Una delle caratteristiche fondamentali del periodo pre-elettorale, visibile a 360 gradi, è l'impennata eccezionale delle capacità di utilizzare la propria fantasia di candidato per scaldare cuori e agitare in modo speranzoso (e positivo) le aspettative della vasta platea del potenziale elettorato. Nonostante buona parte del pensiero di John Rawls, la politica non è solo razionalità, ma – soprattutto quella costruita quotidianamente e non studiata con il culo poggiato su comode sedie – speranza e utopia: queste sono la farina e le uova del discorso, più o meno retorico, di tante persone che si affacciano per la prima volta nell’arena della contesa politica o di quelli che in modo tenace continuano a far gravitare le proprie vite in tali spazi. La speranza del cambiamento possibile per le proprie vite e quelle dei propri cari o quelle dei concittadini è un tasto su cui il dito del “politico candidato” continua a premere in modo insistente; e la pressione si fa più forte quanto più profondo, largo e devastante è l’universo dei disagi e delle difficoltà che animano la quotidianità di quei cittadini, potenziali elettori.
A volte questa speranza di cambiamento si trasforma in epica narrazione di “stravolgimento” degli equilibri esistenti. Nel recente passato isolano, l’apparire di persone dotate di carisma riconosciuto ha effettivamente animato questa metamorfosi: come una bolla, la speranza si è gonfiata in utopia e ha alimentato la vittoria del primo Soru. Ma, come tutta la letteratura racconta, le bolle si sgonfiano, sempre: il carisma si istituzionalizza, e ciò che era straordinario in passato ri-diventa “normale” nella contingenza. Non è il caso di ripercorrere quell’esperienza (già molto è stato scritto), ma di quegli avvenimenti bisogna mettere in luce la distanza che corre con le attuali narrazioni (e i personaggi che le animano) e il tentativo di avvolgere la speranza nella carta lucente dell’utopia. Non solo il contesto socio-economico è alquanto differente (in peggio), ma la gravità della situazione “da tutti i punti di vista”, dovrebbe suggerire ai competitors una ben più importante onestà intellettuale. A me le utopie sono sempre piaciute, ma in questo momento tragico mi sento di sperare che chi governerà la nostra Isola possa riuscire - almeno - a non farla andare a fondo, per tentare di continuare a galleggiare in una competizione economica globale che, per noi sardi, è di assoluto svantaggio. Purtroppo.
Ad esempio, bisognerebbe guardare onestamente i numeri. Certo, può essere deludente e al limite dello sconforto fare questo viaggio, ma è di importanza fondamentale per poter impostare qualche ragionamento che abbia un qualche colore di fattibilità. È urgente trovare il filo (o più di uno) per definire una politica economica che abbia i contenuti e il sapore della integrità interna, orizzonti medio-lunghi e, soprattutto, il profilo della gerarchia di interventi.
La nostra è una economia nana, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale. Lo è da sempre e su questo argomento ci sono biblioteche intere di produzione scientifica: non sta a me ricordarlo in questo momento. Ma la crisi economica globale ha ulteriormente schiacciato il nano verso il basso e alimentare, nei modi più diversi, la speranza che il nano diventi di statura media o un gigante è non solo gesto sciocco e miope, ma molto pericoloso. Bisognerebbe, viceversa, essere puntuali e ambire a far sì che nel dramma che si profila per tutte le economie occidentali nei prossimi 5-7 anni, la Sardegna possa “tentare di tenere”, galleggiare, appunto. Sarebbe già un risultato splendido.
La nostra ricchezza annua è fatta da poco più di 33.638 milioni di euro, ed è un “bottino” che continua a calare negli ultimi anni, per molti motivi. Uno dei problemi più rilevanti, però, è che la fetta più grande della nostra ricchezza proviene dai servizi (81%), il settore che maggiormente ha tenuto in questa crisi (soprattutto grazie alle donne e ad un ampliamento delle fragilità contrattuali). La nostra è sostanzialmente un'economia che produce servizi: possiamo farci tutte le narrazioni più "felici" del mondo, ma una narrazione onesta fatta sui numeri, quelli che descrivono realmente il mondo economico, ci dice che la nostra è un'economia che fa poco conto su agricoltura e industria: la prima si ferma al 3% del PIL e la seconda al 9,4%; la prima produce 908 milioni di euro di ricchezza ed è in calo rispetto agli anni precedenti; la seconda produce 2828 milioni di euro per ciò che concerne il settore “in senso stretto” e 1722 milioni di euro contando il settore delle costruzioni; entrambe non sono in calo, sono letteralmente crollate negli ultimi anni.
Quel poco di industria esistente costruita per lo più da Roma (chimica) e quella endogena hanno visto il PIL diminuire del 26% dal 2007 al 2011; la quota sul totale della ricchezza è passata dal 13% a poco più del 10%; l’occupazione è precipitata, perdendo un quarto degli addetti (da oltre 55mila a 44mila lavoratori).
Ha chiuso l'Alcoa, ha chiuso l'Euroallumina, la Queen e tutto il nodo tessile di Macomer, quello cartario, e si potrebbe (dovrebbe) andare oltre in questo tragica narrazione… Sono state crisi animate da fattori differenti, spesso motivi legati a dinamiche internazionali: ad esempio nel tessile, l'ingresso dei cinesi (che possono vantare posizionamento di prodotti a bassissimi prezzi prodotti con costi del lavoro risibili) ha spiazzato moltissime imprese occidentali. La Sardegna, in un contesto di economia globalizzata, fa parte di queste dinamiche, punto. L'Alcoa ha chiuso per ragioni diverse, anche se nella retorica pubblica il discorso si è basato solo sui costi energetici e l'interruzione dei benefici di stato. L'Alcoa è una big Corporation, una multinazionale capace di muoversi su mercati globali e riposizionare abbastanza facilmente le sue strutture produttive dove le condizioni del posto sono a suo vantaggio: sindacati deboli o inesistenti, costi del lavoro risibili, rapporti semplificati (e a proprio vantaggio) con le istituzioni pubbliche, etc, etc.. Questo poteva fare e questo ha fatto, punto. Il capitale straniero ha trovato altri spazi socio-economici di accumulazione più favorevoli.
Ora.. la faccenda può anche far storcere il naso a qualche indipendentista: anche per il sottoscritto il capitale (anche quello finanziario) locale è di fondamentale importanza, le possibilità di implementare imprenditoria sarda e aiutarla nelle sue diverse fasi di attività deve essere esplorata in continuità e con grande serietà da parte delle Istituzioni Pubbliche. Ma non è questo il discorso (insider-outsider) che voglio fare; ci sarà tempo. Ciò su cui voglio soffermarmi è un elemento banale: è bene ricordarlo, le imprese locali hanno un piccolo-grande problema che si chiama “mercato di sbocco”, ovvero la possibilità concreta di collocare i propri beni prodotti. La faccenda rilevante è che quando arriva in terra sarda un'impresa straniera, insomma una Corporation che di cui si è potuta valutare la sua solidità e affidabilità, non porta solo i propri capitali, la propria tecnologia, la propria capacità manageriale, etc, etc.. Ma porta in dote, soprattutto, la struttura delle relazioni che è riuscita a conquistare nel tempo e che definisce il perimetro (sempre meno stabile in questa economia globale) dei propri mercati di sbocco. E sono questi perimetri che definiscono, nel tempo, le possibilità di garantire sopravvivenza, consolidamento, espansione delle unità produttive che poggiano il culo in spazi economici periferici, come la Sardegna.
Questo non vuole assolutamente essere un invito a calarsi le braghe di fronte a qualsiasi capitale esterno: troppo spesso la lezione del passato è stata quella di fallimenti di mercato dovuti all'azione di imprenditori “esterni” (fintamente travestiti) o caimani (veri) capaci di accaparrarsi capitale pubblico senza nessuna seria idea o prospettiva di investimento in loco. Qui, viceversa, si tratta di selezionare attentamente lo spessore di serietà dei gruppi imprenditoriali che si affacciano nell'isola con qualsiasi pretesa di utilizzo del capitale pubblico, che non è solo denaro, ma anche territorio (come il caso del Qatar sta suggerendo). Ci vuole la presenza di una classe politica capace di definire delle priorità di investimento nel settore industriale, capace - con aiuto esperto dei parte dell’amministrazione regionale e/o di esperti esterni- di fare scouting, dialogare con il capitale straniero nel massimo delle garanzie per i lavoratori sardi e il territorio tutto (soprattutto nel senso della conservazione degli equilibri ambientali).
Chi lo può fare? La Sfirs, pezzi dell'Assessorato alla programmazione? Un settore RAS tutto da inventare? Forse si, forse no, non è la declinazione importante in questo scritto. Questo è un punto fondamentale che va analizzato con serietà - a breve - nelle stanze istituzionalmente previste per questa possibilità. Di certo rimane, finora, l'assenza di una politica industriale e di un piano energetico che vanno urgentemente definiti, e definiti per un orizzonte di almeno 15-25 anni; una politica industriale che sia capace di investire risorse, tempo ed energie per metter mano ad ambiti – anche con il contributo di capitale straniero - che siano in grado di alimentare nascita ed espansione di una futura imprenditoria locale (la chimica è un’impresa a ciclo integrato e nega queste possibilità di indotto); che sia in grado di alimentare decisioni importanti sulla destinazione dei fondi della formazione professionale, sulla costruzione di peculiari Corsi di laurea universitari insieme agli organi di Unica e Uniss, capaci entrambi di garantire determinate figure professionali per i settori industriali in cui si è scommesso. Etc. Etc..
Insomma, le "cose da fare" sono molte, tante, forse troppe. Ma, lo ripeto alla noia, bisogna guardare con serietà e soprattutto onestà intellettuale alla posizione della nostra economia nel contesto internazionale - i suoi limiti così come i suoi vantaggi - per limitare i primi e sfruttare al massimo i secondi. Senza banali appelli di certi economisti alla letteratura internazionale, senza narrazioni felici di aspiranti governatori, ma con onesto richiamo alle concrete possibilità della nostra economia che, in una crisi internazionale di portata mostruosa, ci suggeriscono che sarebbe già una fortuna riuscire "a galleggiare" tra competitors di ben altra caratura.
A volte questa speranza di cambiamento si trasforma in epica narrazione di “stravolgimento” degli equilibri esistenti. Nel recente passato isolano, l’apparire di persone dotate di carisma riconosciuto ha effettivamente animato questa metamorfosi: come una bolla, la speranza si è gonfiata in utopia e ha alimentato la vittoria del primo Soru. Ma, come tutta la letteratura racconta, le bolle si sgonfiano, sempre: il carisma si istituzionalizza, e ciò che era straordinario in passato ri-diventa “normale” nella contingenza. Non è il caso di ripercorrere quell’esperienza (già molto è stato scritto), ma di quegli avvenimenti bisogna mettere in luce la distanza che corre con le attuali narrazioni (e i personaggi che le animano) e il tentativo di avvolgere la speranza nella carta lucente dell’utopia. Non solo il contesto socio-economico è alquanto differente (in peggio), ma la gravità della situazione “da tutti i punti di vista”, dovrebbe suggerire ai competitors una ben più importante onestà intellettuale. A me le utopie sono sempre piaciute, ma in questo momento tragico mi sento di sperare che chi governerà la nostra Isola possa riuscire - almeno - a non farla andare a fondo, per tentare di continuare a galleggiare in una competizione economica globale che, per noi sardi, è di assoluto svantaggio. Purtroppo.
Ad esempio, bisognerebbe guardare onestamente i numeri. Certo, può essere deludente e al limite dello sconforto fare questo viaggio, ma è di importanza fondamentale per poter impostare qualche ragionamento che abbia un qualche colore di fattibilità. È urgente trovare il filo (o più di uno) per definire una politica economica che abbia i contenuti e il sapore della integrità interna, orizzonti medio-lunghi e, soprattutto, il profilo della gerarchia di interventi.
La nostra è una economia nana, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale. Lo è da sempre e su questo argomento ci sono biblioteche intere di produzione scientifica: non sta a me ricordarlo in questo momento. Ma la crisi economica globale ha ulteriormente schiacciato il nano verso il basso e alimentare, nei modi più diversi, la speranza che il nano diventi di statura media o un gigante è non solo gesto sciocco e miope, ma molto pericoloso. Bisognerebbe, viceversa, essere puntuali e ambire a far sì che nel dramma che si profila per tutte le economie occidentali nei prossimi 5-7 anni, la Sardegna possa “tentare di tenere”, galleggiare, appunto. Sarebbe già un risultato splendido.
La nostra ricchezza annua è fatta da poco più di 33.638 milioni di euro, ed è un “bottino” che continua a calare negli ultimi anni, per molti motivi. Uno dei problemi più rilevanti, però, è che la fetta più grande della nostra ricchezza proviene dai servizi (81%), il settore che maggiormente ha tenuto in questa crisi (soprattutto grazie alle donne e ad un ampliamento delle fragilità contrattuali). La nostra è sostanzialmente un'economia che produce servizi: possiamo farci tutte le narrazioni più "felici" del mondo, ma una narrazione onesta fatta sui numeri, quelli che descrivono realmente il mondo economico, ci dice che la nostra è un'economia che fa poco conto su agricoltura e industria: la prima si ferma al 3% del PIL e la seconda al 9,4%; la prima produce 908 milioni di euro di ricchezza ed è in calo rispetto agli anni precedenti; la seconda produce 2828 milioni di euro per ciò che concerne il settore “in senso stretto” e 1722 milioni di euro contando il settore delle costruzioni; entrambe non sono in calo, sono letteralmente crollate negli ultimi anni.
Quel poco di industria esistente costruita per lo più da Roma (chimica) e quella endogena hanno visto il PIL diminuire del 26% dal 2007 al 2011; la quota sul totale della ricchezza è passata dal 13% a poco più del 10%; l’occupazione è precipitata, perdendo un quarto degli addetti (da oltre 55mila a 44mila lavoratori).
Ha chiuso l'Alcoa, ha chiuso l'Euroallumina, la Queen e tutto il nodo tessile di Macomer, quello cartario, e si potrebbe (dovrebbe) andare oltre in questo tragica narrazione… Sono state crisi animate da fattori differenti, spesso motivi legati a dinamiche internazionali: ad esempio nel tessile, l'ingresso dei cinesi (che possono vantare posizionamento di prodotti a bassissimi prezzi prodotti con costi del lavoro risibili) ha spiazzato moltissime imprese occidentali. La Sardegna, in un contesto di economia globalizzata, fa parte di queste dinamiche, punto. L'Alcoa ha chiuso per ragioni diverse, anche se nella retorica pubblica il discorso si è basato solo sui costi energetici e l'interruzione dei benefici di stato. L'Alcoa è una big Corporation, una multinazionale capace di muoversi su mercati globali e riposizionare abbastanza facilmente le sue strutture produttive dove le condizioni del posto sono a suo vantaggio: sindacati deboli o inesistenti, costi del lavoro risibili, rapporti semplificati (e a proprio vantaggio) con le istituzioni pubbliche, etc, etc.. Questo poteva fare e questo ha fatto, punto. Il capitale straniero ha trovato altri spazi socio-economici di accumulazione più favorevoli.
Ora.. la faccenda può anche far storcere il naso a qualche indipendentista: anche per il sottoscritto il capitale (anche quello finanziario) locale è di fondamentale importanza, le possibilità di implementare imprenditoria sarda e aiutarla nelle sue diverse fasi di attività deve essere esplorata in continuità e con grande serietà da parte delle Istituzioni Pubbliche. Ma non è questo il discorso (insider-outsider) che voglio fare; ci sarà tempo. Ciò su cui voglio soffermarmi è un elemento banale: è bene ricordarlo, le imprese locali hanno un piccolo-grande problema che si chiama “mercato di sbocco”, ovvero la possibilità concreta di collocare i propri beni prodotti. La faccenda rilevante è che quando arriva in terra sarda un'impresa straniera, insomma una Corporation che di cui si è potuta valutare la sua solidità e affidabilità, non porta solo i propri capitali, la propria tecnologia, la propria capacità manageriale, etc, etc.. Ma porta in dote, soprattutto, la struttura delle relazioni che è riuscita a conquistare nel tempo e che definisce il perimetro (sempre meno stabile in questa economia globale) dei propri mercati di sbocco. E sono questi perimetri che definiscono, nel tempo, le possibilità di garantire sopravvivenza, consolidamento, espansione delle unità produttive che poggiano il culo in spazi economici periferici, come la Sardegna.
Questo non vuole assolutamente essere un invito a calarsi le braghe di fronte a qualsiasi capitale esterno: troppo spesso la lezione del passato è stata quella di fallimenti di mercato dovuti all'azione di imprenditori “esterni” (fintamente travestiti) o caimani (veri) capaci di accaparrarsi capitale pubblico senza nessuna seria idea o prospettiva di investimento in loco. Qui, viceversa, si tratta di selezionare attentamente lo spessore di serietà dei gruppi imprenditoriali che si affacciano nell'isola con qualsiasi pretesa di utilizzo del capitale pubblico, che non è solo denaro, ma anche territorio (come il caso del Qatar sta suggerendo). Ci vuole la presenza di una classe politica capace di definire delle priorità di investimento nel settore industriale, capace - con aiuto esperto dei parte dell’amministrazione regionale e/o di esperti esterni- di fare scouting, dialogare con il capitale straniero nel massimo delle garanzie per i lavoratori sardi e il territorio tutto (soprattutto nel senso della conservazione degli equilibri ambientali).
Chi lo può fare? La Sfirs, pezzi dell'Assessorato alla programmazione? Un settore RAS tutto da inventare? Forse si, forse no, non è la declinazione importante in questo scritto. Questo è un punto fondamentale che va analizzato con serietà - a breve - nelle stanze istituzionalmente previste per questa possibilità. Di certo rimane, finora, l'assenza di una politica industriale e di un piano energetico che vanno urgentemente definiti, e definiti per un orizzonte di almeno 15-25 anni; una politica industriale che sia capace di investire risorse, tempo ed energie per metter mano ad ambiti – anche con il contributo di capitale straniero - che siano in grado di alimentare nascita ed espansione di una futura imprenditoria locale (la chimica è un’impresa a ciclo integrato e nega queste possibilità di indotto); che sia in grado di alimentare decisioni importanti sulla destinazione dei fondi della formazione professionale, sulla costruzione di peculiari Corsi di laurea universitari insieme agli organi di Unica e Uniss, capaci entrambi di garantire determinate figure professionali per i settori industriali in cui si è scommesso. Etc. Etc..
Insomma, le "cose da fare" sono molte, tante, forse troppe. Ma, lo ripeto alla noia, bisogna guardare con serietà e soprattutto onestà intellettuale alla posizione della nostra economia nel contesto internazionale - i suoi limiti così come i suoi vantaggi - per limitare i primi e sfruttare al massimo i secondi. Senza banali appelli di certi economisti alla letteratura internazionale, senza narrazioni felici di aspiranti governatori, ma con onesto richiamo alle concrete possibilità della nostra economia che, in una crisi internazionale di portata mostruosa, ci suggeriscono che sarebbe già una fortuna riuscire "a galleggiare" tra competitors di ben altra caratura.