, chiaramente mica lo sapevo. Avevo giggiriva e Mazzola, Domenghini e Albertosi nel cuore. Questa era la mia poesia, insieme al Carducci dell’albero cui tendevo la pargoletta mano. I gol di giggiriva, gli abbracci ai suoi compagni, la maglia azzurra con dietro il solo numero: undici. Perché ai miei tempi i giocatori li riconoscevi senza doverti stropicciare gli occhi per leggere il nome sulla maglia. Li riconoscevi da come si muovevano in campo, da come correvano e da come segnavano. E giggiriva lo riconoscevi sempre. Anche alla radio. Perché Ameri cambiava tono di voce quando giggigheddu prendeva il pallone e, senza accarezzarlo, lo buttava dentro, per segnare, per gioire, per far sognare. E, come tutti gli eroi tristi, ha vinto poco giggiriva. E’ diventato campione d’Italia una sola volta, campione d’Europa in un campionato non proprio memorabile e capocannoniere. Poi vice campione del mondo e altre piccole cose. Non ha vinto altro. Il problema è che tutti gli eroi tristi rimangono eroi. E lo rimangono per sempre. Probabilmente perché, ai nostri tempi, gli eroi si costruivano con poco o meglio, non si costruivano proprio. Giggiriva era immortale, doveva esserlo. Ed era l’orgoglio della Sardegna, quando l’orgoglio aveva un suo peso specifico, era riscatto verso tutti e contro tutti. Poi, da grande le cose le vedi da un altro orizzonte e capisci che per vincere gli scudetti non bastava giggiriva. Però aiutava. Io me lo ricordo Riva, come ricordo gli altri che fecero l’impresa: Albertosi, Martiradonna, Cera e Greatti, Domenghini e Gori, un giuramento eterno c’è nei nostri cuori. Avevo il disco e lo avevo imparato a memoria. Riva era il cannoniere: quando tira il rigore fa tremare il portiere. Scorrono come lente immagini ossidate e lontane quelle dove Giggiriva segnava ed esultava, al Sant’Elia come in Messico, in Austria come in Francia e io a guardare e sistemare le figurine. Quelle doppie da scambiare, quelle triple da giocarcele a “creus e crastu”. Gigi Riva da Leggiuno ha compiuto sessantanove anni. Che sono, in fondo solo quindici più dei miei. Auguri. Io me lo ricordo ancora quando correva all’ala sinistra e prendeva la mira e non guardava e tirava e segnava ed esultava. Non aveva neppure un tatuaggio Giggiriva. Non ne aveva bisogno. Aveva molti segni d’affetto tra la pelle e il cuore. Auguri Gigi, cassetto dolce della mia infanzia. Auguri architetto, costruttore di traiettorie tra il pallone e l’emozione. Oggi mi è stato detto: “ma tu che scrivi nel blog, perché non dici qualcosa che è il compleanno di Riva?” Allora ci ho pensato un po’ su. Ma cosa si può scrivere su Gigi Riva, uno dei più grandi calciatori della storia, esempio di onestà e lealtà sportiva, portatore di grandi principi e valori? Cosa si può dire che non sia già stato scritto? Certo il suo attaccamento alla Sardegna è proverbiale, è ormai uno dei grandi eroi eponimi dei sardi. Ma l’attaccamento alla maglia Azzurra non è stato da meno, dimostrando che le persone animate da valori e ideali profondi non hanno steccati. Amano e basta. E questo mi pareva giusto dirlo, che Riva giocando nel Cagliari non si risparmiava per la Nazionale, e in Nazionale non si risparmiava per il Campionato, come dimostrano i 2 gravi incidenti subiti con la maglia azzurra. E a proposito di incidenti sportivi, mi viene in mente questo racconto. Nella Milano degli anni ’60, questo ragazzo di 25 anni correva in bicicletta, e pure discretamente. Poteva anche passare professionista, ma la sua carriera fu stroncata da un grave incidente. Cadde in una gara di ciclocross, in mezzo al fango, e la gamba sinistra fu maciullata da un automezzo al seguito della corsa; gli andò in cancrena, rischiò l’amputazione. Sei mesi di ospedale e 12 operazioni subite. Nelle interminabili giornate di degenza ospedaliera, notò una giovane e minuta inserviente sarda, dal carattere, però, molto deciso. S’innamorarono. I due, prima di sposarsi, decisero di fare un viaggio, una visita parenti, in Sardegna. Il giovane claudicante vide questa terra stupenda e, dopo pochi anni, impiegato alle poste, riuscì a ottenere il trasferimento a Cagliari, con tutta la famiglia, moglie e tre figli compresi, negli anni in cui trasferirsi in Sardegna era una punizione. Esattamente come Riva. Era il novembre del 1970. In Sardegna gli echi dello scudetto appena vinto riempivano la vita quotidiana, le strade, le piazze, i mercati, i luoghi di lavoro, le discussioni nei bar e nei negozi. E allora quell’ex ciclista, ormai claudicante, decise subito di diventare sardo, esattamente come Giggirriva, e fece due gesti tanto concreti quanto simbolici: l’abbonamento ai casotti del Poetto, e l’abbonamento al Calcio Calcio, nonostante da sempre di fede interista. E lo fece per un motivo molto semplice. Amare una donna sarda e amare la Sardegna, con il suo mare e i suoi simboli calcistici, per lui era un tutt’uno, non c’era soluzione di continuità. Quando si hanno valori, e ideali profondi, è così. Quando si ama, si ama e basta, senza steccati. Ma non era solo amore per una donna. Era anche l’amore per la natura, che la Sardegna poteva offrire, e passione per i grandi valori dello sport, che quella grande piccola squadra di provincia incarnava. Poi quell’uomo se n’è andato un po’ presto, a dire il vero, esattamente 20 anni fa, in un ottobre come questo. Che la Sardegna se la sarebbe potuta godere ancora un po’. E io ancora ricordo delle lunghe, intere giornate d’estate passate nella spiaggia del Poetto, a sguazzare tra le onde e a giocare con la sabbia borotalco e a fare le formine, e ancora mi ricordo l’atmosfera di quelle incredibile feste popolari che erano le partite del Cagliari degli anni ’70, con la gente che affluiva da tutti i paesi vicino, con i pullman, le automobili, i vespini, le apiscedde, e si mangiava formaggio e salsiccia aspettando l’ingresso in campo dei giocatori, il boato della folla, il rito della formazione… Albertosi, Martiradonna, Mancin, Cera, Niccolai, Tommasini, Domenghini, Nenè, Gori, Greatti e… Boato, Riva. E ricordo di una staffilata di Riva che gonfia la rete, gol! il nuovo stadio Sant’Elia in festa. Ricordo tutto questo. E di tanto in tanto ci penso, che potevo anche non essere sardo, e non vivere in questo posto così bello, e allora mi viene di ringraziarlo, quello sfortunato ciclista milanese innamoratosi di quella donnina sarda. Grazie. E, dimenticavo, buon compleanno, Giggirriva. |
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July 2014
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