La Sardegna è una terra malata da quando, nell’800, sono passati i devastatori, armati di scure, che grazie alle concessioni del governo piemontese prima e italiano poi, hanno trasformato l’isola da regione ricca di boschi, a regione arida e siccitosa, ricoperta di sterpaglie e macchia mediterranea, predisposta agli incendi e al dissesto idrogeologico. Qualcosa, nel dopoguerra, si è cercato di ricostruire, di quel patrimonio boschivo ridotto di quattro quinti. Ma nel frattempo, è nato lo sviluppo industriale ed edilizio. Le coste e le campagne si sono riempite di cemento e di asfalto. Il risultato è che oggi, ad ogni evento meteorico anomalo, il rischio del disastro è dietro l’angolo. La speculazione edilizia, in questi anni, non ha avuto freno. Olbia, la città più colpita, che oggi piange tristemente le sue vittime, come ricorda Francesco Giorgioni, ha avuto uno sviluppo edilizio disordinato e per lo più illegale. La città è edificata sopra terreni paludosi, sono state cancellate spiagge e si è costruito sopra quelli che una volta erano stagni retrodunali. La città si è espansa abusivamente a ventaglio dove una volta scendevano corsi d’acqua a raggiera dalle montagne, che ora non esistono più, e scorrono sotto la città. I reliquati catastali, ovvero le proprietà del demanio fluviale, pubbliche, sono scomparse, inghiottite misteriosamente; nessuno, progettisti e amministratori comunali, sanno più nulla di quei mappali lineari. Sulla carta. Ma la natura, delle carte degli uomini, poco se ne cale. Come se non bastasse, la zona “agricola” attorno alla città di Olbia, è punteggiata di case e casette, con piani di lottizzazione che oggi, grazie al piano casa, possono essere tranquillamente elusi come “appoggio all’attività agricola”. E come se non bastasse, arriva la Regione sarda che oggi, per accontentare tutti i proprietari di fazzoletti di terra nell’agro, regolarizza il lotto minimo di un ettaro facendolo rientrare, con una procedura già considerata da molti esperti come illegale, dentro il nuovo Piano Paesaggistico, quello denominato “dei sardi”. Così, strade, asfalto e cemento, resistono al posto dei rimboschimenti necessari a ristabilire un po’ di equilibrio idrogeologico. E come se non bastasse, c’è una norma, in questo nuovo piano paesaggistico dei sardi, che prevede l’esclusione, dalla fascia di rispetto prevista dal codice dei beni paesaggistici, delle sponde dei corsi d’acqua che non abbiano rilevante valore paesaggistico. E’ imbarazzante oggi, sapere con quanto menefreghismo e cinismo si stia proseguendo sulla strada dell’affarismo e della speculazione. E’ imbarazzante. Ora, se tanto mi da tanto, è lecito prevedere che verranno svincolati quei corsi d’acqua che ostacolano la realizzazione dei progetti dei soliti noti. E noi sappiamo che, in Sardegna, da quando la terra è malata, anche il più innocuo dei ruscelli si trasforma in un mostro gonfio di acqua alle prime piogge anomale. Subito dopo i primi decenni del disboscamento, i torrenti della Sardegna incominciarono a ruggire minacciosamente, portando distruzione e morte, come ricorda Giuseppe Dessì nel suo “Paese d’Ombre”. Sono lezioni queste, severe lezioni. Che durano da quasi due secoli, ormai. Ma l’uomo, specie quando è accecato dal profitto e dal menefreghismo, è testa dura. E in Sardegna, si sa, le teste sono ancora più dure.