Premessa, ché certe parole meritano di essere anteposte a tutte le altre.
Quale colpa può avere per la sua stessa morte un bambino di due anni travolto da un muro d'acqua? E quale colpa la famiglia di brasiliani annegata nello scantinato della villa alla periferia di Arzachena? Che colpa hanno quelli che hanno seguito l'urbanesimo e l'occasione di un lavoro a Olbia, sistemandosi come meglio potevano, magari in una casetta lungo le sponde di un canale?
Bisogna anche liberarsi dall'ossessione di trovare un colpevole per qualunque disgrazia o misfatto. Se si cerca di capire cosa sia accaduto, non lo si fa per mettere alla gogna qualcuno o screditarne l'immagine. Lo si fa per comprendere se in passato si sia sbagliato qualcosa e se qualcosa si possa fare per evitare che accada di nuovo. Si vuole capire, semplicemente.
Fine della premessa.
Con tutta la circospezione necessaria per evitare di trasformare una tragedia in uno spot, parto da un dato. Ieri SARDEGNAblogger, la nostra piccola goccia nel mare del web, ha avuto decine di migliaia di letture. Un solo post, quello intitolato "Olbia, la natura ed il cemento anarchico" ha meritato l'attenzione di 26mila internauti. Un altro, "Nulla accade per caso", ha avuto dodicimila click.
Significa che esiste una forte attenzione, probabilmente un crescere di sensibilità, sugli effetti provocati dall'azione dell'uomo sulla natura.
Insomma, forse quell'operazione culturale sta facendo breccia. C'è voluta una tragedia immane e nessuna presa di coscienza potrà mai valere una vita umana, però forse stiamo capendo.
Io sono gallurese, io sono un figlio della Costa Smeralda. Io sono riconoscente al turismo, che mi ha sempre permesso di vivere dignitosamente senza svendermi a nessuno. Però non si possono negare gli effetti della "catastrofe antropologica" profetizzata negli anni sessanta da storici quali Manlio Brigaglia. Profetizzata tra le pernacchie. Dicevano, questi studiosi, che un fenomeno così repentino ed improvviso ci avrebbe cambiati per sempre, riempiendoci le tasche di denaro e portandoci a credere che di tutto quel che era stato si potesse fare a meno.
Noi abbiamo sviluppato l'illusione che tutto iniziasse e finisse nel cemento. Noi abbiamo prodotto e legittimato amministratori pubblici - di destra, centro e sinistra - per i quali tutto inizia e finisce col cemento e nell'appalto da assicurare alla propria ditta di costruzioni. Noi viviamo in un'Isola dove i costruttori sono diventati movimenti d'opinione e dove uno di loro, in un lontano convegno tenuto a Buddusò nel 1999, si presentò da editore sostenendo che riteneva ingiusto l'obbligo di richiedere una licenza edilizia per costruire su un terreno di sua proprietà.
Se qualcuno obietta che occorre porre dei limiti, ecco che istantaneamente diventa avversario politico. È il paradosso del nostro tempo, la confusione di ruoli e ragioni. Il cemento, per molti di noi, è un'espressione di libertà assoluta, una cosa che riguarda solo chi costruisce e il pezzo di terreno dentro il quale ci costruisce. Invece non è così. Proprio per niente.
Ogni autorizzazione negata serve ad alimentare il mito mostruoso della burocrazia regionale. Dalle mie parti, la burocrazia regionale è un'entità appositamente indefinita: così da poter essere bersagliata da maledizioni e accuse di ogni genere, da poterle addebitare freni allo sviluppo e al rafforzarsi della libera impresa. Anche quando il mostro burocrazia si limita a far osservare che esistono delle regole da rispettare.
Ho visto, nella mia Gallura, potenti banchieri milanesi costruire interi residence sotto terra nella penisola di Coluccia, tra Palau e Santa Teresa. Ho visto conclamati autori di sensazionali abusi edilizi diventare assessori nel tripudio generale, liberamente votati da un popolo consapevole, e ne ho visto altri essere costretti alla demolizione di opere illegittime da quegli stessi uffici che da assessori dirigevano. Ho visto paesi nascere dal nulla, senza infrastrutture né urbanizzazioni, in regione La Mendula, tra Arzachena e Porto Cervo. E non erano, questi, i rifugi di fortuna dei lavoratori accorsi nelle banlieu di Olbia negli anni sessanta. No, erano ville con piscine da fine settimana lontano dal mondo.
Cosa c'entra tutto questo col disastro? Sarà un rapporto causa-effetto forzato? Nella tragedia di questi giorni c'è anche una componente di inevitabilità, lo sappiamo tutti.
Ma sappiamo anche come il cemento prevaricatore cancelli luoghi, abitudini, prudenze e saperi e responsabile di tutto questo. Cancella saperi, soffocandoli sotto un cumulo di banconote fruscianti. In una lottizzazione del mio paese, Arzachena, le griglie disseminate sull'asfalto dall'impresa di costruzioni, davanti alle villette a schiera, sono finte. Finte, un buco per ingannare l'occhio, senza alcun collegamento con la rete pubblica di deflusso. Quando piove, la strada diventa una palude.
Tra i superstiti dello Tsunami che nel dicembre 2004 colpì l'Oceano Indiano ci furono molti indigeni, Videro le acque ritirarsi, una coscienza atavica fece scattare in loro l'allarme del pericolo e corsero sulle montagne, al riparo dall'onda mostruosa. Mentre i civilizzati turisti occidentali, nei loro residence, ne furono travolti.
E allora, tutto quel che è denaro è davvero progresso? L'ultima cosa che dovremmo fare è prendercela con la politica: noi siamo la politica. Piuttosto, dovremmo chiederci cosa diavolo siamo diventati