Il prossimo disastro annunciato.
di Fiorenzo Caterini
Capoterra, 1999. Villagrande, 2004. Capoterra, 2008. Olbia, 2013. Ogni 4 o 5 anni. Questa è la spaventosa regolarità con la quale la Sardegna viene colpita dalle alluvioni. Una regolarità che non lascia scampo. Questa è la peggiore che si ricordi, si dirà, almeno per numero di vittime, il che potrebbe lasciare pensare che si tratti di un evento tanto episodico quanto catastrofico. E invece no. La prossima alluvione potrebbe anche essere peggiore. Occorrerebbe spiegare, infatti, a chi, soprattutto amministratori e politici, si affannano a dichiarare l’eccezionalità dell’evento, di modo che le responsabilità politiche vengano offuscate dal destino cinico e baro, che, in realtà, non si tratta di eccezione, ma di una crescita negativa del fenomeno, dovuta ad una progressiva antropizzazione del territorio alla quale si unisce l’incognita sempre più concreta, invero, dei cambiamenti climatici. E’ quindi il peggioramento progressivo dei due fattori, l’uno climatico, l’altro nella gestione del territorio locale, che crea un allineamento di cause congiunte dall’effetto devastante. Altro che evento millenario. Ma i fiumi di parole seguono i fiumi di fango. Non si può, invece, archiviare la questione con la logica dell’emergenza e della solidarietà momentanea. E’ ora di prendere il toro del dissesto idrogeologico per le corna. Tanto per incominciare, stop alle costruzioni nelle aree a rischio. Questo a valle. Ma poi occorre andare a monte, e vedere quali sono i fattori predisponenti del dissesto. E si scopre che disboscamento più o meno antico, abbandono delle aree agricole, cattiva manutenzione dei corsi d’acqua, strade, asfalto, cemento e quant’altro sono le cose che rendono le aree a rischio che si trovano sotto ancora più a rischio. Questo perché, in realtà, la visione che si ha della programmazione e della politica che guida quella programmazione è scomposta per settori. Non si ha una visione unitaria, “olistica” del territorio. Se si costruisce dove non si deve, se si continua a buttare fiumi di finanziamenti nelle industrie inquinanti con il pretesto dell’occupazione, se non si trovano i soldi per bonificare le aree inquinate, e per mettere in sicurezza le zone a rischio idrogeologico, è perché tutto il modello economico è giunto al suo esaurimento. Ci troviamo di fronte ad una transizione, insomma, prima lo si capisce, meglio è. La parola d’ordine, oggi, deve diventare bonifica e riconversione. Puntare sulle prerogative del territorio, sul paesaggio, sull’ambiente, sull’agroalimentare, sulle vocazioni tradizionali, sulla cultura, sulla Sardegna, insomma. Si deve puntare sulla Sardegna. Una battaglia culturale, oltre che politica. Effetto serra, riscaldamento globale, sviluppo locale insostenibile, industrie inquinanti, speculazione edilizia, dissesto idrogeologico, in fondo, sono la stessa cosa, la stessa visione corrosiva dello spazio, lo stesso modo di intendere la crescita umana attraverso il consumo, la distruzione delle risorse.
Bachisio Bandinu, all'incontro di presentazione del libro di chi scrive, sulla storia del disboscamento della Sardegna, ieri sera a Olbia, ha parlato di identità dei sardi che è soprattutto psicologica. "Deo seo sardu". Proclami di sardità. Scarsa, invece, l'identità "economica" e soprattutto "politica".
Eppure sarebbe un sogno vedere la nostra piccola isola, la nostra piccola Sardegna, prendere per le spalle il mondo con il suo esempio, far vedere al resto della terra che si può riconvertire l’idea di sviluppo, da necrosi inarrestabile, a spicchio di orizzonte consapevole e pulito. E’ solo un sogno, ovviamente, in attesa di essere svegliati dal prossimo disastro annunciato.
di Fiorenzo Caterini
Capoterra, 1999. Villagrande, 2004. Capoterra, 2008. Olbia, 2013. Ogni 4 o 5 anni. Questa è la spaventosa regolarità con la quale la Sardegna viene colpita dalle alluvioni. Una regolarità che non lascia scampo. Questa è la peggiore che si ricordi, si dirà, almeno per numero di vittime, il che potrebbe lasciare pensare che si tratti di un evento tanto episodico quanto catastrofico. E invece no. La prossima alluvione potrebbe anche essere peggiore. Occorrerebbe spiegare, infatti, a chi, soprattutto amministratori e politici, si affannano a dichiarare l’eccezionalità dell’evento, di modo che le responsabilità politiche vengano offuscate dal destino cinico e baro, che, in realtà, non si tratta di eccezione, ma di una crescita negativa del fenomeno, dovuta ad una progressiva antropizzazione del territorio alla quale si unisce l’incognita sempre più concreta, invero, dei cambiamenti climatici. E’ quindi il peggioramento progressivo dei due fattori, l’uno climatico, l’altro nella gestione del territorio locale, che crea un allineamento di cause congiunte dall’effetto devastante. Altro che evento millenario. Ma i fiumi di parole seguono i fiumi di fango. Non si può, invece, archiviare la questione con la logica dell’emergenza e della solidarietà momentanea. E’ ora di prendere il toro del dissesto idrogeologico per le corna. Tanto per incominciare, stop alle costruzioni nelle aree a rischio. Questo a valle. Ma poi occorre andare a monte, e vedere quali sono i fattori predisponenti del dissesto. E si scopre che disboscamento più o meno antico, abbandono delle aree agricole, cattiva manutenzione dei corsi d’acqua, strade, asfalto, cemento e quant’altro sono le cose che rendono le aree a rischio che si trovano sotto ancora più a rischio. Questo perché, in realtà, la visione che si ha della programmazione e della politica che guida quella programmazione è scomposta per settori. Non si ha una visione unitaria, “olistica” del territorio. Se si costruisce dove non si deve, se si continua a buttare fiumi di finanziamenti nelle industrie inquinanti con il pretesto dell’occupazione, se non si trovano i soldi per bonificare le aree inquinate, e per mettere in sicurezza le zone a rischio idrogeologico, è perché tutto il modello economico è giunto al suo esaurimento. Ci troviamo di fronte ad una transizione, insomma, prima lo si capisce, meglio è. La parola d’ordine, oggi, deve diventare bonifica e riconversione. Puntare sulle prerogative del territorio, sul paesaggio, sull’ambiente, sull’agroalimentare, sulle vocazioni tradizionali, sulla cultura, sulla Sardegna, insomma. Si deve puntare sulla Sardegna. Una battaglia culturale, oltre che politica. Effetto serra, riscaldamento globale, sviluppo locale insostenibile, industrie inquinanti, speculazione edilizia, dissesto idrogeologico, in fondo, sono la stessa cosa, la stessa visione corrosiva dello spazio, lo stesso modo di intendere la crescita umana attraverso il consumo, la distruzione delle risorse.
Bachisio Bandinu, all'incontro di presentazione del libro di chi scrive, sulla storia del disboscamento della Sardegna, ieri sera a Olbia, ha parlato di identità dei sardi che è soprattutto psicologica. "Deo seo sardu". Proclami di sardità. Scarsa, invece, l'identità "economica" e soprattutto "politica".
Eppure sarebbe un sogno vedere la nostra piccola isola, la nostra piccola Sardegna, prendere per le spalle il mondo con il suo esempio, far vedere al resto della terra che si può riconvertire l’idea di sviluppo, da necrosi inarrestabile, a spicchio di orizzonte consapevole e pulito. E’ solo un sogno, ovviamente, in attesa di essere svegliati dal prossimo disastro annunciato.