Dov’è finito il sole? L’umidità entra nelle ossa, il cielo è sempre grigio, la pioggia continua a cadere su Olbia. Ho il suono delle sirene fisso in testa, il bagliore dei lampeggianti si riflette sulle pareti. Ho sentito dolore, rabbia, tristezza, sconcerto, disperazione, angoscia. Ho visto aiuto, calore, sorrisi, conforto, amore, solidarietà. C’è tutto in questa tragedia. C’è il Paese che non funziona: quello delle auto blu che viene a fare presenza con visite sprint ed elargire spiccioli; quello che organizza imponenti esercitazioni sulle emergenze e poi, quando capita quella reale, nessuno sa cosa deve fare; quello che lancia allerta meteo come fossero bruscolini per sentirsi al riparo da qualsiasi responsabilità penale, non sia mai che il processo sulla mancata evacuazione della popolazione dell’Aquila faccia proseliti; quello che incassa le tasse ambientali e ne destina una briciola, l’1%, alla sicurezza del territorio; quello che chiede ai Comuni di gestire i conti per benino e poi li costringe a tenere in banca 50 milioni che dovrebbero essere spesi sulla sicurezza; quello che ci guarda da lontano e che racconta ai telespettatori del servizio pubblico che il fiume Cedrino ha travolto Arzachena, che non censura le parole di un’europarlamentare imbecille e ignorante alla quale è concesso di offendere impunemente un intero popolo; quello che invia un ministro dei Trasporti sui luoghi del dolore e che il giorno dopo lo vedi ridere e scherzare all’inaugurazione del suo nuovo partito, dove si trova decisamente più a suo agio, uno che starebbe meglio fisso ai talk show; quello che scarica sui Comuni tutte le responsabilità; quello che costruisce scuole sopra i canali e meno male che quando scoppia tutto i bambini se li sono appena portati via i genitori; quello che il fango ce l’ha in casa ma ormai c’è talmente abituato da non vederlo nemmeno; quello che vuole farci credere di avere la coscienza pulita. E poi c’è il Paese che funziona: quello che si butta a nuoto per salvare gli altri; quello che ruba le barche per perlustrare le case; quello che lavora giorno e notte per aiutare gente sconosciuta; quello che finisce di spalare il fango e riprende a fare il pane per distribuirlo gratis; quello che si mette in ferie per distribuire aiuti; quello che prende una nave e va ad aiutare dove serve; quello che non riesce a perdonarsi di non aver potuto salvare chi chiedeva aiuto; quello che non ha più niente ma ti regala comunque un sorriso; quello che le scuole sono chiuse e allora ci si alza alle sette e si va a spalare fango nelle case; quello dei nostri vecchi che vivono con quattro soldi e mantengono i nipoti. Il Paese che funziona siamo noi, la gente comune. E forse, mia adorata Olbia, è arrivato il momento di guardarsi negli occhi. Abbiamo spensieratamente abboccato a ogni amo, per decenni. Abbiamo semplicemente fatto finta di niente, seguendo le sirene della crescita e mettendo insieme blocchetti dovunque. Abbiamo considerato i letti dei fiumi come ostacoli da deviare, interrare, intubare, deviare perché ci si doveva costruire sopra. Dimenticando il buon senso, la logica, persino la saggezza popolare, ci siamo accodati a personaggi la cui ignoranza era pari solo alla loro brama di danaro e potere. E questa è una responsabilità che non può essere trascurata, se davvero vogliamo imparare la lezione. Ma diciamolo che la colpa è anche nostra, che siamo vittime e carnefici, che siamo stati in parte artefici del nostro destino. E diamo un’occhiata generale alla situazione, a 360 gradi. Non avere programmazione (Olbia non ha un piano urbanistico) significa mettere in condizioni la politica di decidere discrezionalmente chi può costruire e dove può farlo. Essendo la politica uno strumento nelle mani di interessi singoli o corporativi, è evidente che ciò rappresenta una fonte di potere immenso. Le briciole sparse tutto intorno al piatto principale rappresentano la ricompensa per chi ha creduto, votando nella giusta direzione, di aver fatto la scelta giusta per sè e i suoi amici e familiari. Questo sottobosco di presunti furbetti va dal professionista al manovale. Olbia è sempre stata una città devota al blocchetto, tutta proiettata in quel vortice di sviluppo che, dalla fine degli anni ’60, ha prodotto una crescita esponenziale del tessuto urbano, senza freni né regole. Qui abbiamo sedici fastidiosi corsi d’acqua assediati dalle case e diciassette quartieri abusivi condonati, molti dei quali hanno condizioni di urbanizzazione da terzo mondo. Lo dico perché in uno di questi quartieri ho abitato per pochi mesi, in affitto, prima di fuggire a gambe levate. I rubinetti, per capirci, erogano l’acqua che servirebbe per irrigare i campi, le strade sono dissestate e senza asfalto, manca la pubblica illuminazione, le fogne sono affidate agli autospurgo. Posti dove si alternano fango e polvere. E questo andazzo non ha risparmiato la “perla” di Olbia, il litorale di Pittulongu, presa d’assalto dal cemento. Un intero paese abusivo è sorto alle spalle delle spiagge, interi stagni sono stati cementificati, così come i corsi d’acqua che avevano una funzione essenziale per gli equilibri naturali. Olbia non si è curata troppo di quel che stava accadendo. Era una storia da manette ma quando la magistratura (sempre lontana, troppo lontana da qui) se ne accorse, era già tutto (pre)scritto. Come abbia fatto a non accorgersene prima, la giustizia, resta un autentico mistero. Di demolizioni non si è mai parlato eppure quello scempio, in un’area ad altissimo rischio idrogeologico, doveva essere abbattuto, stroncato sul nascere. Invece è stato legalizzato. Così i furbi hanno vinto ancora. Dietro questo trionfo di cemento c’è un’intera classe politica che si è alternata alla guida di Olbia negli ultimi 40 anni, complice il silenzio/assenso di una città in altre faccende affaccendata. Una decina di giorni fa, prima del disastro, leggevo la relazione di un sindacalista sulla crisi del mercato immobiliare. C’era scritto che Olbia, allo stato attuale, presenta 4000 case invendute. Significa che la bolla è esplosa. Ma, anziché fermarsi a ragionare, sembra che l’unica via di uscita sia continuare a costruire, perchè il comparto non può fermarsi, perché i soldi devono continuare a girare. Vendi e costruisci, costruisci e vendi e non ci si può bloccare. Ora la ruota si è fermata sul serio e occorre ripensare il futuro. Noi olbiesi dobbiamo fare la nostra parte, senza più deleghe in bianco, scegliendo i nostri rappresentanti con la testa anziché con la pancia, controllandoli e contestandoli quando serve, partecipando alle scelte e non subendole, facendo tesoro della lezione. Lo dobbiamo a chi non potrà rivedere il ritorno del sole. Che arriverà, prima o poi.