Anni fa, durante un noto talk show televisivo, il Magistrato Pierluigi Vigna dichiarò, a proposito dei sequestri di persona in Sardegna, che molte difficoltà della giustizia erano dovute all’omertà dei sardi. Vigna era un ottimo giudice ed un eccellente giurista, ma applicava alla realtà isolana un luogo comune mutuato dal resto del meridione d’Italia. Se avesse letto “La rivolta dell’oggetto”, il grande libro dell’antropologo Michelangelo Pira, forse avrebbe capito che il suo era un banale pregiudizio. Pira racconta, infatti, citando le famose scenette di quel grande regista sardo che è stato Nanni Loy, “Specchio segreto”, antenato della attuali “candid camera”, che l’omertà fosse un fatto insito nell’animo umano, variamente localizzabile e interpretabile. Con quell’arguzia che lo contraddistingueva, con quell’amara ironia, oserei dire, tipicamente sarda, Nanni Loy aveva fatto legare una donna dentro un negozio, nascondendo la telecamera per osservare le reazioni degli avventori. I quali, nonostante fossimo in una città del nord Italia, avevano, nessuno o quasi, abbozzato una protesta, una reazione, per quella incresciosa situazione. Ora, se fosse successo in Sardegna, aggiungeva Pira, si sarebbe scatenato il finimondo. Pira in questo modo dimostrava come siano i contesti a rendere omertose le persone, a prescindere dalla cultura di appartenenza.
L’omicidio della povera Dina Dore pone inquietanti interrogativi per la sua efferatezza, per la sua crudeltà, per la sua mostruosità. Ma anche per gli ambienti in cui è maturato. Intanto Gavoi, un paese relativamente ricco, che differisce da altre realtà dell’isola. Gli abitanti dei paesi vicino sostengono che i gavoesi siano di origine ebrea, per via della loro dimestichezza con il commercio. Una leggenda probabilmente. Però è vero che il paese ha conservato una certa stabilità economica, ha contribuito a far conoscere ed espandere la denominazione del migliore formaggio sardo, ha conservato con intelligenza un magnifico centro storico, ci sono negozi, attività commerciali e artigianali di vario genere, locali di ritrovo, persino una squadra di calcio di un livello di gran lunga superiore alle dimensioni del paese. Ci sono manifestazioni culturali tutto l’anno, non solo il famoso festival letterario, uno dei più importanti in Italia, che ha contribuito ad allargare gli orizzonti culturali del paese, ma tanto altro. Solo nel prossimo periodo natalizio si contano numerose manifestazioni culturali e di svago da fare invidia a centri ben più grossi. Insomma, Gavoi non è il paese degli stereotipi agro-pastorali dell’interno dell’isola. La stessa ambientazione del delitto, pare più assimilabile a quelle motivazioni borghesi, urbane direi, che non alle tradizionali faide del mondo agro-pastorale sardo. Eppure certi stereotipi restano.
Oggi siamo molto vicini alla verità. Non è corretto anticipare i risultati di un processo penale in corso, ma mi pare di poter dire che, se la giustizia farà positivamente il suo corso, non sarà solo merito degli inquirenti. Sarà merito anche di un paese che non ha avuto timore, di persone che si sono ribellate alla paura e hanno detto quello che sapevano, hanno collaborato, hanno parlato. Una crisi di rigetto che il paese ha avuto nei confronti dell’orrore.
Non è strano che la memoria identitaria dei sardi cominci sempre dalle ferite, scriveva Placido Cerchi a proposito della “vergogna di sé”. Vergogna collettiva, s’intende. Perché sempre di più, noi sardi, tendiamo a formare il nostro automodello identitario sulla base di quello che ci dicono gli altri, sulla base del come gli altri ci vedono e di come vorrebbero che fossimo. Questa reazione di Gavoi può essere vissuta, invece, come una opposizione a quei modelli di inculturazione imposta, per contrastare una deriva culturale, un assimilazione generalizzata, per potere in un futuro, come ci ricorda Cerchi, fare in modo che la memoria lunga delle cose gratificanti prenda il sopravvento sulla memoria corta delle ferite.