SARDEGNAblogger
  • Post
  • Home
  • La Redazione
  • Contatti
  • Immagini

CRONACHE DA GATTOLANDIA - I (Luca Ronchi)

7/4/2014

0 Comments

 
Picture
Si inaugura oggi la prima e forse, chissà, ultima puntata di una serie dedicata ai gatti. I miei gatti. Chiariamo: non sono un gattaro, non lo è mai stato nessuno della mia famiglia e penso che i gattari abbiano qualche rotella fuori posto.
Però i gatti mi sono sempre piaciuti, anche più dei cani.
Sono cresciuto in una zona periferica del mio paese, dove era ancora possibile vedere conigli, galline, tartarughe d’acqua (quella europea, non quella californiana), bisce, civette, rane, a volte capre e pecore e –naturalmente- cani e gatti come se piovesse. Una volta ho visto anche un grifone.
Io e mia sorella maggiore (cioè, minore di me ma maggiore dell’altra, che ancora non era nata) con la complicità di mia zia, nel periodo tra il 1974 (il primo anno di cui serbi vaghe rimembranze feline) e il 1995, abbiamo dato udienza, accolto, battezzato e adottato decine di gatti. Ma forse era anche il 2000, quando smettemmo. Poi mi sono trasferito ma ho continuato a lasciare la porta aperta, e ogni tanto qualche gatto entra.
Il primo felide, anzi la prima, di cui voglio raccontarvi l’ho incontrata di recente. Fine 2009-inizio 2010. Era già grande e aveva sicuramente altri nomi. Mia figlia, che di animali ne capisce parecchio, sostiene che i vecchi padroni la chiamassero “Gatto” o “Gatta”. Un giorno ci ha adottato ed è diventata Mimi. Senza accento finale.
Era un gatto caratterialmente spettacolare: equilibrata, non invadente, comunicativa, capace di giocare. È arrivata in un periodo in cui a casa faceva comodo una come lei. I bambini l’avevano scelta come punto di riferimento per alcuni giochi, cui lei si prestava senza problemi perché di solito si trattava di storie in cui era previsto l’arrivo di un mostro, di un leone o di qualche Leviatano simile. Lei aspettava il suo turno e quando veniva messa in scena faceva serenamente il suo ingresso tra i giocattoli, devastando gli eserciti e spazzolando via gli avamposti realizzati per contenerne l'avanzata. Più o meno.
Con me invece faceva un altro gioco. La mattina, quando uscivo di casa a piedi per andare in ufficio, mi seguiva fuori dal cancello e mi si metteva dietro, cercando di afferrarmi dalla caviglia. Una specie di sgambetto o il tentativo di fermarmi o solo un segnale per dire “ci sono, gioca!”. Allora la prendevo in braccio, la riportavo a casa, lei saltava il cancello e riprendeva. Dopo un paio di tentativi lasciava perdere.
Un giorno, credo fosse maggio, io e mia moglie con i bambini stavamo mangiando nel piazzaletto fuori dalla nostra cucina, affacciato sul giardino dei padroni di casa.
Ad un certo punto abbiamo sentito qualcosa, un movimento, un rumore indefinito, non ricordo. Dopo poco ci siamo accorti che Mimi si era sdraiata dietro il tronco di un grande glicine, che quando è in fiore o in fase di produzione delle foglie, nasconde completamente il cortile che sta dall’altra parte del muro. Ci sembrava stesse male. Allora mi sono avvicinato. Non sembrava avesse ferite, però aveva un goccio di sangue su un labbro. Non mi sono allarmato perché ai gatti capita ben altro, e se la cavano senza problemi. Però Mimi non stava bene per niente. Non si muoveva e ci guardava in un modo che colpiva. Col passare dei minuti il suo corpo ha iniziato a gonfiarsi. Il veterinario non rispondeva. Un’amica che ne capisce mi ha detto che poteva essere stata morsa o investita. Ho capito dopo, me lo hanno spiegato, che il gonfiore poteva essere causato dall’esplosione di un polmone per un’embolia, o da qualche emorragia interna causata da un forte trauma. I bambini hanno iniziato a piangere. Avevano capito che se ne stava andando. Nel terreno accanto, quello nascosto dal glicine, girava un maremmano molto aggressivo, con la museruola. Un ospite occasionale che viveva da un’altra parte ed era stato lasciato in custodia ai vicini per qualche ora. Fino a un’ora prima non aveva la museruola e ora ce l’aveva. Abbiamo sempre pensato che sia stato lui. Animali.
Nel giro di mezz’ora Mimi non c’era più. I bambini hanno pianto per tutto il pomeriggio. Io e mia moglie no, ma quasi. Anzi, io la notte non dico che ho pianto, ma a un certo punto ho sentito un bruciore agli occhi e me li sono dovuti asciugare; è stato quando mia moglie mi ha chiesto “Cosa c’è?” e io le ho risposto “Mi dispiace”. È stato in quel momento.
Comunque. Avevo Mimi senza vita davanti a me. Volevo ringraziarla per come si era presentata a casa nostra, per come era riuscita ad avere un rapporto con tutti noi. Volevo, ma non sapevo come fare, specie ora che non c’era più.
Poi mi è venuta un’idea. Ho preso il corpo, ho preso una pala e sono andato in un punto di Caprera che non tutti conoscono, una piana circondata di pini e corbezzoli che si apre verso nord est, scende verso il mare e fa spingere lo sguardo fino alle cime della Corsica, che anche a maggio possono indossare un po’ di neve. Quel giorno c’era.
Ora Mimi è per sempre sotto un lentisco.
Vicino a lei dorme Marsala, il cavallo di Giuseppe Garibaldi.

0 Comments

La Bellezza che uccide. di Fiorenzo Caterini

7/2/2014

0 Comments

 

Il bruciore alla gola si faceva sempre più acuto.

Per gli oscuri motivi dell’imponderabile umano, la musica, avvicinandosi alla morte, diventa impareggiabile. L’incompiuta di Schubert, il Requiem di Mozart, la Turandot di Puccini.

Puccini era consapevole che quello era il capolavoro della sua vita. Ma erano ormai anni che lottava con quel suo finale senza riuscire a terminarlo. Un finale che doveva essere gioioso, in controtendenza con la tragedia tipica dell’opera. Un finale che doveva essere un trionfo dell’amore, un’esplosione di suoni e di colori. Ma la musica gli si era incagliata lì, alla morte della giovane schiava Liù, come se la tragedia non volesse liberarsi dal sue triste destino.

Il bruciore alla gola si faceva sempre più acuto. Un colpo di tosse. Prese il foglio pentagrammato, lo accartocciò, e lo scagliò lontano.

Una maledizione.

Si è soliti dire che la Turandot ha ucciso l’Opera, perché è stata l’ultima grande e ineguagliabile. Il tempo, dopo la Turandot, ha preferito prendere altre strade di confronto.

Puccini lottava in un letto di ospedale, il male alla gola avanzava, gli impediva di respirare, e di lavorare. Buttò giù 23 fogli con gli appunti del suo ultimo tentativo, prima di andare sotto i ferri. Correva l’anno 1924. L’anima del grande compositore, forse il più grande per quanto riguarda il genere operistico, si staccò dalle scarne membra terrene e si dissolse per le immaginifiche ali di quella musica ripetuta per tutti i luoghi del mondo e per tutte le epoche dei tempi a venire.

Quando Franco Alfano, eccellente musicista, matematico e insegnante, prese in mano le partiture della Turandot, capì che la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

Avrebbe potuto dire di no ad Arturo Toscanini, il grande direttore d’Orchestra? Avrebbe potuto dire di no a Ricordi, il grande produttore? Avrebbe potuto dire di no alla famiglia di Puccini?

Ma una strana sensazione lo pervase. Capì subito che finire quell’opera, anche con gli appunti del Maestro, era un rompicapo, non sarebbe stata un’equazione matematica.

Tra le mani, una delle più grandi composizioni di tutti i tempi. Tra le mani, il capolavoro incompiuto del più grande compositore d’opera. E lui doveva terminarlo.

Sono quelli i momenti in cui il senso della propria identità diventa una voragine interiore. Chi era lui, musicista normale, per dipingere il finale del capolavoro dei capolavori? Neppure Puccini era riuscito a terminare la sua opera, a dare un finale degno a quella bellezza assassina, devastante, quasi fosse venuta da un’altra dimensione dell’umano creato.

Gli occhi scorrevano la partitura, le mani riproducevano la musica al pianoforte, la mente immaginava quelle note, quelle voci, quei cori, quelle esplosioni orchestrali. Ogni tanto si fermava, cercava di capire in quale soluzione innovativa si era sbizzarrito il maestro. La musica dell’opera si infrangeva ad ondate nell’anima del compositore, il sangue si faceva tempesta, la pelle evaporava e lui si perdeva, si perdeva in quel capolavoro.

Alfano, girando e rigirando gli scarabocchi del finale di Puccini, fini per ammalarsi. Si ammalò di una strana malattia agli occhi. Poi finì per litigare per questioni di vile moneta con Ricordi, il produttore. Vile moneta, di fronte ad uno dei più grandi capolavori che il genio dell’uomo abbia mai prodotto. Che strana l’umanità.

Ma Alfano non si arrese, e finì l’opera, tra mille peripezie e umiliazioni.

Il giorno della prima, alla Scala di Milano, il 25 aprile del 1926. Arturo Toscanini dirigeva l’orchestra.

Figlio, che fai? Cantò preoccupato il vecchio monarca invalido, cieco, mendicante, trascinato dalla giovane schiava Liù. Signore, ascolta! implorava la povera Liù, vera grande e sottaciuta eroina della tragedia pucciniana. Ecco uno dei momenti culminanti dell’opera: il giovane principe si arrischia, per amore, a sfidare la morte, mentre attorno tutti cercano di fermarlo. E’ un crescendo musicale inarrestabile, dove le voci riprendono le varie armonie dell’opera e le intrecciano fra loro e le rilanciano nell’aria fino al culmine, il battito del gong che segna nel medesimo tempo la fine e l’inizio del conflitto, l’apoteosi. E’ la stessa genesi dell’opera, nel frangente, che si concepisce come il conflitto interiore dell’uomo che, solo, nel letto di un ospedale, sposta con la forza dell’amore, dell’amore per la vita, quel limite, quel confine più in là, dove può.

Nessun dorma. La tracotanza del folle, dello sciocco reso tale dalla passione, e d’altra parte lo sdegno, la freddezza di chi, tagliente, assiste sarcastica all’altrui follia.

L’amerai anche tu, però, sussurrò Liù, prima di uccidersi. La folla, carogna, che prima inveiva, ora si impietosisce, a quel delitto orrendo. Fa sempre così, la folla carogna.

Liù strappò l’arma ad uno sgherro e si uccise. Liù muore non prima di aver fatto capire, al mondo osceno, la bellezza di amare senz’altro e l’atrocità muta di morire per amore. L’amerai anche tu, disse, rivolgendosi alla tagliente Turandot.

Ecco, quello è il punto straordinario e perfettamente congeniale, il momento in cui non solo Liù muore, ma muore anche Puccini. Quello è il limite della catastrofe artistica in cui, oltre a morire il maestro, muore anche tutta l’Opera.

E quello è il momento che fa il suo ingresso in scena, davanti alla bacchetta severa di Toscanini, ai guanti bianchi dei violinisti del tempio dell’Opera, la Scala, davanti al popolo attento degli spalti, la musica dell’eccellente Alfano.

Ecco.

E invece no.

Toscanini, piuttosto, ferma l’orchestra. Si volta e, rivolgendosi al pubblico, pronuncia le seguenti parole: “qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto”.

Il finale controverso e scarsamente apprezzato di Alfano, verrà eseguito, da allora, nelle rappresentazioni successive, ma quella volta no, non era il caso. Anche altri grandi compositori provarono a mettere mano agli appunti di Puccini, con discutibili risultati.

Chi vorrà, oggi, grazie agli strumenti di internet, andare ed ascoltarsi le opere di Alfano, si renderà conto della straordinaria bravura compositiva di questo musicista.

Ma il destino ha voluto che, ancora oggi, è conosciuto per la cosa più discutibile che ha fatto, il finale della Turandot.

Forse non doveva, Alfano, cimentarsi con l’impossibile, sfiorare anche lui la morte per avvicinarsi all’assoluto, al punto in cui l’arte non può più tornare indietro, farsi carne e tornare umana.

Forse era meglio restare un eccellente musicista, ma sconosciuto al grande pubblico, piuttosto che cedere alle lusinghe della gloria e turbare gli sconosciuti disegni del misterioso dio della creatività umana.

0 Comments

La partita di calcio balilla ( Pallone a sbarre: dal nostro inviato speciale a Buoncammino Italia 0 Uruguay 1) Settima puntata.

6/25/2014

0 Comments

 
Immagine
A cercarle le parole magari le trovo pure, ma con custa basca a Buoncammino non è cosa. Ci ho ho buttato fuori a Mariolino che era dormito da ieri sera, incazzato perdiu perchè l’italia ha perso e ne è uscita dai mondiali. “O Mariolì “ l’appo nau, “a me la finisci che quelli solo per quel giorno hanno fatto i soldi che noi manco tutto l’anno”. E quindi a me m’indimportada pagu della sconfitta degli italiani. E poi, a dire il vero, noi siamo sardi e il Cagliari ai mondiali non c’è. Solo Ibarbo che gioca con la colombia e Antonello su biu tifa la colombia. Antonello si chiama su biu perchè è il cugino di antonello su mortu, che l’hanno preso a Olbia con un pacco di roba e lui, scimpru, non mette a manetta davanti agli sbirri e corre e non vede un palo e si ci sfracellada tottu. L’hanno raccolto che manco il cane antidroga capiva quale era lui e quale era la coca. Tutto perso e questo già è dispiaciuto un pochettino. Comunque, stamattina a mente tiepida, perchè freddo in galera non ce n’è manco a bastone, ci siamo trovati io Antonino su biu, Mariolino e Francesco sbrindellato, fissato con le moto e con Valentino Rossi, uno che di calcio non ne capisce niente tanto che quando Mariolino poco poco incazzato ha detto che Prandelli ha fatto male a lasciare Pepito Rossi in italia, Francesco ha subito detto che era d’accordo che Valentino era meglio di Balottelli. Unu maccu totalmente imbreagu. A me Balottelli non mi è mai piaciuto, manco quando giocava nell’Inter e mi che sono cagliaritano di nascita e interista di adozione, quando una mia pivella si era innamorata di Bergomi e mi avevo fatto crescere i baffi come lui e mi ero anche comprato la maglia. Poi, una sera mi dice: A ci andiamo al sant’elia che domenica l’inter gioca con il Cagliari? E io amico di tutti gli sconvolts a le potevo dire che non potevo andare nei distinti dalla parte degli ospiti? E lei allora mi ha detto che se l’accompagnavo a tifare Inter me la dava. Mi sono messo un cappello in testa e occhiali scuri e lei ridendo che quasi pioveva e itta cintrana gli occhiali , e io non ti preoccupare e intanto seduti alla gradinata cominciavo la tecnica del polpo ma lei a dire che me la dava solo se l’Inter vinceva. E non vince il Cagliari? Insomma, la pivella non me l’ha data ma sono rimasto interista perché aveva perso con il Cagliari. Comunque, tornando alla partita, e che cosa dobbiamo dire? Parlare ne abbiamo parlato, in galera, tanto, le parole già si sprecano che sembriamo tutti scrittori di romanzi. Adesso tutti a dire del morso a Chiellini, tranne quelli anti juventini che ce ne sono sia al destro che al sinistro contenti perché chiellini già non è molto simpatico. Ed è vero. La cosa più incredibile della partita che sembravano fermi come gli uomini del calcio balilla che abbiamo nella sala socialità. Adesso siamo tutti più tranquilli perché non c’è più l’Italia e possiamo tifare quello che ci piace come io che tifo più Cagliari dell’Inter perché tanto la mia nuova pivella non ne capisce di calcio e fuorigioco, come immobile, cognome che ieri gli stava come un capotto di alta moda. Insomma, io tifo Argentina, Mariolino ha detto che tifa gli olandesi che magari arrivano ancora in finale a perderla torna, Antonello su biu tifa Ibarbo e la Colombia e Francesco ha detto che tifa Germania in onore di Schumacher che è amico di valentino rossi. Boh boh, il sole a Buoncammino a volte scalda troppo le teste. Già vi faccio sapere come continua. Sempre se quelli di sardegna blogger mi danno l’incarico a scrivere.
 

0 Comments

il nero mondo del buio (giampaolo cassitta) 

6/17/2014

0 Comments

 
Immagine
Adesso sta solo, all’interno della sua ombra nera senza nessuna stratificazione, nera come la notte nera, nera come il buio in cui si è avvolto l’anima. Seduto su una panchina solitaria tra il nulla e il troppo si agita e prova a ripassare gli occhi di chi lo ha visto per l’ultima volta. Perché di questo si tratta: Yara ha visto, Giulia ha visto, Cristina ha visto, Gabriele ha visto e anche a Tempio Giovanni ha visto, Giulia ha visto, Pietro ha visto quel buio torbido avanzare, quei movimenti senza speranze. Lui lo sa, certo, di avere scelto la linea sbagliata, di aver oltrepassato il verosimile, il razionale. Lo sa e prova a disegnare confini inaspettati, prova con pasticciata calma a riannodare la ragione. Ma è solo, terribilmente solo in un buio senza ombre e senza nessuna speranza. Non ha compreso le curve della vita, non le ha sapute prendere e non è riuscito a scalare nessuna marcia. Tutto in fretta, tutto molto in fretta nella discesa verso l’orrore, verso un cunicolo nero senza sogni, nero senza lacrime, nero senza vita. Lui lo sa, lui che ha visto gli occhi  degli altri spegnersi, l’ultimo bagliore di bambini e donne e uomini lo sa quanto costa il suo gesto, sa quanto è cattivo il suo muoversi. Lo sa ma non comprende, non riesce a ritornare sull’altra riva. Lui ha deciso di rimuovere gli occhi, di eliminare tutti i colori di un quadro e passare con il suo atroce pennello sulle tracce della vita. Nero come la notte nera, nero come un grembiule senza fiocco, nero come un inferno senza fuoco. Adesso sta solo, all’interno delle sue parole che non riesce a macinare, farina senza mulino, acqua senza fontana. Lui lo sa di essere il più piccolo e il più fragile ma non trova più la strada.  E noi con questi volti muti aspettiamo di trovare il varco per cercare uno spiraglio di luce nel nero che non cova speranze.

 


0 Comments

Pallone a sbarre (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Sassari, Germania - Portogallo 4-0)Diario dei mondiali di calcio – sesta puntata 

6/16/2014

0 Comments

 
Immagine
Pallone a sbarre (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Sassari, 
Germania - Portogallo 4-0)
Diario dei mondiali di calcio – sesta puntata 

Oggi in questa galera che sembra un deserto e quando penso a S.Sebastiano mi metto a piangere perchè conoscevo tutto anche i sorighi, abbiamo giocato una partita a calcetto nei passeggi. Sul cemento, che la bagassa loro se cadi finisci subito in infermeria. In ogni caso c’erano due squadre pronte a vincere a tutti i costi: La germania e il Portogallo. Io, Antonio lu tedesco, Mariolino millibrinchi, Francesco la tana e marcellino birretta eravamo la germania. I portoghesi erano invece tre stranieri che non ne conosco bene i nomi e li chiamiamo Alì, Alà e dalialà, Portez detto Cristoforo Colombo e un rumeno un bè fissato con Cristiano Ronaldo e, infatti l’abbiamo chiamato Lu setti. Abbiamo perso di brutto e Marcellino si è tirato a terra tutto incazzato. Non se ne voleva andare dall’aria. Ajò gli ho detto che devi cucinare e lavare i piatti che ti tocca e non fare come Inzaghi chi “candu lu sfiorani pari sempri murendi”. Io, poi ho detto a Cristoforo Colombo che stasera tifo Germania perchè a me i portoghesi mica mi piacciono. Ci siamo lasciati così. Ne abbiamo raccolto a birretta da terra e ci siamo messi in fila, tipo spogliatoio per tornarcene a casa. In cella. Stasera la partita è alle sei, giusto all’ora di sbobba. Perchè in galera, per chi non lo sapesse, è come l’ospedale dove ne hanno tolto il fegato a babbo: alle cinque e mezzo passa il carrello della cena e se ne vuoi bene se no ti arrangi. E noi ci arrangiamo. Cuciniamo per i fatti nostri. Oggi un bè di insalata così ci riempie la pancia e filetti di merluzzo fritti che Birretta li fa davvero un bè bene. Tra questo e le scommesse sulla partita ci siamo seduti. La squadra di calcetto non è la squadra della cella ma abbiamo chiesto la socialità e ce l’hanno data. Adesso ci ascoltano e ci fanno stare più larghi che rispetto a san sebastiano ci sembra di essere all’aeroporto e quasi ci perdiamo. A me i tedeschi mi fazini ischiffu, ma a calcio sono bravi e ho una mia teoria. Se vincono e passano il turno come primi e anche noi arriviamo primi poi, con loro, ci vediamo in semifinale e li castighiamo. Come nel 1970 e nel 2006. Solo che Antonio lu tedescu non li sopporta e lui si chiama così solo perchè è biondo e solo Mariolino millibrinchi mi da un po’ di ragione ma dice che sicuramente il Portogallo è più forte perché lo dice lu setti. “Ascò bello bè,”gli ho detto “mi chi un cristiano ronaldo non può giocare a la sola che non è Mandrake.” Mariolino sorride e dice: “e a te lo ricordi a Mandrake contro la Spagnola? Dezi a zero li ha fatto”. Tutti cominciano a ridere e gli diciamo di smetterla con la coca e le pasticche nascoste. Perché Mariolino è fatto così: tossico perso , si ciuccia le pastiglie davanti all’infermiere, ma solo un pò e poi le sputa e le fa asciugare alla finestra. Poi se ne mette insieme un cinque o sei e se le fa con la coca cola e dopo un pò si mette a letto e comincia a brincare che sembra una cavalletta. Ecco perchè lo chiamiamo millibrinchi. La partita comincia male. Rigore per la Germania e Mueller segna. “Cazzo Antò”, dice Birretta “ma chistu da quando c’era giggi riva continua a segnare”. “Mi che non è lo stesso mì, “ dico io e gli giro con uno schiaffo ai capelli e mi guarda male. Germania uno Portogallo zero. Sentiamo l’urlo di terrore di Lu setti dall’altra camera. Non gira dico io, la perdete. E girami li.... insomma ne buttano uno del Portogallo fuori e poi segna il due a zero la Germania. “Abà comincia la vendetta, “dice Birretta ma si capisce che lo dice così, giusto per parlare, così come in tribunale quando ci stavano condannando e sette anni. Lui si avvicina all’avvocato e dice e cosa facciamo avvocà? Ci prendiamo sette anni? E l’avvocato serio gli dice: “non ti preoccupare, ci vendichiamo in appello”. Nove anni ci hanno dato, la bagassa loro, in appello. Manco finito il pensiero che Mueller fa il tre a zero. Antonio comincia ad incazzarsi davvero: a me chistu Muller non mi piace molto. Alla fine del primo tempo passa l’assistente e ci dice se vogliamo andare alla sala socialità che c’è il televisore perché adesso hanno inventato questa cosa della socialità e che i detenuti devono stare bene. O appuntà, a casa nostra stiamo bene, a lo vuole capire? Birretta lava i piatti e noi ci fumiamo una sigaretta. La cosa che funziona in ogni carcere è la possibilità di fumare sempre e da tutte le parti. Ma secondo gli educatori questa cosa non dura che dobbiamo fare le cose come le fanno fuori. A me mica mi piace questa novità di fare gli educati. Il secondo tempo non ha molta storia e si capisce che i crucchi ne capiscono di calcio. Mi dispiace aver tifato la Germania ma sono davvero forti. Solo che non mi ricordo manco un nome tranne quello che solo a calcio poteva giocare e si chiama Kroos. Fanno subito il quattro a zero tripletta di Muller e tutti a casa. Io penso che ci troviamo in semifinale, Birretta dice che il portogallo già passa, Antonio risponde che a lui i tedeschi gli stanno sulle balle a prescindere e con noi perdono sempre, millibrinchi è stirrigato sul letto e russa alla grande. Adesso ci tocca il telegiornale e le cose della vita. Domani altra partita. Io ho deciso che dobbiamo giocare ai passeggi con quelli della cella sette e otto. Che sono sagome. magari con quelli vinciamo e ci portiamo a casa la stecca di ms. Che male non fa.

0 Comments

Pallone a sbarre (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Sassari, Germania - Portogallo 4-0)Diario dei mondiali di calcio – sesta puntata 

6/16/2014

0 Comments

 
Immagine

Oggi in questa galera che sembra un deserto e quando penso a S.Sebastiano mi metto a piangere perchè conoscevo tutto anche i sorighi, abbiamo giocato una partita a calcetto nei passeggi. Sul cemento, che la bagassa loro se cadi finisci subito in infermeria. In ogni caso c’erano due squadre pronte a vincere a tutti i costi: La germania e il Portogallo. Io, Antonio lu tedesco, Mariolino millibrinchi, Francesco la tana e marcellino birretta eravamo la germania. I portoghesi erano invece tre stranieri che non ne conosco bene i nomi e li chiamiamo Alì, Alà e dalialà, Portez detto Cristoforo Colombo e un rumeno un bè fissato con Cristiano Ronaldo e, infatti l’abbiamo chiamato Lu setti. Abbiamo perso di brutto e Marcellino si è tirato a terra tutto incazzato. Non se ne voleva andare dall’aria. Ajò gli ho detto che devi cucinare e lavare i piatti che ti tocca e non fare come Inzaghi chi “candu lu sfiorani pari sempri murendi”. Io, poi ho detto a Cristoforo Colombo che stasera tifo Germania perchè a me i portoghesi mica mi piacciono. Ci siamo lasciati così. Ne abbiamo raccolto a birretta da terra e ci siamo messi in fila, tipo spogliatoio per tornarcene a casa. In cella. Stasera la partita è alle sei, giusto all’ora di sbobba. Perchè in galera, per chi non lo sapesse, è come l’ospedale dove ne hanno tolto il fegato a babbo: alle cinque e mezzo passa il carrello della cena e se ne vuoi bene se no ti arrangi. E noi ci arrangiamo. Cuciniamo per i fatti nostri. Oggi un bè di insalata così ci riempie la pancia e filetti di merluzzo fritti che Birretta li fa davvero un bè bene. Tra questo e le scommesse sulla partita ci siamo seduti. La squadra di calcetto non è la squadra della cella ma abbiamo chiesto la socialità e ce l’hanno data. Adesso ci ascoltano e ci fanno stare più larghi che rispetto a san sebastiano ci sembra di essere all’aeroporto e quasi ci perdiamo. A me i tedeschi mi fazini ischiffu, ma a calcio sono bravi e ho una mia teoria. Se vincono e passano il turno come primi e anche noi arriviamo primi poi, con loro, ci vediamo in semifinale e li castighiamo. Come nel 1970 e nel 2006. Solo che Antonio lu tedescu non li sopporta e lui si chiama così solo perchè è biondo e solo Mariolino millibrinchi mi da un po’ di ragione ma dice che sicuramente il Portogallo è più forte perché lo dice lu setti. “Ascò bello bè,”gli ho detto “mi chi un cristiano ronaldo non può giocare a la sola che non è Mandrake.” Mariolino sorride e dice: “e a te lo ricordi a Mandrake contro la Spagnola? Dezi a zero li ha fatto”. Tutti cominciano a ridere e gli diciamo di smetterla con la coca e le pasticche nascoste. Perché Mariolino è fatto così: tossico perso , si ciuccia le pastiglie davanti all’infermiere, ma solo un pò e poi le sputa e le fa asciugare alla finestra. Poi se ne mette insieme un cinque o sei e se le fa con la coca cola e dopo un pò si mette a letto e comincia a brincare che sembra una cavalletta. Ecco perchè lo chiamiamo millibrinchi. La partita comincia male. Rigore per la Germania e Mueller segna. “Cazzo Antò”, dice Birretta “ma chistu da quando c’era giggi riva continua a segnare”. “Mi che non è lo stesso mì, “ dico io e gli giro con uno schiaffo ai capelli e mi guarda male. Germania uno Portogallo zero. Sentiamo l’urlo di terrore di Lu setti dall’altra camera. Non gira dico io, la perdete. E girami li.... insomma ne buttano uno del Portogallo fuori e poi segna il due a zero la Germania. “Abà comincia la vendetta, “dice Birretta ma si capisce che lo dice così, giusto per parlare, così come in tribunale quando ci stavano condannando e sette anni. Lui si avvicina all’avvocato e dice e cosa facciamo avvocà? Ci prendiamo sette anni? E l’avvocato serio gli dice: “non ti preoccupare, ci vendichiamo in appello”. Nove anni ci hanno dato, la bagassa loro, in appello. Manco finito il pensiero che Mueller fa il tre a zero. Antonio comincia ad incazzarsi davvero: a me chistu Muller non mi piace molto. Alla fine del primo tempo passa l’assistente e ci dice se vogliamo andare alla sala socialità che c’è il televisore perché adesso hanno inventato questa cosa della socialità e che i detenuti devono stare bene. O appuntà, a casa nostra stiamo bene, a lo vuole capire? Birretta lava i piatti e noi ci fumiamo una sigaretta. La cosa che funziona in ogni carcere è la possibilità di fumare sempre e da tutte le parti. Ma secondo gli educatori questa cosa non dura che dobbiamo fare le cose come le fanno fuori. A me mica mi piace questa novità di fare gli educati. Il secondo tempo non ha molta storia e si capisce che i crucchi ne capiscono di calcio. Mi dispiace aver tifato la Germania ma sono davvero forti. Solo che non mi ricordo manco un nome tranne quello che solo a calcio poteva giocare e si chiama Kroos. Fanno subito il quattro a zero tripletta di Muller e tutti a casa. Io penso che ci troviamo in semifinale, Birretta dice che il portogallo già passa, Antonio risponde che a lui i tedeschi gli stanno sulle balle a prescindere e con noi perdono sempre, millibrinchi è stirrigato sul letto e russa alla grande. Adesso ci tocca il telegiornale e le cose della vita. Domani altra partita. Io ho deciso che dobbiamo giocare ai passeggi con quelli della cella sette e otto. Che sono sagome. magari con quelli vinciamo e ci portiamo a casa la stecca di ms. Che male non fa.

0 Comments

Pallone a sbarre (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Regina Coeli, Roma – FRANCIA- HONDURAS 3-0)Diario dei mondiali di calcio – quinta puntata.

6/15/2014

0 Comments

 
Immagine
Mi chiamo Pedro Celachè e sono honduregno. A Regina Coeli mi chiamano tutti coccodè perché mi hanno beccato a Fiumicino con una pancia piena di ovuli che ho dovuto espellere in questura prima di finire in carcere. Quindici anni. Mica pochi. Era la seconda volta che facevo il trasportatore. Ad Amsterdam mi era andata bene. Lavoro abbastanza semplice e ben remunerato. Insomma, qualcuno, ne sono convinto, mi ha venduto per far passare un altro con più ovuli. Non si spiega altrimenti l’attenzione spasmodica nei miei confronti da parte della polizia. Sono qui a guardare Francia Honduras con i miei compagni di cella. Dico subito che ho un tifo amico. I francesi non sono ben visti a Roma e in Italia in genere. Almeno a livello calcistico. Tutti ricordano la testata di Zidane e Materazzi in questa sezione è, pur essendo interista, una sorta di eroe. Nella mia cella siamo in tre: io, er carota detto così perché quando si arrabbia arrossisce tutto e il vikingo, capelli lunghi, barba bionda e terribilmente tifoso della magica. Che sta per la Roma. Il problema più grosso in questa sezione è la discussione tra laziali e romanisti. Ci sono ortodossi che fischiano ad ogni palla che tocca Candreva. Anche il vikingo non lo ama molto ma quando ha fatto il cross e Balotelli ha segnato ha esultato e ha detto: “an vedi sti negri e sti burini”. Comunque hanno deciso di tifare Honduras. Anche un altro, nella cella a fianco ha affermato di tifare gli honduregni. Lui è interista, mal visto da queste parti, ma siccome è sardo e ha la foto della Canalis che ha avuto una storia con Vieri, tutti lo rispettano. E’ di Sassari e dice anche che è parente lontano della Canalis. Non so se sia vero, non so neppure dove sia Sassari. So solo che la Canalis, quella del calendario, è messa abbastanza bene e potrebbe giocarsela con chiunque. La partita è vaporosa, non c’è l’enfasi di Italia-Inghilterra e noi facciamo la figura degli agnelli sacrificali. Dobbiamo perdere per forza. Il vikingo ha in mano una cipolla e prepara la cena. “A coccodè” mi dice “me sa che oggi piagnete” e mi mostra la cipolla. Purtroppo non c’è bisogno di surrogati. Quelli, i francesi, hanno Benzema e si capisce subito che è la sua serata. Infatti: rigore, gol quasi gol e poi autogol e gol di forza, di prepotenza. 3-0 e addio Honduras. Poco tifo, poche occasioni, qualche pacca sulle spalle da parte di Er carota che è rimasto bianco latte per tutta la partita a differenza di quella con l’Italia che pareva una fiamma incandescente più che una carota. Ci sediamo a cenare in una cella di dieci metri quadri. C’è poco spazio e dobbiamo spostarci uno per volta. I mondiali però fanno trascorrere il tempo abbastanza velocemente. Il vikingo mentre addenta una mela dice: “Ahò, se stavo fori me vedevo l’Argentina che a casa c’ho Sky. Sti morti de fame der gabbio stanno ancora con la rai”. Io sorrido e penso a Messi. Il mio giocatore preferito: la pulce. Questo vorrei essere per fuggire da queste sbarre. “A coccodè”, dice er carota “me sa che ve ne ite a casa”. Sorrido mentre comincio a lavare i piatti. E’ il mio turno. “pensa che fortuna”, rispondo “loro ritornano a casa. Io qui, ancora per tredici anni”. Er carota non risponde. I mondiali, in fondo, sono solo una parentesi colorata dentro una galera. 
(traduzione a cura della redazione di Sardegna blogger)
 

0 Comments

Pallone a sbarre. (Dal nostro inviato stabile nel carcere di Buocammino) ITALIA – INGHILTERRA 2-1- Diario dei mondiali di calcio. Quarta puntata. 

6/14/2014

0 Comments

 
Immagine
Io l'ho detto subito che non sono sano. Ma quelli di sardegna blogger, che manco so cosa vuol dire, mi hanno detto scrivi, scrivi. E io devo raccontare di Italia Inghilterra dal carcere di Buoncammino. Siccome sono nato vicino allo stadio di Sant'Elia io di calcio ne capisco. Anche di scippi e droga. Tifo Cagliari, giusto per essere chiari con tutti i caghini che hanno un'altra squadra ma, quando gioca l'Italia non si discute. Infatti al sinistro tutti tifano Italia, anche quelli scoppiati parecchio tipo Antonello detto fiamma, perché si è bruciato la faccia con il fornellino e gigi lo storto che io l'ho sempre chiamato così perché mica è storto solo che gli vanno tutte storte le cose che fa ed è sempre in galera. Mica che a me mi vada meglio ma più fuori di lui sono stato. Insomma, vi parlo di questa partita che è già finita e tutti siamo contenti. All'inizio mica era così. Dico subito che gli inglesi mi stanno sulle p. (quelli del blogger mi hanno detto che non si scrivono parolacce e quindi per me è un casino, ma casino si può dire? Boh) perché io una volta sono finito anche in carcere a Londra per due etti di fumo. Posto di m. il carcere di Londra. Non è che puoi lavorare o fumare tranquillamente. Li lavori a gratis e le sigarette solo dieci al giorno, che manco in comunità. Dunque gli inglesi devono morire a prescindere. Minchiolino, quello si chiama così e non vi dico perché, prima di vedere la partita è andato dal dottore e gli ha detto che era più scoppiato del solito e vedeva cose strane e non poteva dormire e che voleva il tavor. Quello non so come gli ha dato una bella razione e alle undici era drommiu perdiu e gli abbiamo dato quattro schiaffi quando è cominciata la partita. Siamo in quattro in cella, io, minchiolino, antonello su nordista, che è di Olbia e quindi del nord, e Tonino pigadinni e anche questo non lo spiego sennò mica me lo pubblicano. Insomma tutti a tifare Italia e soprattutto Sirigu che noi lo chiamiamo siringa, perché ci ricorda i nostri bei tempi andati di eroina e coglionate ( e si può dire? boh). Insomma a me mi dispiace che non c'è Buffon ma Tonino mi dice subito ma pigadinni tu e Buffon che è uno scoppiato antico.
Poi però lui tifa Inter e allora gli dico che di calcio non ne capisce niente e dimmi un nome di un interista in nazionale e mi dice nagatomo. Oh tonino, gli dico, ma pigadinni e cittudidda che non ne capisci di pallone. All'aria stamattina abbiamo deciso che al gol dell'Italia si devono sbattere le gavette ma poco, sennò ci fanno rapporto. Minchiolino, come sempre, da ragione a noi e a me che sono per anzianità il capo della cella e lui a volte mi fa anche il letto, ma solo perché è più bravo. Niente birra perché adesso in questa galera siamo diventati no vino, in inglese e non capisco cosa c'intrada sa birra ma solo fanta e coca cola. E vabbeh. Manco ci sistemiamo davanti alla televisione perché in cella anche se piccola ci sono sempre cose da fare, tipo lavare le pentole e pulire il cesso e scrivere alla pivella, che Marchisio ti tira un calcio che manco lui lo capisce e segna. Gavette a molla, urla e cori contro gli inglesi. Sentiamo anche il casino che fanno al destro e anche l'agente passando dice non fate troppo casino e si capisce che il troppo non è lo stesso troppo degli altri giorni. Poi manco finito il casino che quello scimpru di inglese prende e segna. Io, una cosa la voglio dire ma tra tanti italiani proprio l'argentino più cretino ci dovevamo portare ai mondiali? capisco se uno si porta a Maradona o a Messi e allora siamo messi bene, ma questo Paletta non vuole visto. La discussione dura molto, minchiolino lo difende ma lui ne capisce quanto il suo nome, tonino gli ha tirato una decina di pigadinni in su ..... mentre antonello su nordista parla solo di siringa Sirigu che è di vicino a casa sua e che è il migliore della partita. Dentro questa discussione ci siamo dimenticati di togliere il latte dal fornellino a gas e succede un casino. Fine del primo tempo e minchiolino si è torra dormito. Vicino alla nostra cella se la prendono con Ballottelli che adesso si sposa e quindi pensa ad altro. Minchiolino si sveglia e dice subito e mica cussu è caghineri. Insomma le sigarette riempiono la cella di fumo quando lui, Supermario prende una palla incredibile e la mette dentro. Le urla sono più forti e tutti ci abbracciamo. Mi che stiamo facendo una bella figura. Poi c'è stanchezza, molto umido e molto caldo. Questo dice il commentatore e noi sbuffando e fumando diciamo eh... per un mese anche in albergo siete. E noi, una basca che c'è dalla cinque del mattino, una cella che ci sembra l'amazzonia e che se strizziamo le lenzuola esce acqua per la pastasciutta. Gli ultimi dieci minuti sono molto silenziosi. c'è l'ispettore che passa ogni tre minuti e allora, e allora, e allora. Allora zitto ispettò che porti sfiga che ne abbiamo abbastanza. Quando fischia l'arbitro siamo tutti felici e ci beviamo una bella coca cola. Questa storia della birra non si capisce, scriveremo al direttore si ci autorizza almeno per l'Italia. Vi farò sapere. Minchiolino adesso gli è passato l'effetto del tavor e ha due occhi grandi come un gufo e non ha voglia di dormirsi. A me quelli di sardegna blogger mi hanno detto che mi fanno scrivere solo se vince l'Italia. Spero di diventare un grande scrittore allora. Alle tre del mattino tutto il carcere dorme. Io mi corico dopo l'ultima sigaretta e, mentre sto per dormire, Minchiolino mi guarda e mi dice: a te lo immagini se c'era anche Zola? Tonino si gira nel letto e gli risponde Oh minchiolino ma pigadinni in su c...... Insomma, le solite cose da galera.

0 Comments

pallone   a sbarre (diari del mondiale visti dal carcere) Seconda Puntata. OLANDA SPAGNA 5-1-da un inviato stabile in un carcere del Veneto. 

6/13/2014

0 Comments

 
Immagine
Quelli di Sardegna Blogger mi hanno chiesto di commentare la partita Spagna Olanda. Mi hanno pregato inoltre di spiegare come si vive la partita attimo per attimo dentro la cella di un carcere. Ho detto si. Consapevole di essere uno spergiuro e quindi di non poter dire mai la verità. Ho attesto che l’Olanda con Robben firmasse il quinto gol e ho deciso di provare a dirvi quello che penso. Il pallone non è rotondo, ma ha trovato giustizia. Certo, dopo quattro anni ma con gli interessi. Quell’Olanda eterna seconda si è presa il gusto di umiliare i campioni del mondo come mai era accaduto. Il mio compagno di cella era per gli spagnoli. Io, come sempre, per chi vince. Annuso l’aria e osservo gli occhi. Poi non mi faccio fregare al primo gol. Che era della Spagna. Ho capito, fin da subito, che non c’era la squadra, non c’era il tiki taka, non c’era Iniesta, Xavi, non c’era la squadra. Il mio compagno, rapinatore solitario, mi ha detto, fin da subito, che le furie rosse vincono con calma. Son diventate più rosse e meno furie. Chissà. Ai passeggi, stamattina si accettavano le scommesse. La Spagna era favorita. Quando Xavi ha segnato il rigore ho pensato che avrebbero perso. Facile dirlo adesso. Certo. Sono furbo. Questo l’ho sempre saputo. Tre rapine commesse e solo una pagata. Un buon ritmo. Per dire. In carcere, il pallone è la metafora della vita. Provo a spiegarlo. Mi chiamano il professore. Perché avevo un certo portamento nelle parole anche quando compivo le rapine. E davanti ai ragionieri impauriti mi scusavo. Avevo letto Brecht e ero profondamente convinto che i veri rapinatori erano i banchieri, mica i poveri bancari. Mai sparato un colpo. Mai. Ho visto la Spagna squagliarsi davanti ad una squadra allegra, felice. L’Olanda arriverà anche alla finale e la perderà. Un pò come la mia vita. Sono giunto alla rapina più bella e proprio quella mi andò male. Quindici anni. Non si può perdere cinque a uno e rischiare il sesto e il settimo e sbagliare vergognosamente con il Nino almeno il secondo gol. Non si può. Questa è la vita. Ho scommesso stamattina due pacchetti di sigarette sulla Spagna. Le ho perse. Ma scommettere non significa tifare. Stasera ho scoperto che il calcio non è mai banale. Non poteva finire in quel modo. Eppure è finita. Ho detto le stesse parole quando Marta mi ha lasciato. Mi ha segnato troppi gol e io come uno stupido, aspettavo di poter vincere. Non mi ero reso conto che i piccoli passaggi, a volte, non regalano ampie soluzioni, ma solo piccole opportunità. E ho perso. Come la Spagna. Quelli di Sardegna Blogger chiedevano una mia cronaca sulla partita. Forse non ci sono riuscito. Il carcere, a volte, complica le cose. Domani, però tiferò da questa galera del Veneto quella pazza e incredibile Italia.


0 Comments

pallone a sbarre (dal nostro inviato speciale in un carcere della Lombardia - terza puntata)Aspettando ITALIA/INGHILTERRA 

6/13/2014

0 Comments

 
Immagine
Noi, nella nostra cella siamo in nove. Quasi una squadra di calcio. E siamo tutti per l'Italia. Non ci siamo scelti, il destino ha lavorato per noi. C'era un algerino sino a ieri ma è stato scarcerato. Teneva per il Camerun ma ci aveva promesso di tifare Italia se fosse rimasto. la sua partita, almeno lui, l'ha vinta. Noi siamo qui, al caldo ad aspettare la mezzanotte. In carcere, per fortuna, si aspetta sempre qualcosa e si aspetta a volte per giorni, mesi, anni. Non solo la libertà anche un pacco dei familiari, una lettera, una visita, un sorriso. Mai un abbraccio. Il carcere è il sottosuolo della vita vera, quella reale, quella che si sposta velocemente. Credo che la giornata degli altri sarà più o meno normale, lavoro,figli, pranzo, qualcuno al mare, siesta, amici, bar e, solo a mezzanotte con una birra davanti si metteranno a guardare l'Italia. Qui, invece, qualche piano più sotto, l'attesa per la partita è l'unica cosa che ci proietta verso qualcosa di serio, di intenso. Ne parliamo da giorni. La cella dodici, per esempio, ha messo tutte le foto degli azzurri sui muri. Teoricamente non si può fare, solo teoricamente però. Come non si dovrebbero mettere quelle della Canalis o di Belen. Sopratutto adesso che in questo carcere il comandante è una donna. Ma non ha mai protestato. Quando passa guarda e non dice niente. Sono solo piccoli vezzi del sottosuolo. La cella sedici, invece è totalmente per la Spagna. Piena di spagnoli e qualche italiano scemo, da ieri sono in religioso silenzio. Contano ancora i gol presi dagli arancioni. Sono cose che fanno male. Nella nostra pittoresca sezione, la terza del primo piano, tutti hanno la loro squadra: russi, svizzeri, messicani, croati. Quelli che non c'è l'hanno solitamente si buttano sul Brasile e sull'Italia per paura. Paura di essere sfottuti, sia chiaro. In carcere una partita di calcio è un evento mediatico unico e irripetibile. Quando gioca l'Italia nessuno si muove, nessuno si taglia, nessuno tenta il suicidio, nessuno comincia una rissa. Semmai dopo. Subito dopo o molto dopo. Dipende da come è andata. In carcere, nel sottosuolo della vita, il pallone non è rotondo ma è la voce della libertà, un modo per poter urlare senza prendere rapporto quando la tua squadra segna, la possibilità di essere insieme, nel tifo anche con i poliziotti, anche se stanno lavorando e mantengono un certo comportamento quasi asettico. In carcere c'è sempre qualcuno che si allena alla partita anche da giorni. Un allenamento legato a nascondere le lattine di birra. Accumulare per qualche giorno per poi avere la possibilità di bercele tutte in una sera. È vietato. E lo sappiamo. Infatti, la paura è la perquisizione proprio il giorno della partita. Lo hanno fatto ieri alla quarta sezione, quella dei napoletani. Ma loro esagerano con il prepartita: erano due settimane che accumulavano e, più di qualcuno che se l'ha cantata, era proprio evidente che c'era troppa birra dalle loro parti. Noi, nella nostra cella siamo stati bravi, solo tre lattina a testa. La prima quando inizia la partita, la seconda all'intervallo e la terza per brindare. Brindare cosa? Magari si vince o si pareggia ma perdere non è contemplato. Nel sottosuolo perdiamo soltanto e non possiamo permetterci cose del genere. Se si perde è perché gli inglesi hanno rubato e la terza lattina c'è la beviamo per rabbia. Qualcuno dice che gli spagnoli sono terribilmente tristi e minacciano il suicidio. Non è vero. Hanno solo deciso di vincere tutte le altre. Come dice il mio compagno di cella Mario, detto il sordo, perché fa sempre finta di non sentire: "non dobbiamo mai pensare al fallimento di una rapina, ma dobbiamo riflettere su come fare bene la prossima". Il sordo di rapine ne ha fatte parecchie e qui, nel sottosuolo ci campa da una vita a riflettere. Io non so come va a finire questa partita. So però, per certo che nessuno nella nostra sezione tifa per l'Inghilterra. Squadra poco amata dalle nostre parti. L'ispettore sardo, all'aria stamattina ci ha salutati e ha sorriso. Lui, quando Zola segnò all'Inghilterra, a Wembley, nel 1997, era di servizio a Pianosa e quella partita se la ricorda ancora. Noi abbiamo restituito il sorriso e gli abbiamo detto che stanotte, a mezzanotte tutta l'Italia tiferà gli azzurri. Anche noi del sottosuolo. Aspettando un nuovo Capello e un piccolo grande Zola. Buona partita a tutti.

0 Comments

CALCIO  A SBARRE (diario dei mondiali visti dal carcere. Prima puntata) BRASILE CROAZIA 3-1- da un inviato stabile in un carcere della Sardegna. 

6/12/2014

0 Comments

 
Immagine
Ho deciso di tifare Brasile. Mica devo essere sfigato anche nel calcio. IL mio compagno, diciamo d’avventura, tifa i croati, quelli a scacchi, che solo per la maglietta strana manco morto li avrei tifati. Vabbeh, il gusto di perdere il mio compagno ce l’ha. L’hanno preso mentre faveva il palo ad un furto anche facile. Lui stava andando via frusciando tranquillo e invece, la sfiga lo perseguita: e non c’era un maresciallo che passava per caso da quelle parti? Dentro, senza manco una prova. Allora ha detto che tifa solo squadre sfigate che magari vincono. Eh... gli ho detto, allora ne vinci di mondiale. A lui però non interessa vincere. A uno che fa il palo in un furto cosa possiamo chiedere? Mi sono acceso una sigaretta perché la partita comincia. Faccio sempre così quando inizio una competizione. Anche a casa, quando mi capita di essere a casa. Ho visto il mondiale del 98, quello vinto dalla Francia in un carcere della Liguria. Avevo deciso di tifare Brasile e non è andata molto bene. Quello del 2006, vinto dall’Italia mi ero fissato con la Francia e ho pagato due stecche di Marlbor ad un marocchino che tifava Italia. Odiava i francesi e odiava Zidane. Per me, invece, Zidane era il calcio. Nel 2006 ero in galera nel Lazio. Tutti tifosi dell’Italia, tranne io e il serpichino, uno stronzo napoletano che tifava Argentina perché lui tifa solo Argentina, perché Maradona, per lui continuava a giocare. per sempre. Gli ultimi mondiali li ho visti a casa. La mia donna era sempre incazzata perché mi ero fissato con le squadre e tifavo l’Olanda. Poi hanno vinto gli spagnoli. Che mi sono anche simpatici, ma una volta avevo un compagno in cella. Uno spagnolo che rubava le sigarette e voleva vedere solo telenovelas. Adesso con il mio amico che si chiama Franchino, lui dice perché dice sempre la verità, io dico perché il nome è uguale alla sfiga e al lavoro: un palo sfortunato mica può avere un nome serio. Insomma comincia la partita e mi sembra che i verdeoro non giocano a calcio. Camminano in silenzio. Neppure la sigaretta riesco a finire che quel Marcello che mi sembra la controfigura di Ficarra segna dalla sua parte. Autogol. I verdeoro. A Casa loro. Mi guardo il mio compagno di cella che rimane fermo. E ci provasse a urlare Franchino che in sezione lo ammazzano. Tutta la sezione è brasiliana. Poi, quando gioca l’Italia, tranne due rumeni, tiferemo gli azzurri. Io non ci posso credere che il brasile può perdere la partita. Non è possibile che un palo di un furto e anche sfigato può vincere. Non è mai successo. Adesso passa anche l’appuntato che ci chiede come è la partita e io gli rispondo che non siamo messi molto bene. Lui sorridendo dice, vedrai che i più forti vincono sempre, come nei film che vinciamo noi. Cosi mi dice l’appuntato e quasi quasi gli rispondo ma poi mi prendo rapporto e mi perdo i giorni e mi tocca il consiglio di disciplina e magari mi danno l’isolamento e non mi vedo le partite. Vincono loro. Ma loro chi, dico io? Franchino sorride ma a me sembra si sia pentito di tifare quelli tutti pettinati e zitti. Non sanno neppure gioire per un gol. L’appuntato ripassa e chiede quanto siamo e gli rispondo che i forti perdono e non è come nei film. Magari vince davvero la Croazia. E invece c’è quello piccolo che corre e fugge che prima pareggia e poi segna il rigore. Rigore da non dare dicono tutti. Anche io. Ma siccome ci faccio il tifo sto zitto. Fino al terzo gol di Oscar. Ecco. Franchino è sistemato lui e la sua vita da palo. Almeno stasera, mentre salgo sul letto a castello ho vinto qualcosa. E lo sai perché tifo Brasile? Lo chiedo a Franchino ma non mi risponde. Perché loro sono poveri. E sfigati. E giocano con il pallone sulla sabbia. Come quel maledetto nostro campo di calcetto. Sabbia e pietre. Ecco perché tifo Brasile. L’unico problema che anche l’appuntato sta con il brasile. E quindi, per una notte abbiamo vinto tutti: guardie e ladri.


0 Comments

Il lessico del lavoro (Maria Dore)

6/9/2014

0 Comments

 
Immagine
In alcuni film o in certi anedotti quotidiani capita che compaia qualche personaggio che ha come passatempo la lettura dei necrologi. 
Una passione singolare, che però rischia di perdere terreno nei confronti di un’altra attività simile, ugualmente grottesca. La lettura degli annunci di lavoro. Le due cose non sono così poi dissimili. Si leggono i necrologi, si dice, per riflettere sulla morte. Leggere gli annunci di lavoro servirà, allora, per riflettere sulla morte del lavoro stesso, tant’è che se il sociologo polacco Zygmunt Bauman parlava di lavoro liquido, forse oggi dovrebbe rivedere la sua celebre teoria e parlare di lavoro “evaporato”. 
La lettura degli annunci ti apre alla comprensione del mondo di oggi. Il primo ostacolo da superare è capire cosa chi ha inserito l’annuncio ti stia chiedendo di fare. Se lo capisci, si passa all’elenco dei requisiti richiesti.
Una parola molto usata è “obiettivo”: “Si selezionano con urgenza per la sede di Segrate – la metà dei lavori offerti sono a Segrate, quasi fosse una Silicon Valley, solo che non siamo in California e non si progetta alta tecnologia, ma si cacciano talenti nel fantomatico settore Marketing “in espansione” - giovani ambiziosi in possesso di spiccate doti comunicative, capaci di lavorare per obiettivi, con predisposizione a lavorare in team”; “La capacità di lavorare per obiettivi e un forte orientamento al cliente completano il profilo.” Tradotto, per maggiore chiarezza: l’obiettivo è quello che ti imponiamo noi, se non lo raggiungi, sei fottuto.
Altra parola/requisito sdoganata dai massimi esperti di Human Resources: “ Proattività”. Se pensate che essere semplicemente “attivi” sia una qualità spendibile vi sbagliate, per cui munitevi anche voi del magico prefisso. 
Annuncio di un’impresa di pulizie britannica. Per passare il primo step della selezione – sì, selezione - c’è la compilazione di un questionario. Il lessico della domanda numero 5 è spiazzante, fa pensare a parole prese a caso dal dizionario: “ Hai confidenza con gli aspirapolveri?”. 
Poi c’è il vocabolario della la discriminazione. “Età massima 30 anni”; io glielo porterei il mio esempio a quelli che mettono questi annunci; a vent’anni io ero una cazzona, posso sapere cosa pensate che si abbia di positivo a vent’anni, che poi si perde misteriosamente una volta passati i 30? 
Poste italiane assume! È l’urlo dell’ennesimo portale. Improvvisamente questi uffici di collocamento virtuali offrono un vantaggio per il povero utente, un elemento che può tradursi in un’arma: si possono lasciare i commenti. E allora scatta la vendetta lessicale, sintattica e grammaticale: 

“Ma andate a fanculo siamo stanchi di mandare 3000 cv al giorno senza alcuna risposta”;

“Minchiate, grosse. E togliete quei maledetti vecchi inefficienti che ormai hanno già dato;”

“Per fare i postini per 3 miserabili mesi,vogliono diplomati con minimo 70.Ma andate a fare in culo,io ho preso 64 e nn mi sento inferiore ad uno che ha 70 di voto;

“Io ho fatto la domanda 11 volte mai chiamato e vogliono diplomati minino con 70 e c'e gente nelle poste che non sa nemmeno quanto fa 2 +2 andate a cagare;

“I requisiti sono altri devi essere figlia di chi già ci lavora devi essere un pò scema o imbecille o nipote del direttore magari è poi vedi che ti assumono senza neanche inviare il cv”.

“Ma non ve la finite co sti cazzo di link??? Ke sono più falsi di quella gran puttana della vostra mamma!!!”

E’ una reazione simile al terzo principio della dinamica: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; e se il lessico di chi offre lavoro si adatta ai tempi e diventa ermetico e ostacolante, quello del disoccupato fa altrettanto, a modo suo, e alla richiesta di “proattività” può anche scattare il liberatorio e inequivocabile “vaffanculo”.

0 Comments

La morte in diretta   [di Romina Fiore]

6/8/2014

0 Comments

 
Immagine
E poi capita che delle immagini ti spingano indietro nel tempo come in un flashback senza controllo ed ecco che, mentre in un’emittente sarda scorrono alcune inquadrature, mi ritrovo seduta in un divano biposto, stretta stretta fra i miei genitori, incollata alla TV per seguire il tragico recupero di un corpicino che, dal fondo di un baratro, si aggrappava alla vita.
Era il 10 giugno del 1981 e, quando Alfredino Rampi cadeva in quel pozzo artesiano largo 28 cm e profondo 80 metri, ero poco più che una bambina, abbastanza grande per non ignorare la gravità della situazione, ma troppo piccola per viverne le sfumature in tutta la loro drammaticità. 

Ciò nonostante in quel pozzo c’ero caduta anch’io, con tutta l’Italia. 

Forse il primo reality show della storia dove, a reti unificate, ad attenderci non c’era l’happy end che avremmo voluto.



E per il quale, col senno del poi, ho valutato la goffaggine degli interventi, l’improvvisazione dei provvedimenti, la grossolanità delle operazioni.

La televisione non era ancora attrezzata per una simile mole di diretta e, alla presenza di una sola telecamera fissa, noi spettatori vedevamo una folla indistinta traducendone i comportamenti in un lasciapassare per la nostra tristezza o il nostro ottimismo. 
Alternavamo gli stati d’animo, transitando in maniera repentina dall’uno all’altro. 
Io me lo ricordo bene quel pompiere Nando Broglio che cercava di calmare Alfredino cantando con lui le canzoni dei cartoni animati.
E ricordo altrettanto bene quel pianto che straripava dal ventre della terra. 
Un piagnucolio sempre più debole. 
Sempre più stanco. 
Fino a quando non si è trasformato in silenzio. 
Custodito dal fango.
Io me lo ricordo bene Angelo Licheri, è rimasto scolpito nella mia memoria senza andare più via e, a distanza di trentatré anni, rammento perfettamente il suo volto.
Forse perché sardo come me, forse perché, contravvenendo alle indicazioni, era rimasto a testa in giù il doppio del tempo consentito e una volta riemerso in superficie, infatti, era apparso in evidente stato confusionale. Dopo aver recuperato la lucidità aveva pianto.
Tra le lacrime aveva dichiarato di sentirsi impotente.
Singhiozzava mentre raccontava che sarebbe bastato un soffio per recuperare quel corpicino, ma il fango lo rendeva più scivoloso di un’anguilla ed ogni tentativo di acchiapparlo cadeva nel vuoto.
Sempre più giù, come Alfredino.
Come la nostra speranza di rivedere quella piccola vita nuovamente in superficie.

Dopo trentatré anni Angelo Licheri ha una gamba in meno, amputata a causa di quello che in gergo medico viene definito “piede diabetico”, e il portafoglio vuoto. 
Gli amici hanno cercato di costituire un’associazione che raccolga fondi per le sue necessità e il ministro dell’Interno Maroni gli ha rifilato, prendendone il plauso, un assegno da 10.000 euro col quale gli ha assicurato un sostentamento a malapena semestrale. 
Non l’ipotesi di un vitalizio, non una rendita mensile, non un assegno di mantenimento per un eroe dimenticato.
Uno degli umili che, nell’accezione manzoniana, sono i veri protagonisti della storia.
Le cui valorose gesta restano custodite nella terra, come il corpo di Alfredino.



0 Comments

SINISTRA (Luca Ronchi)

6/8/2014

0 Comments

 
Immagine
La sinistra è il padre che ci ha lasciati quando non eravamo ancora pronti.
Lei è anche la madre che continua a sorridere e vietare, dolcissima e insopportabile.
E oggi non esiste.
Come si fa?
Quanti sanno come ricostruirla! Quanti scrivono manifesti perché è il momento di ricostruirla! Però ogni volta le ossa sistemate per ricomporre lo scheletro, ovviamente, cadono.
Allora sul mucchio si fa avanti un altro, prende un altro osso e dice: ricostruiamo la sinistra.
E così via. 
Ma è mai nata una sinistra in questo modo? Dalla riunione di qualche testa pensante che periodicamente afferma “ il momento è arrivato”?
Non nasce più facilmente quando le cose spingono tutte insieme in una direzione e c’è qualcuno che se ne accorge e lo sa raccontare?
Io mi chiedo perché a migliaia ogni giorno arrivano in Italia dall'Africa. Mi chiedo cosa fa sembrare loro più conveniente la possibilità di morire in mare che la possibilità di restare fermi nel proprio paese.
Mi chiedo perché ritengono che, con la nostra crisi economica, siamo infinitamente più attrattivi dei loro villaggi e delle loro città. Che poi continuano ad amare. E quando affogano, con loro affoga anche lo strazio per una terra in cui avrebbero voluto vivere in pace, e non hanno potuto. Affogano per l’acqua nei polmoni e per la nostalgia. Mi chiedo se sia un problema di armi che sparano. Mi chiedo se sia un problema di pioggia, un problema di agricoltura che in Africa non funziona più, un problema di caldo sempre più insopportabile. Mi chiedo se sia lo stesso caldo che sentiamo noi.
Mi chiedo se sia giusto difendere i diritti di chi prende duemila euro di pensione al mese. Per non parlare di chi ne prende tremila, o seimila. Se sia giusto pagare questa pensione con i contributi dei precari che la pensione non l’avranno mai. Mi chiedo se qualcuno riuscirà a spiegarlo con chiarezza a tutti.
Mi chiedo se abbia senso distinguere tra capitale e lavoro. Molte battaglie e molte resurrezioni della sinistra (quelle tentate a partire dal mucchietto delle sue ossa), si nutrono di quella divisione. Mi chiedo da quale parte, in questo mondo diviso tra capitale e lavoro, tocca collocare le microimprese, le ditte individuali, gli artigiani senza dipendenti. 
Mi chiedo che relazione ci sia tra la difesa di chi perde il lavoro per un’impresa che delocalizza, la differenza di costo del lavoro, la fame di Occidente e la mancanza di diritti di chi lavora per molto meno ed è forza lavoro appetibile, la mancanza di democrazia in Cina o in Arabia Saudita, l’indispensabilità di certi partner internazionali, la pretesa di alzare frontiere contro l’immigrazione. Poi mi chiedo a quanti sia sfuggita la somiglianza tra Matteo Salvini e Alvaro Vitali.
E mi chiedo se abbia senso, e quale, non vedere che il nazismo ogni tanto si affaccia, che nel sottosuolo del mondo, e specialmente d’Europa, continua a circolare e ogni tanto alza la testa e guarda fuori. Mentre noi, o facciamo istintivamente tifo per l’Ucraina, o ci giriamo dall’altra parte.
Mi chiedo se sia possibile meravigliarsi ancora per la vicenda del MOSE, per l’EXPO, e per il prossimo pentolone che verrà aperto e controllato dalla legge e dai media. Mi chiedo quanto sia colpa di tutti noi. Perché non ci credo che siamo innocenti. Come italiani, dico.
Mi chiedo quanta chiesa e quanto oscurantismo c’è nel nostro essere sinistra. Quanta paura del cambiamento, in sostanza. Che è paura della vita e del mondo, mica altro. E mi viene in mente, en passant, il culo di Paola Bacchiddu, e le polemiche, e come Barbara Spinelli l’avesse silurata insieme ad un collegio di tromboni, dopo quella foto in bikini, perché aveva danneggiato l’immagine della Lista Tsipras. Barbara Spinelli, dico. Un’altra animatrice di mucchietti d’ossa. L’ennesima. Sotto gli occhi di tutti.
Mi chiedo se, rispetto a un anno e mezzo fa, quando Bersani e Renzi andavano a primarie, la domanda “Ma Renzi è di Sinistra?” abbia cambiato senso. Perché un senso ce l’ha ancora, quella domanda, ma non è lo stesso di prima. Che –come diceva il Colonnello- le domande non sono mai indiscrete, le risposte lo sono, a volte.
Mi chiedo se abbia senso continuare a parlare di sinistra, o se non abbia più senso mettersi a leggere la complessità senza pretendere di avere troppe idee chiare.
Mi chiedo ma non capisco, davvero, e mi sembra che la sfida sia enorme, perché le cose perdono senso con estrema facilità.
Credo che siano importanti due parole: rete e confine. Quel mucchietto di ossa che una volta era la sinistra, aveva senso dentro confini che o stanno crollando o, addirittura, non esistono più. Esiste invece una rete di relazioni che collega tutte le cose del mondo. La sua cifra si chiama complessità: sembra difficile, ma è solo un sinonimo di “vita”. 
Penso che, piuttosto che intestardirsi con le parole, ci vorrebbe il coraggio delle cose nuove. Il coraggio dell’esperimento e dell’eresia. Il coraggio della fuga e della resa. Il coraggio di sporcarsi con il fango giusto, quello che contiene almeno un po’ di letame. E ci vorrebbe la forza di seppellire, finalmente e per sempre, quello che ha diritto di riposare in pace. 
E un po’ di saggezza, per distinguere tra quello che deve essere sepolto e quello che ancora dobbiamo imparare.


0 Comments

Cronache di ordinaria discriminazione  [di Romina Fiore]

6/5/2014

0 Comments

 
Immagine
Arriva il fotografo per la foto di fine anno ed i bimbi vengono sistemati alla bell’e meglio per far sì che l’inquadratura abbracci tutta la classe. La maestra ha il vestitino elegante delle feste e forse è andata anche dal parrucchiere, perché sa che quell'immagine la renderà immortale nelle vite dei suoi piccoli alunni.
Il bambino diversamente abile viene sistemato all’esterno. 



E’ un’appendice scomoda da mettere quanto più distante possibile dagli altri.
La maestra non si accovaccia accanto a lui.
Non invita i compagni a circondarlo in un simbolico abbraccio accogliente.
Non dispone gli amichetti vicini.

Il piccolo, dalla sua carrozzina, sorride compiaciuto di quel momento. Ignaro di tutto o forse no.
Purtroppo non sa che la disabilità, quella vera, è di una maestra che non capisce.



0 Comments

Non ci resta che ricordarti (giampaolo cassitta)

6/4/2014

0 Comments

 
Immagine
Ricomincio da tre l’ho visto troppe volte. Ne conosco i passaggi essenziali, le battute fulminee, gli sguardi di Gaetano /Troisi, quel suo napoletano incomprensibile e poeticamente illuminante, le battute, i silenzi, gli spazi fatti di piccole cose, quelle frasi divenuti proverbi, modi di dire: “Massimiliano, troppa libertà. Meglio Ugo, perchè con quel nome il bambino non fugge oppure, se non lo vogliamo far diventare troppo represso,  lo chiameremo Ciro.” C’è quella Napoli che ho amato da sempre, nel teatro di Eduardo, nei vicoli di Spaccanapoli, nelle serate passate in una lunghissima estate del 1978 a Fuorigrotta dove imparai la bellezza di una città incredibile da amare e impossibile da odiare.  Napoli ha gli occhi Massimo Troisi, la sua esilarante tristezza, un ossimoro perfetto. Massimo Troisi ci ha lasciato il 4 giugno del 1994. Aveva 41 anni. Ne avrebbe 61 e molte cose da raccontare. Ci ha lasciato camminando sulla terra molto leggero, con orme quasi impalpabili. Ci ha lasciato con pezzi memorabile che, almeno una volta al mese riguardo. Provo ad immaginare cosa sarebbe oggi Massimo, dentro questo mondo complicato più delle sue parole, in questa Napoli meno colorata e più arroccata dentro una tristezza dilagante. Mi chiedo sempre: ma perché uno si costruisce il suo Pantheon, perché ha l’atroce necessità di abbracciare persone mai viste e mai conosciute: un attore, uno scrittore, un musicista, un poeta. Perché insieme a loro si sta bene. Io, con Massimo Troisi,  ci ho convissuto per anni e ancora bussa alla mia porta con quei suoi riccioli pasticciati, quelle frasi terribilmente incomprensibili, quella faccia dolce e intensa di Ricomincio da tre, di scusate il ritardo, di pensavo fosse amore, di Non ci resta che piangere, del Postino. Mi guarda sempre con quella buona dose di malinconia e con un lieve sorriso mi sussurra: “Ricordati che devi morire. ‘Mo me lo scrivo, Massimo. Mo me lo scrivo”.  C’erano molte cose da raccontare in queste giornate livide ma stasera sto con Massimo. E con il suo pazzo e incandescente cuore.

Ciao Massimo, non ci resta che ricordarti.


0 Comments

Una pizza sospesa. A Oristano (giampaolo cassitta)

6/3/2014

0 Comments

 
Immagine
L’aggettivo sospeso restituisce un’idea di precarietà. Come i nostri tempi. Da anche l’idea di una certa “napoletanità” nel senso più verace del termine: “un caffè sospeso” è una sorta di mancia lasciata da qualcuno in un bar, pagata da uno sconosciuto per chi magari quel caffè non si può permettere di pagarlo. Ne parlava Eduardo e ne parlava, soprattutto De Crescenzo nella sua “Napoli di Bellavista” dove le sospensioni era anche momenti sublimi. Dunque, si entrava in un bar e gentilmente si chiedeva al proprietario: “C’è per caso un sospeso?” Alla risposta affermativa il cliente entrava beveva il caffè e ringraziava qualcuno che non c’era. Era un gesto piccolo, simpatico, dolce, che presupponeva la lealtà di due persone: il barista che non doveva barare e il cliente che doveva, davvero, essere senza soldi. Intorno tanta piccola sociologia napoletana: quella di Eduardo ma anche quella timida e bellissima di Massimo Troisi; quel sospeso rappresentava un incontro candido tra il benefattore sconosciuto e il beneficiario leale. Poi, probabilmente, l’ingranaggio in qualche bar si “ingrippava” ma questo gioco è una forma di gentilezza d’altri tempi, un voler offrire con una certa grazie qualcosa di piccolo, infinitesimale ma che riconcilia con la vita.
A Oristano, Tiziana Figus, che gestisce una pizzeria al taglio in via De Castro, ha pensato all’idea del caffè sospeso e ha deciso di rimodularla con la “pizzetta”. Il cliente arriva e ordina una pizza per lui e ne paga due. La seconda è “sospesa”, in attesa di un cliente che si affacci alla pizzeria, qualcuno che quella pizzetta, per quanto di poco conto, non se la può permettere.
Brava Tiziana. Sono tempi ingiusti questi. Ma giusti, giustissimi per un “sospeso” o, meglio per una “sospesa”. Ha solo un dubbio la nostra simpatica Tiziana, quello di trovare le persone con il “giusto coraggio per varcare la soglia”. Lei ha promesso un silenzio assoluto e sono certo riuscirà a mantenere questo piccolo segreto. Una pizzetta sospesa è solo un frammento di abbraccio verso un mondo con solchi di dolore molto grandi. Ma la vita ha bisogno di piccoli segni e ha la necessità, qualche volta, respirare piano. Regalandosi una piccola sospensione.


0 Comments

Giulia   [di Romina Fiore]

6/2/2014

0 Comments

 
Immagine
Giulia ha 14 anni, è alta un metro e cinquanta e pesa cinquantotto chilogrammi. 
Non è grassa e non è magra. 
Le sue cosce sono tornite, non ciccione. 
Il suo ventre è morbido, non eccessivo e quando si siede un piccolo rotolino si adagia sulla cintura.

La mamma, con l’arrivo del primo sole, ha fatto il cambio negli armadi: ha lavato, stirato e riposto nelle casse tutti gli indumenti invernali ed ha lavato, stirato e sistemato nei cassetti gli indumenti estivi dell’anno scorso.
Giulia è rimasta incantata davanti alle sue t-shirt, che le hanno riportato alla mente uscite notturne con l’aria tiepida, e a quei pantaloni bianchi aderenti col sapore dell’estate.
In un impeto di nostalgia li ha afferrati, è andata a misurarli davanti allo specchio.
Troppo presto per indossarli, l’aria ancora frizzante di aprile non lo permette, ma ha un’incredibile voglia di vederseli addosso.

Prova ad infilarli con l’ingordigia tutta adolescenziale di morsicare il tempo, ma quest’anno vanno stretti e faticano a salire sulle cosce.
Quei pantaloni, ormai esageratamente attillati, non riesce ad abbottonarli.
Giulia si guarda allo specchio e si sente enorme, osserva i glutei e vede un culone gigantesco: il suo cervello grida un pericolosissimo ALT.

Giulia cambia la sua alimentazione, decide di eliminare i carboidrati e quando a tavola la mamma le porge il piatto di spaghetti, lei scuote la testa. Solo il secondo e tanta insalata.
Pane, dolci, pasta sono ormai nemici da combattere a tutti i costi. Anche quando il sonno tarda ad arrivare, perché la pancia è vuota e gorgoglia fastidiosamente.
I primi risultati si cominciano a vedere: quei pantaloni bianchi abbottonano comodamente adesso.
Giulia è felice e tutte quelle faticose rinunce danno i loro frutti.

Decide di calcare la mano, riduce ulteriormente le porzioni e va ogni giorno a fare jogging. 
Non le piace, è faticoso e le manca il fiato ma la gratificazione di quei pantaloni bianchi che vanno sempre più larghi è un incentivo strepitoso. Annulla la fatica e cancella il fiatone.

Giulia pesa ora cinquantadue chilogrammi e non si accorge che sta esagerando.
Il suo ciclo mestruale per un mese è saltato e lei sta perdendo molti capelli. Ma va bene così, è contenta per quei pantaloni bianchi che ora deve reggere con una cintura perché sennò le scivolano sulle caviglie.

Continua a infliggere spietate sforbiciate al cibo, esclude completamente alcune tipologie di alimenti e applica tagli nelle porzioni anche di quelli che potrebbe mangiare a dismisura. 
Le sue guance si scavano e lo sguardo si spegne.
Si accarezza le costole, che s’intravedono dalle magliette, e osserva ammirata le modelle sulle riviste. Quelle cosce che sembrano polsi, che nemmeno si sfiorano e restano distanti l’una dall’altra. Sogna di diventare così. 

Giulia pesa quarantasette chilogrammi e a vederla sembra reduce da una malattia.
La voglia di torte e gelati è scemata.
Solo talvolta alcuni sapori compaiono sotto forma di nostalgia, ma ora ha il pieno controllo del suo appetito.
Ora non ha più appetito.
Giulia è contenta, si sente indistruttibile perché ha la totale gestione della sua fame.

L’anoressia è contenta, si sente indistruttibile perché ha la totale gestione delle sue vittime.
Alle quali ora se n’è aggiunta un’altra: Giulia.



0 Comments

su boe narat corrudu a s'ainu (giampaolo cassitta)

5/31/2014

0 Comments

 
Immagine
Il caso di Francesca Barracciu me lo ricordo bene. Ricordo anche una lettera aperta in cui si chiedeva all’allora europarlamentare un passo indietro nonostante fosse uscita vittoriosa dalle primarie. Nella lettera  si chiedeva un segnale per azzerare tutto, sedersi al tavolo e ricominciare. L’obiettivo, si scriveva nella lettera  «è di avere una squadra di Governo nuova, esperta, capace, non compromessa e riconosciuta come di alto valore anche sul piano etico. Alla guida della quale non può che essere candidato chi questi requisti non solo li possiede, ma soprattutto gli sono riconosciuti dal popolo elettore. (...) Pensiamo, anche se ciò provoca in noi un profondo disagio personale, che vada tracciata una linea netta tra le vicende che hanno screditato il Parlamento dei sardi e il futuro dell’istituzione autonomistica».  Anche questa bella lettera contribuì a bloccare la candidatura della Barracciu e spianare la strada a Francesco Pigliaru che poi avrebbe vinto le elezioni. Ritengo fu una cosa eticamente valida nonostante la Barracciu – lo ricordo ancora – è tuttora solo indagata, accusata di peculato per uso improprio per i fondi destinati all’attività dei gruppi consiliari della Regione Sardegna. Va tutto bene allora? Certo. Benissimo. Peccato che uno dei firmatari di questa lettera pubblicata dai quotidiani nel dicembre 2013 fosse il senatore di Rifondazione Luciano Uras, oggi indagato per lo stesso reato  e  anche lui dovrà giustificare la spesa di 70 mila euro. Perché nessuno ricorda questo passaggio? L’etica ha un diverso peso nella sinistra? Non credo e non lo spero. Mi auguro, invece, che l’Onorevole Uras riesca brillantemente a spiegare come abbia speso 70.000 euro, così come argomenterà anche Francesca Barracciu. Il problema però  è un altro: ma l’onorevole Uras, a dicembre 2013, quando scrisse la lettera insieme a Cappelli non ricordava di aver usato anche lui fondi destinati all’attività dei gruppi? Non sapeva che, prima o poi sarebbe accaduto anche a lui dover giustificare? Se la storia fosse accaduta prima delle votazioni al Parlamento avrebbe fatto il giusto e sacrosanto passo indietro? E adesso? Adesso non ci rimane che provare a scrivere la morale di questa favola per niente a lieto fine: “Su boe  narat corrudu a s’ainu”. 

0 Comments

In fondo, è simpatico

5/30/2014

0 Comments

 
Immagine
Avevo un compagno, alle scuole elementari, che non scambiava mai le sue figurine, non divideva i pastelli e a pallone voleva solo vincere. Aveva un bel sorriso da smorfioso e sapeva fare l’occhiolino con entrambi gli occhi, cosa che a me non riusciva. La maestra diceva sempre: “in fondo, è simpatico.” Anche alle scuole medie  un mio compagno di classe voleva primeggiare. Era uno più “ricco” di noi:  portava i pantaloni lunghi a zampa di elefante e tirava le trecce alle ragazzine. Qualcuna la palpeggiava. Si beccava qualche rimbrotto ma ricordo che una mia “fiamma”, alla quale scrivevo frasi mielose e stupide, al tocco del mio compagno diceva: “è maleducato ma, in fondo, è simpatico”. Così sono cresciuto e ho visto alle scuole superiori altri ragazzi che non studiavano, copiavano i compiti ma non li passavano,  sorridevano e inventavano scuse. In fondo, erano simpatici. Nel mondo dei grandi però ho cominciato a diffidare di questa strana locuzione. Dipingevano come simpatico, per esempio Giulio Andreotti quando faceva le battute sagaci, era simpatico Pinochet, Videla, era molto simpatico Gheddafi con quel suo strano modo di presentarsi, un po’ cafone. Era simpatico Nixon che giocava a ping-pong con Mao Tse Tung –  lui un po’ meno simpatico, a dire il vero - . Poi divenne simpatico Bossi perché portava la canottiera in costa Smeralda, Borghezio con le sue battute tanto ma tanto simpatiche che riuscì a scatenare una guerriglia per una maglietta contro i musulmani esibita in pubblico. Poi, ad un certo punto, nel  magnifico mondo della simpatia il più simpatico, autoproclamatosi da subito e osannato per anni,  fu Silvio Berlusconi. Con lui divennero “in fondo simpatici” moltissimi personaggi: Putin tra tutti; Scajola, Fitto, Toti, Previti (che con quel ghigno farlo passare per simpatico ce ne voleva). Ma anche il simpatico show era sull’orlo del tramonto. “Vuoi vedere”, ho pensato, “che si comincia a rivalutare quelli che, magari non sono simpatici e hanno qualcosa di sostanzioso da raccontare?”. Ed invece, Grillo, non propriamente “in fondo simpatico”, ci ha raccontato che anche Nigel Farage ha il senso dell’humour e dell’ironia. Le dichiarazioni di questo “simpatico signore” vanno da: “I lavoratori europei stanno rubando i posti di lavoro agli inglesi” a “Le donne con i figli valgono meno ed è giusto che ne lavoro abbiano una riduzione di paga”. Un simpaticone. Il movimento cinque stelle ha deciso di allearsi costituendo un gruppo unico nel parlamento  europeo,  con questo “simpatico” signore. Per carità, tutto è possibile, ma non ci raccontate poi che tutto questo non conta, perchè Beppe è oltre le ideologie, oltre Hitler. Ecco, sarò all’antica ma a me, questo mondo “troppo simpatico” sinceramente non piace.


0 Comments

il colore del buio (giampaolo cassitta)

5/29/2014

0 Comments

 
Immagine
Qual è il colore vero del buio? Una volta, un detenuto mi rispose: l’ergastolo è il giusto orizzonte al buio infinito, all’impossibilità di esistere. Probabilmente aveva ragione. Dunque, se fosse davvero così noi quel colore non lo conosciamo,  lo possiamo soltanto immaginare. C’è poi un altra strada difficile e impervia, probabilmente ancora più buia: quella del 41 bis, quella del carcere duro, durissimo. Lentissimo. Gli attimi dentro quel budello non esistono e, a volte, non esistono neppure le ore, i giorni, gli anni. Sono solo supposizioni. Deve averla pensata in questo modo anche Antonio Iovine che da qualche giorno prova a collaborare con gli inquirenti, prova a camminare un po’ a tentoni in una strada ancora senza uscita. Non so cosa stia raccontando e non è questo il punto della mia riflessione: voglio solo provare a capire il colore del buio. Io quelle sezioni le conosco. Quelle di Fornelli, all’Asinara, oggi consegnate al parco e alla gente. Io le conosco bene perché ci ho lavorato in quel budello quando il sangue si raffermò, nel 1992, quando i pensieri furono solidi e gli occhi liquidi. Quando si cominciò a prevedere per chi si era reso protagonista delle varie mattanze il carcere duro, vero. Il buio. Quell’assenza di possibilità, quell’abbraccio asfissiante che toglie il respiro e prova a ridisegnare, in peggio, le esistenze di chi ha ucciso uomini, donne e bambini. Di chi ha calpestato la dignità di migliaia di persone. Loro il vero colore del buio lo hanno conosciuto. Li osservavo senza regalare parole. Capivo che per loro rappresentavo lo Stato, quello che avevano sfidato. Lo sapevo e capivo la difficoltà a stringere una mano, a dare una risposta, a dire, semplicemente: “me ne occupo”. Eppure lo facevo. Perchè credevo e credo che il colore del buio sia terribile. Occorre provare a segnare una strada diversa. Dopo quel non-colore, quell’orribile discesa nell’inferno dei vivi, dopo che i pensieri ti logorano negli anni, dopo i silenzi e gli sguardi che osservano solo una cella,  provi a sederti sull’orlo della vita insieme alla tua coscienza e ti chiedi: che cosa c’è oltre il buio? Ecco, in quel momento è possibile provare a ripartire, bussare timidamente la porta di quello Stato che un giorno hai colpito barbaramente. Antonio Iovine ha cominciato questo percorso. Il 41 bis è dunque servito. Perché chi conosce il vero colore del buio non può dipingere il proprio futuro.


0 Comments

quando gigi riva tornerà (giampaolo cassitta)

5/28/2014

0 Comments

 
Immagine
Il gioco del pallone è la metafora della vita. Queste sono cose che si imparano da grandi. Quando sei piccolo ti devi schierare e devi “tifare”. La scelta cade sul calciatore che più ti attrae più che su una squadra. Ai miei tempi, poi, era semplicissimo: il calciatore giocava quasi sempre con la stessa squadra. A cambiare “maglia” erano solo quelli con meno luce “addosso” non erano i fuoriclasse. Ai miei tempi però c’era da effettuare una scelta radicale e a quell’età fu importante e segnò il futuro calcistico (niente di serio, per carità) di tante generazioni: molti cominciarono a tifare il Cagliari. Non i giocatori di quella squadra ma il Cagliari che rappresentava, almeno allora, la Sardegna. Lo era anche per i sassaresi, gli olbiesi, gli algheresi. I campanili, a quei tempi non esistevano. A dieci anni, poi, il calcio era solo uno splendido gioco dove la passione e la voglia di esultare era la felicità di un bambino. Di Rovelli e di Moratti i bambini non sapevano nulla, ma di Gigi Riva e di Sandro Mazzola conoscevano praticamente tutto. Erano figurine, icone di quel periodo. Arrivò lo scudetto e scesero sull’isola giornalisti seri, importanti, tutti a raccontare, a provare a capire cosa fosse successo di antropologicamente importante. Qualcuno scrisse che lo scudetto rappresentava un riscatto per l’isola. Io, sempre dentro i miei dieci anni, contavo i giocatori del Cagliari nella Nazionale del Messico, quella che arrivò seconda al mondiale vinto da Pelè. Quella con Nicolai in mondovisione (la bellissima battuta è del compianto Manlio Scopigno). Poi, dopo quello scudetto, piccoli sussulti, cambi di presidenza, scoperta di non avere più imprenditori in grado di gestire il giocattolo, discese in serie minori sino a quando Massimo Cellino, nel 1992, acquisto il Cagliari: un ragazzo con la faccia da simpatico gaglioffo; un po’ rocker e un po’ spaccone, un giocatore di poker sempre sorridente che portò il Cagliari nell’inferno della serie B per riportarlo poi in A. Che cambiò decine di allenatori, che usò la scaramanzia come assoluta religione che finì, come Napoleone, due volte sulla polvere (due parentesi nel carcere di Buoncammino) e qualche volta sull’altare. Adesso molla. Vende tutto, dopo la fuga personale a Miami e dopo aver acquistato una squadra inglese, il Cagliari Calcio passa la mano. Arrivano gli americani. Chissà. Magari sarà la svolta, magari sarà un fallimento. Ma non ci sono più le figurine, i Pizzaballa, i Nicolai, i Boninsegna e i Carmignani di una volta. Non ci sono più quei bambini che urlavano festanti intorno ad un gioco bellissimo, metafora della vita. E se tutto questo non c’è più è perché un po’ non c’è più Gigi Riva e un po’ perché al posto suo, nel 1992, è entrato in questo strano mondo uno come Cellino. E tutto ha preso un’altra piega.


0 Comments

A san Giovanni coi Grillini ( Maria Dore)

5/24/2014

0 Comments

 
Immagine


La prima volta che ho visto dal vivo Beppe Grillo era il 2010. Era un incontro semi – improvvisato alla Galleria Umberto I a Napoli. Niente palco, solo un microfono, forse nemmeno un centinaio di persone; l’ultima volta che l’ ho visto in tv, è stato nel salotto di Vespa, pochi giorni fa. Ieri poi, in piazza San Giovanni, con un numero di persone quantomeno considerevole.
Sono andata lì, a dire il vero, con l’idea di assistere ad uno spettacolo. Uno spettacolo costruito da lui e incentrato tutto su di lui, sul leader.
Iniziano invece tre comici urlatori, tremendi, che introducono due rapper stile Rocco Hunt – ma perché, perché? – e rime tipo cuore/amore. Dopo è addirittura la volta di un trio tutto al femminile. Ballano tentando invano di muoversi in sincronia, come facevano le Spice Girls. Una delle loro canzoni si chiama “Legalizzala” e a giudicare dall’entusiasmo spropositato della vocalist, che cozza con le facce perplesse di molta gente, di quella robetta non legalizzata deve esserne girata un po’ dietro le quinte. 
Il pezzo grosso della parentesi musicale, a quanto pare, è Fabrizio Moro, uno di qualche Sanremo fa. Me lo ricordavo vagamente, ma come tipetto piuttosto tranquillo. Oggi è gasato quanto Jimi Hendrix a Monterey nel ’67, solo che questa invece sembra una delle edizioni più tristi del Festivalbar. Non dà fuoco a nulla, lui, ma ci dà dentro in altro modo: “ Siamo tutti qui, oggi, contro tutti sti figli di puttana!”; “Facciamoci sentire da tutti sti figli di mignotta!”. Prego che qualcuno lo fermi, perché sto rimpiangendo Bersani che canta “La mia signorina” con Neffa.
Grillina a fianco a me e prima teoria del complotto: 
“ Hai visto, abbiamo anche Fabrizio Moro con noi!Infatti tu Fabrizio Moro l’hai più visto? Lo senti in radio?Io no”. 
Il perché della sparizione di Fabrizio per me sarebbe un altro, ma vabbè. Sarà pure un Movimento a 5 Stelle, ma come intrattenimento la stella che dò è una sola. Non è che l’idea di tutto questo ha a che fare con Rocco Casalino? In quel caso qualche ragione me la farei. No, che se proprio cercavano artisti impegnati, bastava anche un po’ di musica registrata, che so, un po’ di Clash e si va sul sicuro, almeno.
Ci sono anche i cronisti 5 stelle e due dei fan di Fabrizio Moro chiedono di farsi intervistare. 
“ Dopodomani vinciamo noi!”
Seconda teoria del complotto:
“ Se non vinciamo, te giuro, è ppei brogli”;
“ Beh, no, non si sa, ma abbiamo già vinto lo stesso, che siamo in tantissimi oggi!”. 
Un po’ di prudenza, che è meglio. 
Questo, per scherzare.
Arriva lui, Beppe, e la gente si fa più attenta. Mi aspetto imprecazioni e urla, un monologo infinito. E invece no. Grida meno del solito e mi pare più vicino allo stile tenuto durante la diretta su Rai Uno.La frase “Non abbiamo bisogno di frigoriferi, ma di freddo”, non la capisco, ma, a parte questa, stavolta sento meno cose insensate. Anzi, lui parla anche poco e lascia spazio ad altri. Di Battista, Di Maio, che tanto male stasera, non sono, a parte quella costante pretesa di essere senza macchia e senza peccato.
Non è male nemmeno la gente che mi sta attorno. Ci sono tamarri esagitati fermi ai vaffanculo a caso, ma non solo. E decido che parecchi meritano rispetto. Lo meritano perché iniziano a gridare “Onestà, onestà!”. Spontaneamente, senza che nessuno dal palco lo ordini; lo meritano perché applaudono prima il cassaintegrato di Pomigliano, poi Falcone e poi Borsellino; lo meritano perché quando per due volte viene nominato Berlinguer, si scaldano e si commuovono. E questo, quelli del PD dovrebbero e potrebbero considerarlo, senza l’arroganza che ultimamente non risparmia nemmeno loro. 
Casaleggio non sembra nemmeno il santone catastrofista che viene dipinto solitamente. Tattica elettorale? Può darsi. Non so se Grillo e il Movimento siano la soluzione del nostro disastro. Forse non lo sono. Ma non ditemi nemmeno che sono la causa. 
Pensavo di scroccare solo delle risate e invece mi è stato strappato qualche applauso. Quindi, per le prossime volte: meno supponenza, meno adorazione della stramaledetta rete, meno parolacce gratuite. E niente musica.


0 Comments

Quando i bambini fanno mah! (giampaolo cassitta)

5/23/2014

0 Comments

 
Immagine
La mia classe è fatta di molti bambini dove ci sono anche io. Io sono al terzo banco e la maestra mi ha messo con Gianluca. Non sono molto contento di questo Gianluca perché tifa la Juve e a me gli juventini non mi piacciono perché sono barrosi e si vantano che vincono sempre. Poi quando perdono, anche se perdono poco ma buscano da quelle squadre estere che sono più forti Gianluca si mette in silenzio tutto il giorno e non presta più niente. Dietro di noi ci sono due femmine che sono Manuela e Silvana. Sono abbastanza simpatiche ma quando ridono non si possono vedere perché non hanno denti dritti e portano la macchinetta quella che si mischia con il pane e loro non lo mangiano. Degli altri ne parlo poco perché siamo amici ma non troppo. Voglio parlare di Mirko e della sua mamma, una signora bionda con la macchina gialla molto grande. La mamma di Mirko sta sempre parlando e dice sempre che ha molte cose da fare e gira parecchio il mondo con gli aerei e porta molti regali a Mirko. Mirko con altri sette bambini che non metto i nomi perché sennò la maestra mi dice che allungo il brodo, a pranzo quando c’è la mensa si siedono tutti in un bancone vicino alla cucina. A loro dopo che tutti finiamo prima il primo e dopo il secondo gli tocca il dolce. A noi seduti di fronte no. La mamma di Mirko che parla sempre ha detto : ” quanto mi dispiace poverini “ ma lei non può fare nulla perché il dolce si paga e mica può pagarlo a tutti. Mia mamma quando ho detto questa cosa a casa non ha parlato molto e ha detto che lo diceva a mio padre. La sera dopo la cena mio babbo mi ha detto che io sono fortunato perché lui ha combattuto per me per salvarmi da una malattia brutta che ti fa venire una pancia grande e non puoi giocare più a pallone. Questa malattia mi ha detto mio babbo viene a chi mangia il dolce nella mensa della scuola perché quella tortina contiene una cosa tipo grasso che si attacca alla pelle e non si stacca più. Io guardo tutti i giorni Mirko e gli altri sette ragazzi. A parte Valeria che era cicciotta dalla prima elementare gli altri mi sembrano uguali e continuano a giocare a pallone. Io però sono convinto di quello che mi dice babbo e aspetto che alla fine della scuola quelli che mangiano il dolce diventano palle di lardo e noi riusciamo a vincere a calcio o fuggiamo a acchiaperllo che non ci prendono mai. La mia classe mi piace molto anche se è divisa in due per colpa del dolce. Mia madre quando mio padre non c’era mi ha detto che quando divento grande capirò. Che devo cominciare ad imparare dove sedermi che mi serve più avanti. Mi ha anche detto che anche i grandi vivono in tante classi diverse ma senza maestre e che ci sono uomini che hanno il dolce e altri uomini no. Ho capito che forse quella cosa di babbo non era molto vera, ma io lo perdono perché ha il nervoso che ha perso il lavoro e i dolci non gli sono mai piaciuti. Devo finire dicendo che il dolce non piace neanche a me. Come gli juventini barrosi. 

Luca. Quinta B.

Dedicato a tutti i bambini delle scuole elementari di Pomezia che, grazie ad una decisione della giunta (sindaco cinque stelle, ma è un caso, chiaramente) saranno divisi per merendine: i genitori che pagano 40 centesimi in più daranno la possibilità ai loro figli di poter avere, dopo il pranzo, una merendina. Gli altri bambini staranno a guardare. Ma questo non significa che non possano capire.

0 Comments

ed invece (giampaolo cassitta)

5/21/2014

0 Comments

 
Immagine
Adesso, che il sole è tramontato è tempo di controllare le nostre ombre. Adesso, quando la polvere ha cominciato a sedimentare su quei corpi fermi, irrisoluti, inermi, è tempo di sedersi ed ascoltare il cuore. O quello che ne resta. Per quello che serve, per il futuro nebuloso e gonfio di lacrime nascoste, di pianti disperati. Adesso, con la coscienza ancora in disordine, possiamo sederci e provare a guardare. A razionalizzare tutte le fotografie mosse che ci hanno invaso in questi giorni gonfi di orrore. Siamo partiti da lontano, a dire il vero. Come sempre. Siamo partiti a disegnare ombre che non combaciavano con i nostri palazzi e le nostre storie. Mica si può aprire la porta, la nostra porta, all’orrore. Quello, di solito viene da lontano, sempre da lontana.

Ed invece.

Ecco. davanti a quelle bare mute, davanti agli occhi di tutti i tempiesi impotenti, davanti al Limbara, a quei monti scolpiti nel silenzio atavico dei millenni non riusciamo a dire,  a sussurrare semplicemente: ed invece.

Di questo si tratta. Le ombre erano i nostri alberi, le nostre radici e non sappiamo perché hanno potuto disarcionare le fondamenta della nostra casa. Tutto era perfetto, i sorrisi con le labbra giuste, i panorami sempre lucenti, le passeggiate a Rinaggiu, le risate in piazza Gallura. Ed invece.

Provare a risalire sino alla sorgente di questo fiume  perché è questo che dovremmo cominciare a fare. E non stare sempre seduti davanti alla larga foce, dove tutto passa e tutto si dipana. La sorgente è il punto di partenza.

Ed invece si preferisce il delta, dove è difficile comprendere le molecole, dove tutto si mischia: dolce e salato. Noi speravamo di poter dire: questa strage non ci appartiene. Non è nostra.

Ed invece.


0 Comments
<<Previous

    Archivi

    Luglio 2014
    Giugno 2014
    Maggio 2014
    Aprile 2014
    Marzo 2014
    Febbraio 2014
    Gennaio 2014
    Dicembre 2013
    Novembre 2013
    Ottobre 2013
    Settembre 2013
    Aprile 2013


    LA NOSTRA PAGINA SU 
    FACEBOOK

     
    Categorie: 

    Tutto
    Ambiente
    Antropologia
    Cultura
    Economia
    Ingiustizie
    Istruzione
    Politica
    Racconti
    Riflessioni
    Sanità
    Sport
    Varie

    I nostri blog

    Francesco Giorgioni
    Gavino Minutti
    Gavino  Ricci 
    Giampaolo Cassitta
    Il blog di Roberto Bolognesi
    Sa Natzione - Il blog di Adriano Bomboi

    RSS Feed


Powered by Create your own unique website with customizable templates.