Le canzoni servono. A miscelare i ricordi, a catapultarci negli occhi di altri, a disegnare oceani e mille lune del nostro immaginario infinito, ludico, onirico.
Le canzoni raccontano. Si ascoltano e si riascoltano. E riportano sempre elementi nuovi. I ritornelli si imparano e si cantano e si strimpellano.
Le canzoni si amano. Perché sono la scenografia della nostra vita. Il contorno ai nostri attimi, le parole dei nostri silenzi. Ecco perché provare a raccontare canzoni ha il senso di poter ripercorrere il solco dei pensieri.
Le canzone sono il seme dei nostri sogni.
Le canzoni si costruiscono. Probabilmente prima si intagliano le parole e poi, probabilmente, ci si mette la musica. Oppure il contrario. Oppure insieme. Questa canzone è il risultato felice di parole apparentemente incomprensibili “io con le mani di giunco nella mia verginità”. Ma, al di la dell’ermetismo degregoriano, soprattutto di questo album uscito nel 1974, questa è una canzone sublime. E’ una canzone di viaggio: “io sono stato dove tu mai” con l’aureola incestuosa delle chitarre classiche con un giro armonico inconsueto, dolcissimo e terribile, e con piccoli bonghi sottotraccia. Nient’altro. E la voce quasi stridula di un giovanissimo Francesco De Gregori.
Questa è una canzone di lotta. Almeno per me. Quando l’ho sentita, per la prima volta era a casa di Francesco. Barba incolta e con poche speranze. Sapeva scrivere e disegnare molto bene Francesco. Ed era fissato con le scritte sui muri. Voleva, a tutti i costi colorare di rosso tutti i palazzi di Alghero. Me lo diceva quasi tutti i giorni. Ma quel giorno, a casa sua, si era fissato: quella notte si doveva dipingere il muro di via Carducci, dove abitava un fascista e scriverci “Almirante Boia”. Io ci ridevo e affermavo che non l’avrei mai fatto. Non era per me. E poi, non mi sembrava un’impresa così mirabile. Per Francesco era un urlo sguaiato, una forza sublime per dire che noi c’eravamo.
Era il 1975. Avevo sedici anni, barba improbabile e occhi già in comproprietà con degli occhiali a goccia. Terribili. Sul letto un LP. Osservai quella copertina. La pecora. Una pecora cattolica pensai. De Gregori.
Mai sentito.
Francesco continuava a parlare della rivoluzionaria forza dello scritto su Almirante. Le masse sarebbero state felici.
Le masse.
Misi sul piatto del suo stereo “reader’s digest” per il quale aveva pagato solo la prima rata e si vantava di questo esproprio proletario, e io che mi vergognavo di aver pagato tutte le rate.
Poi dopo Niente da capire, cercando un altro Egitto, arrivò Dolce amore del Bahia. Quel titolo, quelle chitarre, quelle parole: ieri ho incontrato la mia formica, mi ha detto che sono pazzo. Bella pensai, belle parole. Soprattutto incomprensibili. Io non ricordo che occhi avevi l’ultima volta che ti ho insultato.
La mia canzone, mi dissi. La mia terribile canzone.
Cominciai a toccare il mondo con quelle mani di giunco, cominciai a ricercare quegli occhi, a provare ad annusare quel dolce amore del Bahia. Francesco continuava a parlare di Almirante boia.
Dolce amore del bahia. “Almirante Bahia” dissi. “Ecco la vera rivoluzione”. Francesco mi guardò e mi disse che ero pazzo. Certo. Ero pazzo ma io sono stato dove tu mai. Così è accaduto. Francesco quella notte passò per via Carducci e scrisse sul muro paglierino “Alimante Boia”. Ci passai la mattina successiva. Mi guardai attorno. Leggevo e rileggevo. E mi veniva in mente Almirante Bahia. Dolce amore del Bahia me la porto ancora dentro, insieme a Francesco che oggi non c’è più e non c’è più neppure quella sua scritta così lontana e superata. E’ rimasta la canzone che gira molto spesso dentro le mie orecchie.
Quella musica, quelle chitarre, quei bonghetti. Sinceramente non ricordo che occhi aveva l’ultima volta che l’avevo incastrata, ma sono stato in luoghi dove lei mai.
Le canzoni raccontano. Si ascoltano e si riascoltano. E riportano sempre elementi nuovi. I ritornelli si imparano e si cantano e si strimpellano.
Le canzoni si amano. Perché sono la scenografia della nostra vita. Il contorno ai nostri attimi, le parole dei nostri silenzi. Ecco perché provare a raccontare canzoni ha il senso di poter ripercorrere il solco dei pensieri.
Le canzone sono il seme dei nostri sogni.
Le canzoni si costruiscono. Probabilmente prima si intagliano le parole e poi, probabilmente, ci si mette la musica. Oppure il contrario. Oppure insieme. Questa canzone è il risultato felice di parole apparentemente incomprensibili “io con le mani di giunco nella mia verginità”. Ma, al di la dell’ermetismo degregoriano, soprattutto di questo album uscito nel 1974, questa è una canzone sublime. E’ una canzone di viaggio: “io sono stato dove tu mai” con l’aureola incestuosa delle chitarre classiche con un giro armonico inconsueto, dolcissimo e terribile, e con piccoli bonghi sottotraccia. Nient’altro. E la voce quasi stridula di un giovanissimo Francesco De Gregori.
Questa è una canzone di lotta. Almeno per me. Quando l’ho sentita, per la prima volta era a casa di Francesco. Barba incolta e con poche speranze. Sapeva scrivere e disegnare molto bene Francesco. Ed era fissato con le scritte sui muri. Voleva, a tutti i costi colorare di rosso tutti i palazzi di Alghero. Me lo diceva quasi tutti i giorni. Ma quel giorno, a casa sua, si era fissato: quella notte si doveva dipingere il muro di via Carducci, dove abitava un fascista e scriverci “Almirante Boia”. Io ci ridevo e affermavo che non l’avrei mai fatto. Non era per me. E poi, non mi sembrava un’impresa così mirabile. Per Francesco era un urlo sguaiato, una forza sublime per dire che noi c’eravamo.
Era il 1975. Avevo sedici anni, barba improbabile e occhi già in comproprietà con degli occhiali a goccia. Terribili. Sul letto un LP. Osservai quella copertina. La pecora. Una pecora cattolica pensai. De Gregori.
Mai sentito.
Francesco continuava a parlare della rivoluzionaria forza dello scritto su Almirante. Le masse sarebbero state felici.
Le masse.
Misi sul piatto del suo stereo “reader’s digest” per il quale aveva pagato solo la prima rata e si vantava di questo esproprio proletario, e io che mi vergognavo di aver pagato tutte le rate.
Poi dopo Niente da capire, cercando un altro Egitto, arrivò Dolce amore del Bahia. Quel titolo, quelle chitarre, quelle parole: ieri ho incontrato la mia formica, mi ha detto che sono pazzo. Bella pensai, belle parole. Soprattutto incomprensibili. Io non ricordo che occhi avevi l’ultima volta che ti ho insultato.
La mia canzone, mi dissi. La mia terribile canzone.
Cominciai a toccare il mondo con quelle mani di giunco, cominciai a ricercare quegli occhi, a provare ad annusare quel dolce amore del Bahia. Francesco continuava a parlare di Almirante boia.
Dolce amore del bahia. “Almirante Bahia” dissi. “Ecco la vera rivoluzione”. Francesco mi guardò e mi disse che ero pazzo. Certo. Ero pazzo ma io sono stato dove tu mai. Così è accaduto. Francesco quella notte passò per via Carducci e scrisse sul muro paglierino “Alimante Boia”. Ci passai la mattina successiva. Mi guardai attorno. Leggevo e rileggevo. E mi veniva in mente Almirante Bahia. Dolce amore del Bahia me la porto ancora dentro, insieme a Francesco che oggi non c’è più e non c’è più neppure quella sua scritta così lontana e superata. E’ rimasta la canzone che gira molto spesso dentro le mie orecchie.
Quella musica, quelle chitarre, quei bonghetti. Sinceramente non ricordo che occhi aveva l’ultima volta che l’avevo incastrata, ma sono stato in luoghi dove lei mai.