Mi sono imposto il silenzio. Nel senso di non riversare parole. Anche perché, poi, si rischia di pasticciare tutto. E’ una giornata afona. Non ci sono rumori e non c’è troppa voglia per riciclare commenti. Da queste parti, in questa fila, sono gli sguardi a pennellare le vite e gli attimi. Come in una tela dove si può decidere tutto. Il disegno libero o un dipinto ben delineato. Avevo un mio recapito e un mio indirizzo di posta elettronica. Sono cose che non spariscono. Ma non ho più il computer o il tablet o il cellulare per controllare chi mi scrive. E’ assurdo. Ma è così. Avevo anche i miei biglietti da visita. Bianchi, sobri. Dottore tal dei tali, responsabile marketing e referente delle innovazioni e business. Cose così. Che in questa fila non contano molto. Come le cravatte di Missoni. Da queste parti non funzionano. Si predilige il bianco e nero. Camminiamo con calma e manteniamo una certa dignità. Nessuno chiede. Si sta in fila senza porre domande. Anche perché le risposte sarebbero variegate. E forse inutili. E forse stupide. E crudeli. Mi chiedo quale sia il nesso che ci unisce, la cesoia che ci riporta all’interno di questo lungo serpentone. Perché siamo in tanti. Molti. Forse troppi. La povertà, la nuova povertà si misura in metri. Anzi, ci sono due file: la prima parte da via Concordia, la seconda in via Canova. Nel cuore ricco e pulsante di una città una volta simbolo del “fare”. Milano Dove le vene del suo sangue hanno mille rivoli. In questo caso molte giungono in via Ferrante Aporti, al centro Aiuto della Caritas. Siamo seimila. Molti stranieri. Ma noi italiani stiamo scalando velocemente la classifica della disperazione. Ho una storia quasi normale. In altri tempi sarebbe stata risolvibile. Una separazione perché l’amore finisce e le storie si modificano. Una nuova vita, un provare a ripartire con la consapevolezza di avere comunque un’opportunità. Invece perdi il lavoro. Quello che tu pensavi impossibile. Quel lavoro che ti portava a navigare tra corso Buenos Aires e via della Spiga. A cercare cravatte di Armani, a provare occhiali Versace, a parcheggiare un Suv preso a rate. Ed invece, come d’incanto, come un miraggio , come una storia raccontata di fretta, con troppa fretta, ti trovi qui. A fare la fila. A chiedere un posto per mangiare. E per dormire. Con lacrime indurite e con una vita sdrucciolevole. In fila. Ad attendere. Parcheggiato ai confini della vita. Con un biglietto da visita che non serve più a nessuno. Tutti si chiedono come sia stato possibile essere giunti da queste parti. Come sia stato possibile dilapidare tutto il patrimonio sociale e culturale in pochi anni. Come sia stato possibile disintegrare la dignità delle persone. Poi, dalla fila, qualcuno mi osserva. Ha occhi romantici, incisi nella speranza. “Vedrà”, dice, “che qualche pittore cambierà questa tela e questi colori”. Rispondo a quegli occhi e stringo le spalle. Non è la fila che mi spaventa. E’ che questa fila non la vede nessuno.
Mi sono imposto il silenzio. Nel senso di non riversare parole. Anche perché, poi, si rischia di pasticciare tutto. E’ una giornata afona. Non ci sono rumori e non c’è troppa voglia per riciclare commenti. Da queste parti, in questa fila, sono gli sguardi a pennellare le vite e gli attimi. Come in una tela dove si può decidere tutto. Il disegno libero o un dipinto ben delineato. Avevo un mio recapito e un mio indirizzo di posta elettronica. Sono cose che non spariscono. Ma non ho più il computer o il tablet o il cellulare per controllare chi mi scrive. E’ assurdo. Ma è così. Avevo anche i miei biglietti da visita. Bianchi, sobri. Dottore tal dei tali, responsabile marketing e referente delle innovazioni e business. Cose così. Che in questa fila non contano molto. Come le cravatte di Missoni. Da queste parti non funzionano. Si predilige il bianco e nero. Camminiamo con calma e manteniamo una certa dignità. Nessuno chiede. Si sta in fila senza porre domande. Anche perché le risposte sarebbero variegate. E forse inutili. E forse stupide. E crudeli. Mi chiedo quale sia il nesso che ci unisce, la cesoia che ci riporta all’interno di questo lungo serpentone. Perché siamo in tanti. Molti. Forse troppi. La povertà, la nuova povertà si misura in metri. Anzi, ci sono due file: la prima parte da via Concordia, la seconda in via Canova. Nel cuore ricco e pulsante di una città una volta simbolo del “fare”. Milano Dove le vene del suo sangue hanno mille rivoli. In questo caso molte giungono in via Ferrante Aporti, al centro Aiuto della Caritas. Siamo seimila. Molti stranieri. Ma noi italiani stiamo scalando velocemente la classifica della disperazione. Ho una storia quasi normale. In altri tempi sarebbe stata risolvibile. Una separazione perché l’amore finisce e le storie si modificano. Una nuova vita, un provare a ripartire con la consapevolezza di avere comunque un’opportunità. Invece perdi il lavoro. Quello che tu pensavi impossibile. Quel lavoro che ti portava a navigare tra corso Buenos Aires e via della Spiga. A cercare cravatte di Armani, a provare occhiali Versace, a parcheggiare un Suv preso a rate. Ed invece, come d’incanto, come un miraggio , come una storia raccontata di fretta, con troppa fretta, ti trovi qui. A fare la fila. A chiedere un posto per mangiare. E per dormire. Con lacrime indurite e con una vita sdrucciolevole. In fila. Ad attendere. Parcheggiato ai confini della vita. Con un biglietto da visita che non serve più a nessuno. Tutti si chiedono come sia stato possibile essere giunti da queste parti. Come sia stato possibile dilapidare tutto il patrimonio sociale e culturale in pochi anni. Come sia stato possibile disintegrare la dignità delle persone. Poi, dalla fila, qualcuno mi osserva. Ha occhi romantici, incisi nella speranza. “Vedrà”, dice, “che qualche pittore cambierà questa tela e questi colori”. Rispondo a quegli occhi e stringo le spalle. Non è la fila che mi spaventa. E’ che questa fila non la vede nessuno.
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July 2014
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