La vista panoramica di Olbia, che offre la tragica strada di Monte Pino, è molto bella. La città, cresciuta velocemente fino a triplicarsi nel giro di mezzo secolo, e raggiungere 60 mila abitanti, si trova all’imbocco di un lungo e frastagliato fiordo, che funge da porto ben riparato, e che guarda alla magnificenza della gigantesca montagna marina calcarea dell’Isola di Tavolara. Olbia è situata all’apice del ventaglio, al centro di una conca alluvionale coronata tutta intorno da cime granitiche. I corsi d’acqua, a carattere torrentizio, scendono dalla corona di monti a raggiera, ma non affluiscono ad un fiume principale; confluiscono, invece, indipendenti, proprio verso la periferia della città, che si trova così attraversata da ben 16 di questi corsi d’acqua, senza contare quelli fatti scomparire. E Olbia, crescendo disordinatamente, ha trascurato quel bacino idrografico tollerandolo a mala pena. Ha visto questi ruscelli e torrenti non come una ricchezza ma come un ostacolo, un fastidio, una trascurabile e innocua componente della natura, da far fuori al più presto. I corsi d’acqua sono stati costretti, ristretti, tombati, cancellati dalla geografia. Le case sono sorte tutte intorno e sopra di essi. L’asfalto gli ha ricoperti. Certamente oggi, con il senno di poi, con la città piangente, in ginocchio, si poteva pensare di far sviluppare la città in ben altra maniera. Ma la domanda a cui si vuole qui rispondere è: si tratta solo di cattiva politica, cattiva amministrazione, cattiva progettazione urbanistica, o c’è stata anche una violazione ripetuta e continuata delle normative vigenti?
Non è un quesito da poco. E non solo per le responsabilità giudiziarie che potrebbero sorgere dalla risposta. Ma anche per la sostanziale gravità della cosa. Con l’infrazione di norme ben precise, non si può invocare la buona fede.
Le norme che regolano gli interventi antropici nei pressi dei corsi d’acqua sono abbastanza chiare, nessun rischio interpretativo, nessun rischio di fraintendimento. Un cenno, giusto per capire. Una di queste leggi è vecchia, del 1904, ed ha un nome pomposo, Regio Decreto n. 523. E’ un testo unico sulle acque pubbliche, che fissa una serie di regolette molto semplici, tipo che non si può costruire ad una distanza di 10 metri dai corsi d’acqua, qualunque essi siano (art. 96). Aggiunge, anche (e qui appena appena la cosa si complica) “salvo che regolamenti locali non stabiliscano diversamente”. Ma la giurisprudenza ci giunge in aiuto, precisando che questi regolamenti locali devono derogare la norma in via del tutto eccezionale, ed essere “specifici”, ovvero relativi proprio alla regolamentazione della questione. Ora, ad Olbia, delle due l’una. O nel piano regolatore della città è prevista una regolamentazione della cosa, oppure no. Nel primo caso, si avrebbe una considerazione del problema con una elusione dolosa, nel secondo caso, una trascuratezza per colpa grave. In ambedue i casi, la sostanza non cambia. Si è consentito di costruire entro quella distanza che la norma stabilisce come minima per il normale decorso fluviale. Quindi, come si può vedere, la legge c’è e da tempo.
Ma non è finita. C’è la matassa inestricabile della questione demaniale. Dunque, tutti i corsi d’acqua, compresi i rivoli, e persino i letti dei corsi d’acqua abbandonati per qualsiasi ragione, sono demaniali. Ce lo dice il Codice Civile, non una leggina qualunque (artt. 822 e ss). Cioè i corsi d’acqua, tutti (com’è stato poi precisato da una legge più recente del 1994, la n. 36), sono pubblici, e per giunta inalienabili. Non si possono vendere. Chi si è appropriato dei mappali del demanio? Com’è stato possibile ignorare gli spazi pubblici del demanio fluviale? Chi doveva controllare? Pensate un po’. Tutte le abitazioni, nessuna esclusa, che sorge sopra i corsi d’acqua intubati, o cancellati, in realtà sono di proprietà totale o parziale del demanio. E sono tantissime. In pratica l’ufficio del demanio, volendo, può andare presso costoro e richiedere la restituzione del proprio bene illegittimamente detenuto, oppure, come pare stia facendo, chiedere la restituzione del corrispettivo in denaro del terreno, a prezzo di mercato. Si tratterebbe, addirittura, di un reato penale, di quelli cosiddetti permanenti e che dunque non vanno prescritti, da parte dei detentori illegali del terreno demaniale. Se non fosse che costoro la truffa l’hanno subita da altri, se non fosse che costoro sono le vittime, e non i colpevoli.
Poi sono arrivati i condoni, uno ogni dieci anni, che non potevano certo sanare l’insanabile. E invece lo hanno sanato, l’insanabile, a quanto pare.
Non stiamo parlando di cose vecchie, della ricostruzione del dopoguerra, del boom economico degli anni ’60 o della crisi degli anni ’70. Stiamo parlando di sempre, di ora come di allora.
Inutile aggiungere che questo andazzo, questa illegalità diffusa e persistente, ha visto tutte le amministrazioni comunali che si sono succedute protagoniste. Inutile aggiungere che, sul piano politico, l’epoca dei due mandati a sindaco del berlusconiano di ferro Nizzi è stata quella che più di ogni altra ha manifestato apertamente fastidio per le regole urbanistiche promuovendo una idea di liberismo alla quale molti cittadini di Olbia hanno aderito. Negli ultimi decenni, a Olbia, si è creata una strana convergenza di poteri e di interessi, un po’ come quei rivoli che tutti insieme scendono verso la città. Olbia è diventata la capitale di una idea di sviluppo quantitativa, dove l’edilizia la faceva da protagonista. Nizzi è stato il medico di Berlusconi quando questi si recava nella sua residenza estiva olbiese, e lo stesso ex premier con la sua famiglia aveva grossi interessi immobiliari nel territorio. L’ultimo condono, del 2004, promosso dal governo Berlusconi, sanava proprio vari abusi edilizi della residenza ufficiale estiva del Cavaliere, Porto Rotondo, comune di Olbia. Poi è arrivato Cappellacci, fortemente sostenuto e voluto da Berlusconi, ora Presidente della Regione e al centro di feroci polemiche, in questi giorni, per il suo nuovo piano paesaggistico che persegue una idea liberale di sviluppo edilizio.
Tutto torna, insomma.
Ma se fossero state rispettate quelle leggi, quelle semplici regole, frutto di esperienze maturate in tanti anni di osservazioni e promulgate da saggi legislatori del passato, la disperazione, la distruzione, il fango, il rimpianto, la rovina, tutto questo non ci sarebbe stato. In Italia, proprio i nostri governanti, negli ultimi anni, hanno insinuato l’idea che rispettare le regole è da fessi, e che esse sono una ingiuria alla nostra libertà. Invece, in questo e in altri casi, le regole, spesso, salvano vite umane.
Non è un quesito da poco. E non solo per le responsabilità giudiziarie che potrebbero sorgere dalla risposta. Ma anche per la sostanziale gravità della cosa. Con l’infrazione di norme ben precise, non si può invocare la buona fede.
Le norme che regolano gli interventi antropici nei pressi dei corsi d’acqua sono abbastanza chiare, nessun rischio interpretativo, nessun rischio di fraintendimento. Un cenno, giusto per capire. Una di queste leggi è vecchia, del 1904, ed ha un nome pomposo, Regio Decreto n. 523. E’ un testo unico sulle acque pubbliche, che fissa una serie di regolette molto semplici, tipo che non si può costruire ad una distanza di 10 metri dai corsi d’acqua, qualunque essi siano (art. 96). Aggiunge, anche (e qui appena appena la cosa si complica) “salvo che regolamenti locali non stabiliscano diversamente”. Ma la giurisprudenza ci giunge in aiuto, precisando che questi regolamenti locali devono derogare la norma in via del tutto eccezionale, ed essere “specifici”, ovvero relativi proprio alla regolamentazione della questione. Ora, ad Olbia, delle due l’una. O nel piano regolatore della città è prevista una regolamentazione della cosa, oppure no. Nel primo caso, si avrebbe una considerazione del problema con una elusione dolosa, nel secondo caso, una trascuratezza per colpa grave. In ambedue i casi, la sostanza non cambia. Si è consentito di costruire entro quella distanza che la norma stabilisce come minima per il normale decorso fluviale. Quindi, come si può vedere, la legge c’è e da tempo.
Ma non è finita. C’è la matassa inestricabile della questione demaniale. Dunque, tutti i corsi d’acqua, compresi i rivoli, e persino i letti dei corsi d’acqua abbandonati per qualsiasi ragione, sono demaniali. Ce lo dice il Codice Civile, non una leggina qualunque (artt. 822 e ss). Cioè i corsi d’acqua, tutti (com’è stato poi precisato da una legge più recente del 1994, la n. 36), sono pubblici, e per giunta inalienabili. Non si possono vendere. Chi si è appropriato dei mappali del demanio? Com’è stato possibile ignorare gli spazi pubblici del demanio fluviale? Chi doveva controllare? Pensate un po’. Tutte le abitazioni, nessuna esclusa, che sorge sopra i corsi d’acqua intubati, o cancellati, in realtà sono di proprietà totale o parziale del demanio. E sono tantissime. In pratica l’ufficio del demanio, volendo, può andare presso costoro e richiedere la restituzione del proprio bene illegittimamente detenuto, oppure, come pare stia facendo, chiedere la restituzione del corrispettivo in denaro del terreno, a prezzo di mercato. Si tratterebbe, addirittura, di un reato penale, di quelli cosiddetti permanenti e che dunque non vanno prescritti, da parte dei detentori illegali del terreno demaniale. Se non fosse che costoro la truffa l’hanno subita da altri, se non fosse che costoro sono le vittime, e non i colpevoli.
Poi sono arrivati i condoni, uno ogni dieci anni, che non potevano certo sanare l’insanabile. E invece lo hanno sanato, l’insanabile, a quanto pare.
Non stiamo parlando di cose vecchie, della ricostruzione del dopoguerra, del boom economico degli anni ’60 o della crisi degli anni ’70. Stiamo parlando di sempre, di ora come di allora.
Inutile aggiungere che questo andazzo, questa illegalità diffusa e persistente, ha visto tutte le amministrazioni comunali che si sono succedute protagoniste. Inutile aggiungere che, sul piano politico, l’epoca dei due mandati a sindaco del berlusconiano di ferro Nizzi è stata quella che più di ogni altra ha manifestato apertamente fastidio per le regole urbanistiche promuovendo una idea di liberismo alla quale molti cittadini di Olbia hanno aderito. Negli ultimi decenni, a Olbia, si è creata una strana convergenza di poteri e di interessi, un po’ come quei rivoli che tutti insieme scendono verso la città. Olbia è diventata la capitale di una idea di sviluppo quantitativa, dove l’edilizia la faceva da protagonista. Nizzi è stato il medico di Berlusconi quando questi si recava nella sua residenza estiva olbiese, e lo stesso ex premier con la sua famiglia aveva grossi interessi immobiliari nel territorio. L’ultimo condono, del 2004, promosso dal governo Berlusconi, sanava proprio vari abusi edilizi della residenza ufficiale estiva del Cavaliere, Porto Rotondo, comune di Olbia. Poi è arrivato Cappellacci, fortemente sostenuto e voluto da Berlusconi, ora Presidente della Regione e al centro di feroci polemiche, in questi giorni, per il suo nuovo piano paesaggistico che persegue una idea liberale di sviluppo edilizio.
Tutto torna, insomma.
Ma se fossero state rispettate quelle leggi, quelle semplici regole, frutto di esperienze maturate in tanti anni di osservazioni e promulgate da saggi legislatori del passato, la disperazione, la distruzione, il fango, il rimpianto, la rovina, tutto questo non ci sarebbe stato. In Italia, proprio i nostri governanti, negli ultimi anni, hanno insinuato l’idea che rispettare le regole è da fessi, e che esse sono una ingiuria alla nostra libertà. Invece, in questo e in altri casi, le regole, spesso, salvano vite umane.