C’è qualcosa che mi ha sinceramente irritato nell’addio di Silvio Berlusconi al Senato. Non è stata la pantomina dell’Onorevole Bondi e neppure la “sciantoseria “ dell’Onorevole Mussolini, cose di ordinaria amministrazione. Non sono state le signore bardate a lutto in segno di “spregio” nei confronti del popolo italiano (ricordo che la sentenza, passata in giudicato, è stata pronunciata in nome di tutto il popolo italiano) e neppure la sua stanca litania, peraltro scontata, dove ha promesso di non andare via, di continuare ad occuparsi dell’Italia. Anche queste cose ampiamente prevedibil in linea con il personaggio. Non mi ha destato paura il ghigno feroce di Verdini e dei Capezzone e dei Ghedini o dei Brunetta. No, non è stato quello a produrmi l’irritazione anche se, devo ammetterlo, ne avrei fatto volentieri a meno. Quello che, invece, ha suonato come qualcosa di irrituale, inusuale e, lasciatemelo dire, di cattivo gusto, è stata la fotografia, mostrata nella piazza “urlante” che rappresentava il Cavaliere con dietro il drappo delle Brigate rosse e sotto la scritta “prigioniero politico”, quasi a voler ripercorrere, attraverso quella fotografia, la storia del presidente Aldo Moro, divenuta un’icona fortissima per quelli della mia generazione. Io nei 55 giorni di Moro c’ero. Li ho vissuti terribilmente tutti e ne sento ancora oggi le conseguenze e le paure. Ricordo i giorni e i personaggi. Ricordo gli umori, i depistaggi, gli errori di valutazione, le lotte intestine all’interno della democrazia cristiana, le trattative sottotraccia dei socialisti, l’impossibilità di trattare con i comunisti, quelli più disponibili, quelli più duri, un paese in apnea, un mondo nascosto fatto di servizi segreti e logge massoniche. Di P2. Questo ricordo. Ricordo soprattutto (rileggete il bellissimo libro La tela del Ragno di Sergio Flamigni, Kaos edizioni) che nelle prime ore convulse del sequestro, il 16 marzo 1978, rilasciarono interviste politici, economisti, banchieri, tutti iscritti alla Loggia massonica P2. Quei giorni dove hanno parlato i mistici, quelli che avevano trovato, tramite una seduta spiritica cui aveva partecipato Romano Prodi (ma tu guarda) il covo di via Gradoli, dove pullulavano gli scettici, quelli che non hanno mai creduto alle parole di Aldo Moro in prigione; i filo brigatisti pronti quasi a giustificare questa orribile mattanza. Sono stati giorni bui, densi, neri. Nerissimi per la mia tarda adolescenza. Giorni che mi hanno segnato. Ma ricordo – e ho un ricordo nitido – che Aldo Moro non si dichiarò mai un prigioniero politico. Quando ieri ho visto la foto di Silvio Berlusconi (non più Onorevole) con dietro la scritta “brigate rosse” ho avuto come un fremito e un piccolo motto di rabbia. Aldo Moro non è chiaramente Silvio Berlusconi e le storie non si sono neppure sfiorate (anche se, a pensarci bene, il Cavaliere risultava iscritto alla loggia P2 ma, come dire, lasciamo perdere). La visione politica di Aldo Moro, per quanto non condivisibile (e io, personalmente non la condividevo) era, appunto una “visione politica” perché Aldo Moro era, a suo modo, un visionario, uno che aveva capito l’importanza di aprire alla sinistra, di fare un passo in avanti rispetto al vecchio e ormai sorpassato consociativismo. Insomma, Aldo Moro non è Berlusconi e tantomeno la Magistratura può essere rappresentata dalle brigate rosse. Anzi, questa è pura blasfemia. Le brigate rosse, nella loro fulgida follia politica (e senza alcuna visione) hanno rapito i giudici, li hanno feriti e uccisi. E i giudici, con il solito indomito coraggio li hanno processati e condannati. Vorrei poterlo dire a chi teneva stretto ieri, in piazza, quel cartello raffigurante un Berlusconi con dietro la scritta “brigate rosse”. Vorrei poter ricordare che il processo di Aldo Moro fu quanto di più tirannico si potesse costruire: Nessun avvocato, nessuna prova. Il tribunale del popolo (un popolo molto ancestrale, a dire il vero e composto solo da pochi brigatisti) decise per la pena di morte, pena che non esiste per nostra grande fortuna all’interno del codice penale italiano. Vorrei poter ricordare che il processo di Silvio Berlusconi è stato tra i più democratici e garantisti che sono stati effettuati in questo paese: avvocati, testimoni, elementi probatori analizzati in tre gradi di giudizio. Questo vorrei ricordare a chi avvicina la figura martirizzata di Aldo Moro a quella di Silvio Berlusconi. Ognuno ha la sua storia e i suoi processi. Silvio Berlusconi e i suoi “fans” potevano lasciare la scena con dignità. Non sono riusciti a fare neppure questo e hanno imbrattato la storia di un paese segnato da tragedie vere e da altre abbastanza ridicole. Potevano dire, semplicemente, “lo spettacolo è finito”. Probabilmente si sarebbero beccati anche l’applauso. Ma da gente che confonde il dramma di Moro con una sentenza di condanna per frode fiscale non si può pretendere che comprenda l’importanza dei gesti.