Come si fa a non stare con gli operai Alcoa che perdono il lavoro. Non è certo colpa dei salari, della produttività o degli scioperi se la Company statunitense chiude battenti. Le ragioni le ha illustrate bene Marco Zurru in un post su questo stesso blog stamane. Mi associo a quell’analisi e alla denuncia delle logiche industriali di certo capitalismo yankee. Ma il punto focale della questione vera, ahi me, temo non consista nel fare l’analisi del sangue al capitalismo, che sappiamo da cos’è mosso, piuttosto alla nostra (intesa come classe dirigente) scempiaggine, dabbenaggine e immoralità. Proviamo a rovesciare lo schema e il punto prospettico ed entriamo dentro i numeri di questa azienda.
Alcoa è lo stabilimento industriale italiano con il maggior consumo di energia elettrica. Produce 150 mila tonnellate di alluminio l’anno e per ogni tonnellata necessita di 30 MW/h di energia, bruciando qualcosa come 4,5 Terawatt/h, circa il doppio dei consumi domestici della Sardegna e il 70% dei consumi industriali dell’intera isola (1 Terawatt corrisponde a mille miliardi di watt. Dall’Authority per l’energia elettrica e il gas ha ottenuto, attraverso sconti sulle tariffazioni, 2 miliardi di euro che gli italiani e le imprese pagano sulle loro bollette. Da quando questi signori sono sbarcati in Sardegna hanno ottenuto incentivi per diversi miliardi di euro, che un calcolo molto grossolano, impostato sulla spesa totale degli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro, indica che ogni dipendente sia costato alla fiscalità qualcosa come 200 mila euro l’anno (L. Ricolfi). Se queste sono le cifre, anche se solo approssimative, credo si tratti di una follia assoluta, una stoltezza totale, insomma un misfatto che non riscontra eguali e che pone una profonda questione morale, oltre che politica e sociale, sull’uso distorto e sbagliato delle risorse pubbliche.
Dopo l’apertura della procedura d’infrazione della Commissione UE, nonostante la perversa generosità italiana, Alcoa scappa lasciando sul campo 500 famiglie senza speranza e un territorio intossicato nell’ambiente e nel tessuto sociale; lascia territori avvelenati e macerie umane. I conti, loro, li sanno fare e anche le politiche industriali, come sapientemente ha illustrato Zurru. Noi invece i conti, li sappiamo fare? Conosciamo la differenza algebrica tra il segno “più” e il segno “meno”?
Se la domanda è: “chi dispone di generali esperti non vincolati da funzionari di corte, sarà vittorioso”, allora è sbagliata la guerra per incatenare ora il “nemico Alcoa” al Sulcis, perché Alcoa, è bene si dica, è nemica della Sardegna. La guerra dobbiamo farla, e subito, affinché Alcoa riporti i luoghi allo stato quo ante, risarcisca con denaro sonante tutti i danni ambientali e sociali che ha generato, in primo luogo risarcisca i propri dipendenti. Raccolga pure le sue ferraglie, ripulisca dall’immondizia tossica il suolo che ha violato e dopo, ma solo dopo, vada per davvero via.
Ma la battaglia vera, forse quella finale, la madre di tutte le battaglie, il Sulcis e la Sardegna devono combatterla fino all’ultima goccia di sudore contro chi ha prima generato e poi perpetrato questo stato di cose, portando alla morte sociale ed economica un territorio, senza che Regione, Stato, sindacati e imprenditori abbiano almeno provato ad avviare processi di crescita endogena ed alternativi alla dissipazione di smisurate risorse pubbliche. Facciamo la battaglia perché altri doverosi lavori siano possibili, come possibili potrebbero esserlo e anche subito. Che Alcoa vada via dalla Sardegna, consideriamola un’opportunità e non una disgrazia, facciamo in modo che le risorse distribuite in questi 15 anni agli americani possano continuare ad arrivare sotto altre forme nel Sulcis, senza che si racconti balle, dicendo parole di verità, perché se prospettano ad Alcoa di restare è perché hanno ancora garantito elargizioni generose, forse non quanto prima, ma sempre generose. Il che vorrà dire che le risorse ci sono e non possono dissolversi in un lampo: l’obiezione e perfino elementare: come, ad Alcoa promettete ponti d’oro, mentre bugiardamente dite che non ci sono risorse per avviare nuovi percorsi industriali, basati su paradigmi che pongano le persone e la loro dignità al centro delle attività economiche. La battaglia bisogna costruirla per far si che ognuno si riappropri del suo destino, riconquisti la sovranità, senza “confidare” negli speculatori e negli avvelenatori sociali oltre che ambientali.
Se solo avessimo coscienza e l’esatta percezione delle risorse concesse a quest'azienda in tutti questi anni, se solo quella popolazione potesse disporre di una frazione di quelle risorse, si costruirebbe impresa e lavoro sano per tutti. Anche altri hanno lucrato e come Alcoa non pagano pegno, per questo occorrerebbe impedire che non si consumino altri misfatti, creando ingannevoli illusioni al mercato della speranza. La crisi potrebbe costituire una vera possibilità di cambiamento e di riconversione a condizione che si fondi sul lavoro di uomini e donne del territorio.
Applicando la prima delle circostanze dello Sun Tzu, “chi è in grado di distinguere quando è il momento di dare battaglia, e quando non lo è, riuscirà vittorioso”, ci si potrebbe persino illudere che questo possa essere proprio il momento giusto.
Alcoa è lo stabilimento industriale italiano con il maggior consumo di energia elettrica. Produce 150 mila tonnellate di alluminio l’anno e per ogni tonnellata necessita di 30 MW/h di energia, bruciando qualcosa come 4,5 Terawatt/h, circa il doppio dei consumi domestici della Sardegna e il 70% dei consumi industriali dell’intera isola (1 Terawatt corrisponde a mille miliardi di watt. Dall’Authority per l’energia elettrica e il gas ha ottenuto, attraverso sconti sulle tariffazioni, 2 miliardi di euro che gli italiani e le imprese pagano sulle loro bollette. Da quando questi signori sono sbarcati in Sardegna hanno ottenuto incentivi per diversi miliardi di euro, che un calcolo molto grossolano, impostato sulla spesa totale degli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro, indica che ogni dipendente sia costato alla fiscalità qualcosa come 200 mila euro l’anno (L. Ricolfi). Se queste sono le cifre, anche se solo approssimative, credo si tratti di una follia assoluta, una stoltezza totale, insomma un misfatto che non riscontra eguali e che pone una profonda questione morale, oltre che politica e sociale, sull’uso distorto e sbagliato delle risorse pubbliche.
Dopo l’apertura della procedura d’infrazione della Commissione UE, nonostante la perversa generosità italiana, Alcoa scappa lasciando sul campo 500 famiglie senza speranza e un territorio intossicato nell’ambiente e nel tessuto sociale; lascia territori avvelenati e macerie umane. I conti, loro, li sanno fare e anche le politiche industriali, come sapientemente ha illustrato Zurru. Noi invece i conti, li sappiamo fare? Conosciamo la differenza algebrica tra il segno “più” e il segno “meno”?
Se la domanda è: “chi dispone di generali esperti non vincolati da funzionari di corte, sarà vittorioso”, allora è sbagliata la guerra per incatenare ora il “nemico Alcoa” al Sulcis, perché Alcoa, è bene si dica, è nemica della Sardegna. La guerra dobbiamo farla, e subito, affinché Alcoa riporti i luoghi allo stato quo ante, risarcisca con denaro sonante tutti i danni ambientali e sociali che ha generato, in primo luogo risarcisca i propri dipendenti. Raccolga pure le sue ferraglie, ripulisca dall’immondizia tossica il suolo che ha violato e dopo, ma solo dopo, vada per davvero via.
Ma la battaglia vera, forse quella finale, la madre di tutte le battaglie, il Sulcis e la Sardegna devono combatterla fino all’ultima goccia di sudore contro chi ha prima generato e poi perpetrato questo stato di cose, portando alla morte sociale ed economica un territorio, senza che Regione, Stato, sindacati e imprenditori abbiano almeno provato ad avviare processi di crescita endogena ed alternativi alla dissipazione di smisurate risorse pubbliche. Facciamo la battaglia perché altri doverosi lavori siano possibili, come possibili potrebbero esserlo e anche subito. Che Alcoa vada via dalla Sardegna, consideriamola un’opportunità e non una disgrazia, facciamo in modo che le risorse distribuite in questi 15 anni agli americani possano continuare ad arrivare sotto altre forme nel Sulcis, senza che si racconti balle, dicendo parole di verità, perché se prospettano ad Alcoa di restare è perché hanno ancora garantito elargizioni generose, forse non quanto prima, ma sempre generose. Il che vorrà dire che le risorse ci sono e non possono dissolversi in un lampo: l’obiezione e perfino elementare: come, ad Alcoa promettete ponti d’oro, mentre bugiardamente dite che non ci sono risorse per avviare nuovi percorsi industriali, basati su paradigmi che pongano le persone e la loro dignità al centro delle attività economiche. La battaglia bisogna costruirla per far si che ognuno si riappropri del suo destino, riconquisti la sovranità, senza “confidare” negli speculatori e negli avvelenatori sociali oltre che ambientali.
Se solo avessimo coscienza e l’esatta percezione delle risorse concesse a quest'azienda in tutti questi anni, se solo quella popolazione potesse disporre di una frazione di quelle risorse, si costruirebbe impresa e lavoro sano per tutti. Anche altri hanno lucrato e come Alcoa non pagano pegno, per questo occorrerebbe impedire che non si consumino altri misfatti, creando ingannevoli illusioni al mercato della speranza. La crisi potrebbe costituire una vera possibilità di cambiamento e di riconversione a condizione che si fondi sul lavoro di uomini e donne del territorio.
Applicando la prima delle circostanze dello Sun Tzu, “chi è in grado di distinguere quando è il momento di dare battaglia, e quando non lo è, riuscirà vittorioso”, ci si potrebbe persino illudere che questo possa essere proprio il momento giusto.