Ho aspettato che spiovesse. Perché sembrava brutto camminare per strada ad incrociare le gocce che lavano la faccia ma non fanno niente per ripulire i pensieri. Ho aspettato che diventasse verde. Per sicurezza, perché non è facile guardare in molte direzioni e provare ad arrivare dall’altra parte con le auto che ti ronzano vicino e che ti suonano. Non è facile. Perché è da troppo tempo che non lo facevo. Quasi confondo i colori. O forse è solo timore. Ho aspettato che quell’auto facesse la manovra per il parcheggio. Lei, una donna corpulenta e molliccia, aveva la faccia di chi aveva atteso per ore quei pochi metri quadri che non avrebbe diviso con niente e con nessuno. Doveva assolutamente parcheggiare in quel luogo, scorticare tutti gli attimi dell’attesa, doveva prepotentemente aprire il cofano per infilare molti pacchi colorati in questa umida sera di fine dicembre. Lo faceva con ostentata sicurezza, indifferente alla crisi e all’opacità delle luminarie quasi scomparse. Vigilia di Natale. Ho aspettato si spostasse. Era in doppia fila, trafelato, quasi scivolava nell’asfalto viscido, aveva scarpe non abituate all’acqua e non abituate a sopravvivere. Aveva belle scarpe. Nere. Come l’auto. Nera e esagerata. Poteva attraversare deserti e dune immense con quelle ruote. Ed invece stava lampeggiando in seconda fila. Quasi che quelle luci fossero lacrime di disperazione. Di solitudine. Si guardava intorno e si sistemava il collo di un cappotto caldo e carissimo. Non produceva nessun rumore e non costruiva nessuna emozione.
Ho aspettato che finisse di telefonare. La vedevo, giovane e agitata con il suo smart phone, ondulante e velocissima nelle parole e con le mani a disegnare cerchi in mezzo ad una pioggia che, di tanto in tanto rimodulava la serata. Aveva l’aria di una ragazza sicura, certa, forte e regalava sguardi con occhi di una donna che sarebbe rimasta sola. Un cuore senza troppe pulsazioni e con troppo rossetto intorno.
Ho aspettato che fischiasse. Troppe auto in doppia fila e troppa confusione. Ma lo intravvedevo parlare e sorridere smanettando con il suo cellulare e non ci provava neppure a riprendere in mano una situazione che poteva essere sua. Non c’era, nelle sue mosse, nessuna passione. Neppure una parola che riscaldasse l’anima. Ho aspettato si fermassero, provassero, almeno per un attimo, a regalare sguardi protesi in altri mondi e in altre situazioni. Niente. Sembrava che passassero sulla vita senza neppure respirare. Ho aspettato, atteso, osservato. Ho provato a non guardare l’orologio con la segreta speranza che il tempo non mi cercasse. Ho messo le mani in tasca. Il foglio c’era. C’era la data, la firma e l’ora. Ho passeggiato a lungo nel viale infinito e teribilmente corto e ho riflettuto a lungo sul tempo e sulla lentezza delle cose. Ho ripercorso quella serata dove ho incontrato molte persone ma non ho visto o parlato con nessuno.
Ho acceso una sigaretta e ho bussato. Ho aspettato, atteso il click del portone e l’ho scrutato mentre lentamente si chiudeva dietro le mie spalle. Ho centellinato tutto e mi son guardato dentro. Ci vuole molto coraggio a ritornare su questi passi. Dietro, in fondo al viale di Buocammino c’è la libertà. Ci vuole molto coraggio a rientrare alla vigilia di Natale. Ma come potevo lasciare solo Mohamed, il giorno della festa più importante per noi cristiani? Lui è musulmano. Ha un’altra festa. Vero. Ma è il mio compagno di camera e non si lascia da solo, in una piccola camera, un compagno di avventure. C’è molta follia nelle mie scelte. Vero. Molta follia. Ma anche molta coerenza. Ho dato la parola. A molte persone. Mohamed compreso. Ecco perché ho deciso di passare in cella con lui il mio Natale. Di rientrare alla vigilia dal permesso premio. Tanto, la fuori sono tutti molto occupati e incredibilmente soli e non hanno un Mohamed con cui sorridere. Non hanno il calore delle piccole cose. Non sanno che Natale, in carcere, ha pochi colori. Ma un calore che riempie gli occhi di speranza. Che Mohamed chiama gocce di pioggia. E, da musulmano, ci inzuppa il panettone.
Giampaolo cassitta
Ho aspettato che finisse di telefonare. La vedevo, giovane e agitata con il suo smart phone, ondulante e velocissima nelle parole e con le mani a disegnare cerchi in mezzo ad una pioggia che, di tanto in tanto rimodulava la serata. Aveva l’aria di una ragazza sicura, certa, forte e regalava sguardi con occhi di una donna che sarebbe rimasta sola. Un cuore senza troppe pulsazioni e con troppo rossetto intorno.
Ho aspettato che fischiasse. Troppe auto in doppia fila e troppa confusione. Ma lo intravvedevo parlare e sorridere smanettando con il suo cellulare e non ci provava neppure a riprendere in mano una situazione che poteva essere sua. Non c’era, nelle sue mosse, nessuna passione. Neppure una parola che riscaldasse l’anima. Ho aspettato si fermassero, provassero, almeno per un attimo, a regalare sguardi protesi in altri mondi e in altre situazioni. Niente. Sembrava che passassero sulla vita senza neppure respirare. Ho aspettato, atteso, osservato. Ho provato a non guardare l’orologio con la segreta speranza che il tempo non mi cercasse. Ho messo le mani in tasca. Il foglio c’era. C’era la data, la firma e l’ora. Ho passeggiato a lungo nel viale infinito e teribilmente corto e ho riflettuto a lungo sul tempo e sulla lentezza delle cose. Ho ripercorso quella serata dove ho incontrato molte persone ma non ho visto o parlato con nessuno.
Ho acceso una sigaretta e ho bussato. Ho aspettato, atteso il click del portone e l’ho scrutato mentre lentamente si chiudeva dietro le mie spalle. Ho centellinato tutto e mi son guardato dentro. Ci vuole molto coraggio a ritornare su questi passi. Dietro, in fondo al viale di Buocammino c’è la libertà. Ci vuole molto coraggio a rientrare alla vigilia di Natale. Ma come potevo lasciare solo Mohamed, il giorno della festa più importante per noi cristiani? Lui è musulmano. Ha un’altra festa. Vero. Ma è il mio compagno di camera e non si lascia da solo, in una piccola camera, un compagno di avventure. C’è molta follia nelle mie scelte. Vero. Molta follia. Ma anche molta coerenza. Ho dato la parola. A molte persone. Mohamed compreso. Ecco perché ho deciso di passare in cella con lui il mio Natale. Di rientrare alla vigilia dal permesso premio. Tanto, la fuori sono tutti molto occupati e incredibilmente soli e non hanno un Mohamed con cui sorridere. Non hanno il calore delle piccole cose. Non sanno che Natale, in carcere, ha pochi colori. Ma un calore che riempie gli occhi di speranza. Che Mohamed chiama gocce di pioggia. E, da musulmano, ci inzuppa il panettone.
Giampaolo cassitta