Oggi, ad Arzachena, è morto zio Giovanni Beccu.
Era nato a Nuoro, era diventato gallurese, era stato un poco belga e un pizzico parigino.
Era presente a Marcinelle, nel 1956, mentre si consumava il disastro della miniera.
Era, soprattutto, una lezione vivente per chi abbia dimenticato le umiliazioni della condizione di emigrato. E sarebbe una lezione vivente per chi, non avendo mai conosciuto le umiliazioni subite dai propri antenati emigranti, non manca di infliggerle agli immigrati di oggi.
Quelli che puzzano e ci rubano il lavoro. Esattamente come gli svizzeri consideravano noi italiani, cinquant'anni fa
Molti ricorderanno zio Giovanni perché è stato un abile imprenditore edile, patriarca di una famiglia di professionisti con la passione per la politica molto conosciuti, in Gallura.
Altri per essere stato uno degli uomini di fiducia di René Podbielsky, romanziere belga tra i fondatori assieme all'Aga Khan del Consorzio Costa Smeralda.
Altri ancora potranno raccontare di averlo visto accanto a Gigi Riva e Manlio Scopigno a Liscia di Vacca, quando il Cagliari si riunì per festeggiare lo scudetto nella villa di Angelo Domenghini. E zio Giovanni - che quella villa l'aveva costruita - preparò per la compagnia porcetti e capretti, mettendoli ad arrostire sulle reti arrugginite di vecchi letti. "Finimmo tutti sbronzi", mi raccontò. E di storie me ne raffigurò con parole e memoria tante altre, in una lunga chiacchierata con lui riassunta in un'intervista pubblicata una decine d'anni fa su L'Unione Sarda.
Tra quei ricordi, uno mi è rimasto conficcato nella memoria più di altri.
Nel 1954, con la moglie in attesa di una figlia, a zio Giovanni promisero un lavoro da muratore a Milano. Un'occasione da non perdere, perché a Nuoro non si navigava nell'oro. Ma a Milano zio Giovanni scoprì che quella era solo una tappa intermedia, un centro di smistamento verso le miniere del Belgio.
Accettò comunque. E nel 1956 scampò alla tragedia della miniera di Marcinelle. Dopo un breve periodo trascorso a Parigi a fare il muratore, l'occasione di un lavoro in Sardegna lo riportò a casa.
Erano passati due anni e mezzo. Nella casa che aveva lasciato trovò una bambina che non conosceva.
Era sua figlia.
La creatura che la moglie teneva in grembo quando lui era partito, trascinando con sé una enorme valigia tenuta assieme con lo spago.
Quando la sera venne il momento di andare a letto, capì che quella figlia aveva paura di un padre che non aveva ancora conosciuto e considerava un estraneo.
"La più grande umiliazione per chi sia stato emigrato è scoprire di essere sconosciuto ai suoi stessi figli, quei figli per i quali si è partiti gonfi di paure verso un mondo sconosciuto" mi confidò.
Raccontava fatti di cinquant'anni prima.
Ma subito dopo queste parole il suo volto dai lineamenti decisi e dagli occhi penetranti, la scultura perfetta di un temperamento da guerriero, venne inondato dalle lacrime.
Era nato a Nuoro, era diventato gallurese, era stato un poco belga e un pizzico parigino.
Era presente a Marcinelle, nel 1956, mentre si consumava il disastro della miniera.
Era, soprattutto, una lezione vivente per chi abbia dimenticato le umiliazioni della condizione di emigrato. E sarebbe una lezione vivente per chi, non avendo mai conosciuto le umiliazioni subite dai propri antenati emigranti, non manca di infliggerle agli immigrati di oggi.
Quelli che puzzano e ci rubano il lavoro. Esattamente come gli svizzeri consideravano noi italiani, cinquant'anni fa
Molti ricorderanno zio Giovanni perché è stato un abile imprenditore edile, patriarca di una famiglia di professionisti con la passione per la politica molto conosciuti, in Gallura.
Altri per essere stato uno degli uomini di fiducia di René Podbielsky, romanziere belga tra i fondatori assieme all'Aga Khan del Consorzio Costa Smeralda.
Altri ancora potranno raccontare di averlo visto accanto a Gigi Riva e Manlio Scopigno a Liscia di Vacca, quando il Cagliari si riunì per festeggiare lo scudetto nella villa di Angelo Domenghini. E zio Giovanni - che quella villa l'aveva costruita - preparò per la compagnia porcetti e capretti, mettendoli ad arrostire sulle reti arrugginite di vecchi letti. "Finimmo tutti sbronzi", mi raccontò. E di storie me ne raffigurò con parole e memoria tante altre, in una lunga chiacchierata con lui riassunta in un'intervista pubblicata una decine d'anni fa su L'Unione Sarda.
Tra quei ricordi, uno mi è rimasto conficcato nella memoria più di altri.
Nel 1954, con la moglie in attesa di una figlia, a zio Giovanni promisero un lavoro da muratore a Milano. Un'occasione da non perdere, perché a Nuoro non si navigava nell'oro. Ma a Milano zio Giovanni scoprì che quella era solo una tappa intermedia, un centro di smistamento verso le miniere del Belgio.
Accettò comunque. E nel 1956 scampò alla tragedia della miniera di Marcinelle. Dopo un breve periodo trascorso a Parigi a fare il muratore, l'occasione di un lavoro in Sardegna lo riportò a casa.
Erano passati due anni e mezzo. Nella casa che aveva lasciato trovò una bambina che non conosceva.
Era sua figlia.
La creatura che la moglie teneva in grembo quando lui era partito, trascinando con sé una enorme valigia tenuta assieme con lo spago.
Quando la sera venne il momento di andare a letto, capì che quella figlia aveva paura di un padre che non aveva ancora conosciuto e considerava un estraneo.
"La più grande umiliazione per chi sia stato emigrato è scoprire di essere sconosciuto ai suoi stessi figli, quei figli per i quali si è partiti gonfi di paure verso un mondo sconosciuto" mi confidò.
Raccontava fatti di cinquant'anni prima.
Ma subito dopo queste parole il suo volto dai lineamenti decisi e dagli occhi penetranti, la scultura perfetta di un temperamento da guerriero, venne inondato dalle lacrime.