Come tutte le cose preziose, anche la lingua sarda scatena il dibattito nel momento in cui la sua definitiva condanna sembra vicina. La preoccupazione che la prossima, imminente politica regionale, non si occupi più della questione linguistica sarda, ha provocato una reazione quasi difensiva di Bolognesi e di altri addetti ai lavori. Bolognesi, lo riepilogo, sostiene che l’aver trascurato il problema della lingua sarda abbia comportato un impoverimento culturale degli studenti sardi, influenzando negativamente l’abbandono scolastico. Ma la lingua sarda sembra disperdersi in un limbo di incomunicabilità: anni di dibattiti culturali sfociati nella (buona) legge del 1997 e proseguiti poi con tutti gli sforzi per dotarsi di una lingua comune, sembrano sfaldarsi sotto i colpi di una sorta di inutilità moderna. Così Emiliano Deiana si domanda qual è la connessione tra lingua sarda ed economia, Giampaolo Cassitta sottolinea la frammentarietà delle parlate in Sardegna, e Luca Ronchi si interroga sul senso di recuperare un moribondo linguistico in un mondo in continua accelerazione.
Infine giunge Gavino Minutti, il quale, con molta schiettezza, restituisce le accuse al mittente che Bolognesi, con un piglio tanto provocatorio quanto pregiudiziale, fa al candidato del centrosinistra Francesco Pigliaru.
Il linguista accusa l’economista di economicismo; riconosce si un impegno nel versante dell’istruzione, ma solo su un piano strutturale e funzionale, meramente edilizio, senza dare la dovuta considerazione alla questione linguistica. A questo punto l’intervento tagliente di Minutti sottolinea le divergenze tra gli addetti ai lavori, i lunghi dibattiti sfociati in faide accademiche ed extra-accademiche, l’incapacità, in definitiva, da parte del gruppo di sostegno al progetto linguistico sardo, di offrire al legislatore una proposta oggettiva, univoca, o quanto meno percorribile.
Scuola di merda che produce una classe politica di merda, è l’assioma ulteriore di Bolognesi. Non si può dargli torto. Una scuola che non tratta la Sardegna nel giusto modo non può che produrre una classe politica scialba e succube del centralismo e di interessi più o meno particolari.
Questa della lingua sarda, dunque, sembra essere la madre delle questioni in questa campagna elettorale, se la guardiamo da questa angolatura. Perché è chiaro che lavoro, spopolamento delle zone interne, consumo del territorio e dell’ambiente, scelte economiche, istruzione, da altre differenti prospettive, appaiono ben più prioritarie.
Eppure una sua matrice drammatica e definitiva la questione lingua lo contiene.
La lingua sarda è un patrimonio prezioso, immane. La sua scomparsa sarebbe una tragedia. Ma non è facile intendersi su questa cosa. Ci vogliono secoli, a volte millenni, per creare una grammatica ed un vocabolario, e pochi decenni per distruggerli, verrebbe da dire parafrasando uno slogan “ambientalista”. Ma è l’importanza concreta che non si scorge, perché adombrata da una visione, ormai catalogata, di valore monetario diretto delle cose. La lingua sarda ha un grande valore economico, legato al concetto di popolo, che non si scorge. Temo di scoperchiare un vaso di pandora, se nomino il concetto di “identità”. Mi rifugio dunque nella sintesi assoluta, pescando nella riflessione antropologica già data. L’identità, insieme di elementi che denotano comunione e missione di un popolo, procurano una direzione. Più forte è il senso di identità, più la visione di un futuro, di un obbiettivo comune, scaccia il senso di inutilità, riduce l’angoscia della solitudine, e dona idealità e progettualità. Una scuola identitaria, che spieghi la vera importanza della civiltà nuragica nella storia occidentale, che collochi nel suo giusto ruolo di grande avanguardia culturale Grazia Deledda, che sottolinei l’importanza del Regno di Sardegna nella formazione dell’Italia, e in grado di distinguere nettamente tra sardo scritto e sardo parlato, formerebbe una società ed una classe dirigente ideale, positiva, concreta, pronta a ritagliarsi il suo spazio e il suo ruolo nel mondo. E la lingua è una delle più salienti componenti dell’identità, perderla sarebbe un vero peccato, un po’ come consegnare davvero la bandiera sarda nelle mani degli squali, dei prenditori, degli incantatori di serpenti e dei venditori di fumo.
Lingua sarda dunque. Ma come fare, se ci ricorda Minutti, neppure i linguisti riescono a mettersi d’accordo?
Con il buon senso, la buona volontà, e un pizzico di visione oltre le punte delle proprie scarpe.
Io credo che la visione economica, o “economicista”, di Pigliaru, possa essere integrata agevolmente da una proposta linguistica smussata dell’agone che rende invasati tutti coloro si interessino di lingua sarda. Non vedo nessuna contraddizione ad investire nell’edilizia scolastica, che fa acqua da tutte le parti, nel dare strutture, servizi e confort agli studenti, e studiare una formula che riporti la Sardegna al centro della cultura scolastica.
Investire nell’edilizia scolastica significa ammortizzare la voracità del mattone, che altrimenti si schianterebbe su delicati paesaggi, sulle bellezze costiere, annientandole per sempre.
Perché anche l’occhio vuole la sua parte, non solo la lingua, anche il cuore vuole la sua parte. Se no salviamo una parte di identità e ne perdiamo un’altra.
La lingua è comunicazione. Sarebbe.
Un grande, grandissimo intellettuale degli anni ’60, Antonio Pigliaru (padre di Francesco), scrisse uno dei libri fondanti della rinascita culturale sarda. Insieme alla “costante resistenziale sarda” di Lilliu, e alla “rivolta dell’oggetto” di Michelangelo Pira, si cercava, negli anni della prima grande omologazione televisiva, di internazionalismo talvolta manieristico, di prosecuzione con altri e più cocenti modi l’annullamento della prerogativa sarda, di recuperare alla storia il dramma del ridimensionamento occulto dell’antropologia sarda.
Quel libro si intitolava “la vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”. Dimostrava che due codici giuridici, uno italiano, scritto, e uno sardo, non scritto, derivanti da due differenti culture, storiche ed antropologiche, sovrapponendosi, creavano degli attriti sociali irrisolvibili.
Pur con i limiti del contesto storico dell’epoca, quell’analisi rappresenta, ancora oggi, una lucida scomposizione delle forze di pressione che muovono i fatti sociali e, se vogliamo, la rappresentazione dell’incomunicabilità tra codici culturali.
Per esempio, tra un codice culturale orientato verso lo sviluppo economico sostenibile, ed un codice culturale che vede nella dimensione identitaria il motore della società.
Ma, come scrive Savina Dolores Massa, “Con queste stramaledette elezioni regionali, la schizofrenia è male diffuso”.
Peccato, perché, secondo me, questa ed altre sintesi sono ancora possibili.