Continuo a pensarla all’antica. Mia nonna, per dire, conservava i soldi per “mangiare” da una parte e i soldi per “vestirsi” dall’altra. Era una donna che proveniva dall’orrore della guerra e sapeva benissimo come si dovevano soppesare le priorità. Dunque i soldi per la cena non si mischiano con quelli per le cravatte. Non si deve fare. Non si può dire “ma lo fanno tutti” o provare piccoli e indegni sotterfugi: “d’altronde anche l’uovo di pasqua è un modo per vestirsi”. Non è così. Non serve raccontare che la colpa, in fondo è delle leggi, dei regolamenti. Perché ci sono leggi e regolamenti scritti da quelle stesse persone che non rispettano ciò che scrivono. Ed è questo il primo grande, imperdonabile errore. Questi signori non sono Stato, non riescono ad essere Stato, non possono comprendere i passaggi etici perché non capiscono “i fondamentali”, quelli di mia nonna: mai dividere i soldi dei vestiti da quelli per mangiare. C’è una visione completamente distorta della realtà quando questi signori non comprendono di aver utilizzato i denari pubblici per fini esclusivamente privati. Questi signori, in fondo sono figli di quello che Pasolini chiamava il sotto-Stato, il sottogoverno arcaico, un rimasuglio di un regime spregiudicato, cinico, agile che continua, terribilmente, un disegno ormai insopportabile. Mia nonna avrebbe chiamato questi presunti “onorevoli” “pedidores” ovvero piccole persone inette, poco inclini a comprendere la differenza tra i soldi per mangiare e quelli per vestirsi. Cosicché li avrebbero trovati con i cappotti d’estate e mangiando la pasta al sugo laddove serviva del burro o della verdura. Completamente fuori luogo e fuori tempo massimo. La smettessero almeno di giustificarsi. Tanto nonna (da lassù) mica è disposta a crederci. Manco morta.
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Quando Massimo Bray fu nominato Ministro dei Beni e delle attività culturali da Letta non furono in pochi a gioire per la comprovata professionalità, l’esperienza, lo spessore culturale e le capacità di ascolto del Nostro. Le capacità del fare di Bray si sono subito materializzate: nominato il 28 di aprile, il 2 di agosto presenta al pubblico il Decreto legge recante disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei Beni e delle Attività Culturali. Il decreto legge è stato chiamato “Valore Cultura” ed è stato spacciato come atto rivoluzionario dallo stesso Bray in quanto “da circa 30 anni non si aveva una specifica iniziativa governativa così articolata in campo culturale”: si va dall’intervento per Pompei (che torna ad essere Soprintendenza autonoma) agli interventi di riorganizzazione delle Fondazioni lirico-sinfoniche (molte delle quali in questi anni hanno accumulato debiti enormi), alle misure relative ai Nuovi Uffizi, al recupero al MiBAC delle risorse derivanti dalla vendita degli biglietti, al tax credit per il cinema e la musica, e altre ancora. Tra le altre, però, ci sono anche le cazzate, ma grandi però... Ad esempio il “Programma straordinario di inventariazione e digitalizzazione”, che dovrebbe facilitare “l’accesso e la fruizione del patrimonio culturale da parte del pubblico” selezionando “500 laureati under 35 ai quali sarà data la possibilità di accedere a un tirocinio di 12 mesi”. Nel profluvio della retorica di questo come di tanti governi, il Premier Letta spacciò questa faccenda come un’opportunità di lavoro, ipotizzando – ancora una volta – di avere di fronte un pubblico di coglioni analfabeti. La semplice azione del “leggere” (il Decreto e l’Avviso di selezione, ovviamente) consente di svelare non il senso demenziale della proposta, bensì la sedimentata prassi di considerare le risorse giovanili come “carne da macello” nel mercato del lavoro. E qui, in questa reiterazione dello svilimento del capitale umano accumulato dai giovani, in questa incapacità di vedere la cultura come un volano di sviluppo, una leva su cui investire attenzioni, energie e, soprattutto, risorse finanziarie, che si è ormai persa ogni differenza significativa (à la Bobbio) tra l’essere di sinistra o di destra. Capita, leggendo l’Avviso, di incontrare il comma 3 dell’art.5, che recita “il programma formativo di cui al presente Avviso non costituisce in alcun modo e non dà luogo alla costituzione in alcun modo di un rapporto di lavoro subordinato”. È e vuole essere un programma formativo, che alla fine prevede il rilascio di un attestato e che “non comporta alcun obbligo di assunzione da parte del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo” Allora viene da chiedersi perché cavolo mai un giovane laureato che ha una laurea con almeno 110/110 o un diploma 150/150, e una certificazione B2 QCER dell’inglese, dovrebbe accettare di spendere un anno della sua giovane vita continuando a ispessire la sua formazione “presso gli istituti e i luoghi della cultura statali per l’incredibile sostanziosa cifra di 5000 euro lordi annui, 416 euro al mese, 2 euro all’ora. Allora viene da dire agli ingenui che spalancano la bocca di fronte alle incredibili cifre dei 3,75 milioni di neet (not in education, employment or training), giovani italiani tra i 25 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non sono in un percorso di formazione (il 27% del totale; 36,2% al Sud, oltre 2 milioni di persone): cazzo vi stupite? Cazzo vi stupite di questi abbandoni, di queste derive biografiche, quando è lo stesso Ministero che dice che “non serve”; che le eccellenze prodotte dall’Università, o dalle scuole di archivistica, paleografia e diplomatica, non sono pronte per lavorare alla digitalizzazione del nostro Patrimonio Culturale; che serve altro, un tirocinio che non ha neanche la parvenza dell’apprendistato; che serve un’abiura alla propria dignità, almeno per un anno. Ma evidentemente Bray (e chi lo ha coadiuvato nella redazione del Decreto e dell’Avviso), oltre al riconosciuto spessore culturale ha anche immensa dose di umorismo. Già, perché leggendo fino in fondo il Programma 500 giovani per la cultura, alla fine un giovane è anche legittimato a storcere il naso, incazzarsi perché si sente preso per il culo. Infatti, tra gli obiettivi si scopre che il Ministero è interessato a: 1) Incrementare le competenze dei “500 giovani” 2) Realizzare percorsi turistico-culturali 3) Favorire la creazione di start up di imprese innovative nel campo del patrimonio culturale digitale, della conoscenza, della formazione e del turismo culturale . Insomma, alla fine diventi anche imprenditore!! Fai il tirocinio in condizioni di indegnità, nei primi due mesi assisti a lezioni in diretta streaming attraverso la rete RVP del MiBACT; nei sei mesi successivi via a lavorare presso luoghi gestiti dal MiBACT (musei, archivi, biblioteche) e impari le ontologie di base che rappresentano gli schemi di descrizione dei sistemi centrali (CAT SAN, METS…); negli ultimi 4 mesi cerchi di sviluppare delle soluzioni quali “Visite culturali, mostre virtuali e percorsi espositivi e tematici sui temi individuati (…) ovvero “territori, grande guerra, patrimonio culturale immateriale”, e.. alla fine.. ti viene fuori lo spirito dell’innovatore imprenditore schumpeteriano? E alla fine sei nelle condizioni di produrre start-up di successo nel settore? Ma dai… Ora, io posso anche capire che il MIbac, come organizzazione, sia nella merda. Posso anche capire che sia difficile soddisfare gli obiettivi del Programma quando i dipendenti di area tecnico scientifica sono 3864, dei quali solo 350 archeologi e 490 storici dell’arte, contro 4649 amministrativi, 8371 custodi e 1253 occupati in attività ausiliarie. Posso anche capire che la situazione di merda derivi dal fatto che la maggior parte delle risorse del Mibac sono utilizzate per gli stipendi della valanga di custodi che tengono aperti i 237 musei archeologici nazionali, antiquaria ed aree archeologiche, e dall’esercito degli amministrativi. Posso capire tutto, ma non la presa per il culo sotto forma di stage formativo. Ecco, caro Soprintendente ai Beni Archeologici per Cagliari e Oristano, caro Marco Minoja, quando dice che “Dobbiamo considerare la notizia alla luce della situazione di crisi che stiamo vivendo, non sottovaluterei comunque la formazione all’interno di un ufficio ministeriale: di certo i cinquemila euro non sono un compenso e il lavoro è molto impegnativo, ma può essere un’esperienza positiva”, mi viene proprio voglia di dirglielo.. ma davvero anche lei pensa che siano tutti coglioni questi giovani? Sardi, fora di ball, la spiaggia è nostra. di Fiorenzo Caterini. Un’altra cocente fregatura incombe sulle spalle della Sardegna. La crisi avanza, minacciosa, la banche sono affamate, la finanza europea e mondiale preme, il governo non ha molte idee e non vuole toccare interessi e rendite di posizione. Che fare? Vendiamo le spiagge, privatizziamo le concessioni demaniali marittime. Come ha avuto modo di rilevare Francesco Giorgioni nel suo articolo su Sardegnablogger, gran parte di queste concessioni demaniali marittime sono affidate ad alberghi, anche di lusso, che molte volte sottraggono ai cittadini preziose porzioni di arenile in cambio di pochi spiccioli. A quanti è capitato, anche nella nostra Sardegna, dove la spiagge abbondano, di sgomitare per uno spicchio di spiaggia, e di vedersi a fianco i villeggianti degli alberghi spaparanzati con ampio spazio a disposizione? Ma tutto questo favoritismo agli amici degli amici, pare non essere sufficiente. Ora si parla, addirittura, di vendere un bene che da sempre viene considerato assolutamente inalienabile. Tra le altre cose, infatti, l’attività balneare ha una importante funzione sociale e sanitaria. In particolare sono le famiglie con figli piccoli che sarebbero penalizzate da una restrizione dell’uso pubblico delle spiagge. Insomma, ne va del futuro, del benessere, e della qualità della vita nostra e dei nostri figli. La Sardegna ha la maggiore lunghezza costiera d’Italia, superiore anche alla Sicilia. Perciò, la domanda su quale sarà la regione italiana più penalizzata dalla vendita delle concessioni demaniali marittime, è puramente retorica. Ma è bene sottolineare la partita di giro che sta dietro questa grande truffa. Alberghi italiani e stranieri, che sfruttano praticamente a gratis le nostre spiagge, pagando un canone risibile di cui in Sardegna non rimane niente, e che grazie alla complicità dei governanti finiranno per invadere con la loro proprietà privata definitivamente preziose parti di costa marina. Una forma subdola di colonialismo, che si aggiunge alle servitù militari, che la Sardegna paga con il 60 per cento del territorio rispetto al resto della nazione, e allo sfruttamento storico del territorio sardo e delle sue materie prime. Sardegna, di fatto, come una colonia. Vero è che tra i concessionari delle spiagge vi sono anche dei sardi che ci campano di quel lavoro, con tanti sacrifici e fornendo dei servizi. Ma statene certi che, mentre il grande albergo avrà le disponibilità finanziarie per privatizzarsi la spiaggia, difficilmente invece questi potranno disporre delle somme necessarie all’acquisto del bene. Ci si mette anche questa giunta regionale, con il suo piano paesaggistico “dei sardi”, a favorire questo furto, agevolando l’edilizia costiera di questi grandi alberghi. Altro che piano paesaggistico dei sardi. Sardi, fora di ball, fuori dalle palle, la spiaggia è nostra. Insomma, all’orizzonte si profila un’altra indebita espropriazione di ricchezza dei sardi, un’altra di quelle cose che ci fanno sentire una regione marginale all’interno della storia del nostro italico paese. La storia si ripete, verrebbe da dire. Come se non bastasse, ci toccherà sentire i “nordisti”, politici compresi, rimproverarci e sbeffeggiarci con il nostro supposto parassitismo sudista. Anche quei padani che, dopo aver costruito le loro ferrovie con il sardo legname, ora, guarda caso, non hanno un metro di mare da offrire alle casse affamate del demanio. Fai clic qui per effettuare modifiche.Oggi i quotidiani regionali riferiscono che l'ostruzione al Rio Gaddhuresu - uno dei canali che scorrono ad Olbia e il cui straripamento ha determinato il disastro del 18 novembre - è frutto di opere di canalizzazione programmate e realizzate tra il 2000 ed il 2003. Quando il sindaco si chiamava Settimo Nizzi e l'assessore all'Ambiente Gianfranco Bardanzellu, ex segretario di Alleanza nazionale e oggi consigliere regionale del Pdl.
Esisteva, una volta, il buon gusto di tacere. A volte tenere la bocca chiusa è un segno di intelligenza e di sobrietà, non necessariamente un'ammissione di colpa. Quando si è in una posizione di oggettiva debolezza riguardo ad una certa questione, invece, stare zitti è un atto di giustizia. L'esigenza di tacere non l'ha minimamente avvertita, Settimo Nizzi, quando in apposita conferenza stampa ha chiesto le dimissioni del sindaco di Olbia Gianni Giovannelli, ritenuto dal più alto dirigente sardo del defunto Pdl incapace di gestire l'emergenza post alluvione. Nizzi, durante i giorni dell'alluvione, era in vacanza in Thailandia. In una a tratti indecifrabile intervista rilasciata a La Nuova Sardegna, ha spiegato che in quei giorni non poteva ricevere messaggi, però ha precisato di essersi attivato per muovere tutte le conoscenze possibili affinché i più alti vertici istituzionali si impegnassero per fronteggiare il disastro. Un coordinamento gestito dalla Thailandia. Ognuno può andare in vacanza dove vuole e restarci, anche nei giorni in cui la città cui tutto deve è investita dalla catastrofe. Anche se da un leader politico convinto di rappresentare il territorio ci si aspetterebbe, magari, l'interruzione della vacanza e un salto sul primo aereo per tornare in luoghi che invocano aiuto. Quel che invece non si può accettare è che chi non era presente nei giorni della catastrofe pretenda di giudicare l'operato altrui e farne terreno di scontro politico. Specie se chi chiede risposte avrebbe, invece, ben altre da darne sul proprio operato da amministratore. Su quel terreno melmoso Nizzi è scivolato. Definitivamente. Si discute molto, in questi giorni, se Renzi si più di destra o di sinistra, se voglia fare questo o quello, se strizzi l’occhio a Berlusconi piuttosto che alla vecchia guardia del PD, che si è affrettata a salire, quasi tutta, sul carro del vincente. Renzi vince le primarie, sgretolando gli avversari, con una discreta affluenza di votanti, cosa inaspettata di questi tempi, viste le traversie del PD con il perverso inciucio con il PDL e l’ormai tristemente noto tradimento dei “101”. Naturalmente, questa affluenza porterà acqua al mulino di chi ritiene l’elettore del PD capace di stoiche sopportazioni. In realtà la lettura può essere diversa. Lo strapotere di Renzi ha un’unica matrice. Una sola. L’aver detto, con chiarezza, che cambierà le classi dirigenti del nostro paese. Questa è l’unica cosa che ha detto che interessa davvero e che, verosimilmente, farà. La gente lo ha votato infatti con quell’unica speranza, senza porsi il problema di chi è, cosa farà davvero, che programma metterà in atto. Voglia di cambiamento, senza se e senza ma, poi si vedrà. Dopo anni di democrazia bloccata da una legge elettorale illegittima, la gente non sopporta più l’idea di essere costretta ad avere al governo personaggi che, alla fine, gli sono stati stata imposti. E Renzi è stato abile a sfruttare questa generica voglia di rottamazione. Se i nostri governanti e il Capo dello Stato stesso fossero corretti e ragionevoli, starebbero in carica lo stretto necessario per fare una riforma elettorale e togliere le tende. Ma non lo faranno, perché dietro le vicissitudini assurde di questa fase della storia repubblicana, dietro il serrarsi della casta di fronte alle manifestazioni di ribellione del paese, ci stanno affari e interessi troppo grandi, di quelli che legano le mani a chi è servo del potere, ma non servo dello Stato. Nel frattempo gruppi di facinorosi che si ispirano al cosiddetto movimento dei forconi scendono nelle strade per protestare e fare casino, non si capisce bene contro chi e contro cosa. L’obbiettivo della protesta resta vacuo, fumoso, le tasse, il governo. Ma il governo quale? Questo governo o il governo come istituto? Ma tanto la gente è arrabbiata e, si sa, quando è arrabbiata non ragiona. Non c’è niente di più manipolabile della rabbia. Di una persona arrabbiata un furbo ne fa quello che vuole. E io mi pongo sempre dei dubbi, quando vedo che l’obbiettivo della protesta è un po’ troppo generico. E mi domando se non ci sia qualche furbo dietro che manipola la rabbia e di conseguenza la protesta, per buttarla in caciara. Che la caciara, alla fine, consolida il potere dei furbi, dei forti e dei prepotenti. Chissà perché. Ma è sempre stato così. La ribellione senza una base culturale di sostegno resta una caciara, un pretesto per la reazione dello Stato, o per una propaganda denigratoria, o addirittura per tentazioni dittatoriali. Anche dietro le stragi terroristiche degli anni ’70 e primi anni ’80, che ora sappiamo essere legati alla cosiddetta "strategia della tensione", non si capiva bene quali erano gli obbiettivi e i soggetti manovratori. Oggi lo sappiamo. Spero che la situazione politica italiana si sblocchi al più presto, con una nuove legge elettorale che consenta agli elettori di scegliere direttamente alle urne, senza bisogno di dover per forza andare a sostenere un "rottamatore". Prima che qualche furbo cavalchi il malcontento e la conseguente, inevitabile, carica di violenza. Non ho votato alle primarie. L’ho spiegato e la cosa finisce lì. Guardo, con pacata curiosità, il nuovo che avanza e avanza con molta velocità, per dirla con i “futuristi”. L’apoteosi renziana ha scardinato molte porte che da anni, a dire il vero, erano blindate. Ha provato – e ha vinto – a disegnarsi come segretario del PD e sapeva – lo sapeva benissimo lui ed eravamo profondamente convinti noi – che non aveva la stessa “pesantezza” del vecchio segretario del PCI. Infatti, lo dico per rammentarlo soprattutto a me stesso, lui non viene dopo Togliatti-Longo-Berlinguer ma viene – ed è segno dei tempi – dopo Veltroni-Fassino-Bersani. Altra storie dunque. Si, e altre storie. Non serve stare qui a riesumare esegesi romantiche e stucchevoli. Il tempo passa e Renzi è al passo con i tempi. Con questi tempi e di questi tempi. Lo diceva ieri, nel suo discorso. Andava ancora a scuola quando crollava il muro di Berlino e i ragazzi, nel 1992, si iscrivevano a Giurisprudenza in onore di Falcone e Borsellino. Ho riflettuto molto davanti a questo passaggio. Io, Falcone e Borsellino li avevo conosciuti nel 1985 e, da allora, avevo deciso di innamorarmi perdutamente del senso dello Stato. Quindi, qualcosa di nuovo, anzi di antico, si annida sotto il cielo di Renzi. Mi è piaciuta, per esempio, la sua pragmaticità nel decidere, da subito, senza incontri, senza consultazioni di sepolcri imbiancati, una segreteria di “quasi” perfetti sconosciuti. Magari sbaglia, ma ha deciso. Non è tempo di discussioni infinite. E’ il tempo del morettiano “No, il dibattito no”. Qualcuno dirà che queste scelte non sono state sedimentate con l’assemblea, il politburo, il comitato centrale. Qualcuno obbietterà che tutto questo è poco democratico. Io, tendenzialmente sono tra quelli. Ma una cosa la voglio dire: noi (io per primo) siamo quelli che abbiamo discusso su tutto e di tutto: dal privato è politico, alla proletarizzazione della coppia (e qualcuno me lo dovrà spiegare cosa diavolo significa) all’emendamento da approvare alla questione di principio, all’etica delle scelte alla voglia di puntualizzare. Un disastro. Noi (io per primo) abbiamo perso. Questo è quello che ho imparato oggi. Faccio parte dei perdenti, di quelli condannati a vivere dalla parte del torto tutta la vita. Non ci sto poi tanto male. Però, in fondo in fondo, questo gioco veloce e vincente non mi dispiace. Anche perché vincere non è un verbo di destra. Soprattutto se Renzi riuscirà a convincere. Adesso. Ho osservato l’orologio. E’ presto. E fa freddo. Conviene rimandare di qualche ora. In fondo gli attimi non aiutano a centellinare gli eventi. Poi c’è questa bellezza dell’I-pad dove puoi leggere il quotidiano sfiorando l’applicazione con un dito. In un istante. A letto. Ho deciso per un caffè in cucina. Senza zucchero. E’ da qualche anno che lo bevo amaro, per mettermi al passo con i tempi. Solitamente salto le pagine dell’economia. Non le capisco e mettono ansia. Preferisco la cronaca. Apparentemente più digeribile. Solo apparentemente. Tre biscotti. Perché tre, da sempre, è il numero perfetto. Nelle giornate incasinate e difficili, la perfezione si consuma nel rito dei tre biscotti. Dicono sia una festa importante oggi. L’immacolata concezione. Un concetto astruso e complicatissimo. Da tempo ho deciso di non occuparmene. Se è immacolata va bene. Non sono più disposto a riparlare dei protovangeli che dicono altro, di esegesi che dimenticano Maria, di un mito nato quattro secoli dopo la morte di Cristo eccetera eccetera. Non è questo il punto. Almeno oggi. Ecco, comincio ad essere nervoso. Come al mio primo voto. Avevo diciannove anni. Il 1977. Ero indeciso: tra i radicali di Pannella e i comunisti di Berlinguer. Tra gli amici si discuteva serrato. Molti erano per Democrazia Proletaria. Troppo clamore, pensavo. Decisi, da solo, per Berlinguer. Perché a votare si va da soli. Con i propri pensieri. E le mani in tasca. E il cuore leggero. Poi uccisero la speranza, l’orrore delle brigate rosse, i compagni che sbagliano, gli errori dei socialisti, i tentennamenti di Berlinguer. La sua morte, a Padova. Le mie lacrime. Dense. Solo, a guardare la televisione un funerale che rappresentava la morte del mio ideale. Natta, Occhetto, la Bolognina. I tentennamenti. La scelta critica. La spaccatura. Rifondazione Comunista e poi l’analisi più concentrata, più forte. La decisione di stare dalla parte del torto, insieme ai ragazzi del Manifesto. Quel passaggio ai Ds, alla Margherita, Rutelli, Veltroni, Jovanotti e tutto si dipanava. Si ricercavano altre storie. Votavo con il cuore sempre più pesante, ma sempre da solo. Infine le primarie: la voglia di ricominciare, di essere qualcosa. Ero troppo adulto per emozionarmi. Ma i miei due euro erano sinceri. Loro no. Dopo i risultati hanno modificato tutto e inserito un socialista in lista, sicuro di essere eletto. Con il Porcellum. Un socialista. Ma dove diavolo lo hanno pescato, poi, un socialista nel 2013? Insomma. Tre biscotti non bastano e al diavolo la perfezione. Sono pronto. Giornata di festa. Ci sono i gazebo, i due euro da consegnare e scegliere il nuovo immacolato segretario del partito democratico. Sono solo. Lo sono sempre quando soppeso le scelte. Quelle importanti. Ed oggi ritengo sia una giornata da ricordare. Vado ad incontrare il mare. Quello mio, quello vero, quello gonfio e dolce, quello che non mi ha mai tradito. E’ bello osservarlo dalla passeggiata di Alghero, accovacciato sugli scogli levigati, unici punti di riferimento della mia vita. Ci sono poche bancarelle e un ragazzo di colore vende calze e fazzolettini. Gli porgo due euro e lui è pronto a consegnarmi un pacco di fazzoletti. Che rifiuto. “E’ una cosa rivoluzionaria” gli dico salutandolo, “ho votato per te e sono felice”. Lui mi guarda e saluta con un lieve sorriso. Il mare non si muove. Ma ascolta e, in un silenzio atroce, approva. Buon voto a tutti. E buona fortuna. Ci serve. Come il mare. A stagliare la linea di un futuro troppo grigio e troppo lento. Io, continuo da solo. Almeno per oggi. Lui si avvicina alla gabbia, con passi lenti e sicuri. Reca in mano un pasto succulento per il branco inferocito. Sa bene quanto le sue belve siano fameliche, conosce la loro voracità. Sa che aspettano da tanto tempo una preda da dilaniare. Vogliono strapparne la carne a brandelli, con le fauci che grondano di liquido rosso e viscoso intriso dell’energia vitale della vittima, fino a quando sazie e con ancora il sapore ferruginoso in bocca si accasceranno soddisfatte e appesantite in un angolo. Mentre si accosta alle sbarre sorride sotto i baffi, per un attimo sente addosso ruolo di mamma che nutre i suoi piccoli. Non è il latte candido, nutriente e rassicurante l’alimento che offrirà alle bestie. La gabbia è più vicina, sente il sordo ansimare delle belve che, quando avvertono i passi del padrone, si trasforma in un latrato feroce. Si accosta, infila la mano tra le sbarre, avverte il gelido contatto col ferro e un brivido gli percorre la colonna vertebrale. Il sussulto è un misto di freddo e piacere. Lancia Maria Novella Oppi al centro della gabbia e urla: “ATTACCATELA!” Non ho nessuna intenzione di discutere dei chilometri della Barracciu e neppure mi interessano le settanta pagine di argomentazioni presentate a sua difesa dagli avvocati al Procuratore della Repubblica. Piuttosto mi preme ribadire un piccolo concetto che passa quasi inosservato in questa palude dove tutti i politici si sono impantanati. Il concetto è piuttosto semplice: cosa facciamo con i fondi comuni, pubblici, di tutti? Abbiamo chiara la sfera privata, ovvero le cose "per noi", quelle non possono essere condivise con gli altri, (i politici, anche in questo caso, molte confusioni le fanno....) ma sul pubblico ci sono degli strani distinguo ai quali non intendo sottrarmi. Un dipendente pubblico quando va a lavorare utilizza il mezzo proprio, quando invece è in missione utilizza i mezzi pubblici e ha diritto al rimborso, oppure utilizza un mezzo dell'amministrazione e, in questo caso la benzina è a carico dell'ente pubblico. Distinguiamo subito i due binari. Si va a lavorare con i propri mezzi e si usano quelli dell'amministrazione solo ed esclusivamente per interessi propri dell'Amministrazione stessa. Ricapitolando: se io devo andare in aeroporto e recarmi a Roma per lavoro e la mia sede di servizio è Cagliari, il tragitto da Cagliari a Elmas mi deve essere rimborsato. Viceversa, se lo stesso tragitto lo devo effettuare per recarmi a Roma e trovare Zia Gavina, quello me lo devo pagare necessariamente di tasca mia, pur essendo un pubblico dipendente. Il fatto che questi onorevoli signori non riescano neppure a comprendere il significato elementare di leggi oramai ben conosciute da tutti è davvero sorprendente. La Barracciu racconta di aver utilizzato 33.000 euro (e non sono pochi) per spostarsi in Sardegna. Questi spostamenti, dice la Barracciu, sono legati a motivi di lavoro, riunioni, convegni, incontri con il partito, incontri con gli elettori. Permettete di non credere a questa ricostruzione, probabilmente migliore dell'acquisto di consolle Wii, ma terribilmente ipocrita. Infatti, l'Onorevole Barracciu dovrebbe dimostrare che quando le si muoveva (tutti i giorni, domenica compresa, macinava centinaia di chilometri) lo faceva per "servizio" e dovrebbe spiegare, a questo punto in cosa consiste il "servizio" di un deputato regionale. Ricordo di aver avuto con la Barracciu uno scambio di messaggi su Fb perché avevo stigmatizzato la sua brillante assenza dal Consiglio Regionale. Lei mi rispose che era impegnata nella campagna per le primarie (quelle della segretaria regionale) e riteneva quello un dovere politico superiore alla presenza in Consiglio, dove si sarebbe dovuta occupare delle cose di tutti. Certamente era un impegno, probabilmente proibitivo ma, lasciatemelo dire, era assolutamente privato e non pubblico. Le primarie sono un fatto altamente democratico, altamente interessante, ma relegate al proprio partito. Non si fanno rimborsare i chilometri per girare la Sardegna e sostenere un candidato alle primarie del suo partito. E' come prendere un taxi per recarsi all'aeroporto dove ci aspetta l'aereo che ci trasporterà a Roma, a trovare zia Gavina. Quel rimborso, per un dipendente pubblico è un reato. Si chiama peculato. Quando questi signori riusciranno a comprendere queste piccoli differenze potremmo sederci tranquillamente a discutere di altro. Un'ultima cosa. Magari il nostro Onorevole riuscirà a far passare i chilometri macinati in terra sarda come "lavoro utile" all'elettorato, ma non potrà presentarsi al cospetto dei suoi elettori convinta di averla fatta franca. L'etica ha il suo peso, come le bugie. Se proprio dobbiamo cominciare ad eliminare le tossine del Berlusconi amo ecco, cominciamo con il non raccontare bugie. Sarebbe un buon inizio. Nelson Mandela è stato un Grande Uomo, senza se e senza ma. E di fronte alla storia umana, perché politica, di quest’Uomo che ha traghettato un intero paese “dalle lande dei senza diritti alle praterie dei diritti socio-politici” bisogna inchinarsi, senza se e senza ma. Eppure un “ma” qualcuno lo ha regalato alle possibilità di analisi critica della storia di Madiba e del Sud Africa. L’arci-famoso Arcivescovo Desmon Tutu, Presidente della Commissione per la verità e la riconciliazione del Paese, nel 2002 sottolineava come “Riconciliazione significa che chi si è trovato dal lato sbagliato della storia deve comprendere che esiste una differenza qualitativa tra repressione e libertà. E per loro, libertà significa avere accesso ad acqua pulita ed elettricità; poter vivere in una casa decente e avere un buon lavoro; poter mandare a scuola i propri figli e poter accedere all’assistenza sanitaria. Voglio dire, a che serve aver fatto questa transizione, se la qualità della vita di questa gente non migliora? Altrimenti il voto è inutile”. Ciò su cui insiste Tutu e su cui non si ragiona abbastanza (tantomeno in questo momento di lutto) è che l’apartheid non è stato solo un sistema politico che stabiliva diversi diritti e libertà di movimento in base al colore della pelle, ma soprattutto un sistema economico che ha utilizzato il razzismo per sostenere elevate rendite a una ristrettissima élite di bianchi. Ciò su cui non si ragiona abbastanza è che spesso si confonde la riconquistata libertà politica dei neri con il diritto e la concreta possibilità di rivendicare e redistribuire ricchezze accumulate, in tanto tempo e in modo così disonesto, dagli oppressori bianchi. Ed è proprio questo “strabismo” tra la dimensione della politica e quella dell’economia ad aver contraddistinto l’esperienza sudafricana. Nella Freedom Charter si possono trovare le radici delle aspirazioni politiche ma, soprattutto economiche, del popolo nero sudafricano in lotta; chi ha scritto la la Carta delle libertà (stesa e adottata nel 1955 dal National African Congress) era consapevole che senza un miglioramento delle condizioni economiche e uno schiacciamento delle diseguaglianze, la parola libertà sarebbe rimasta una parola vuota: “La ricchezza nazionale del nostro Paese, il patrimonio dei sudafricani, sarà restituita al popolo; la ricchezza mineraria, le banche e le industrie monopolistiche saranno trasferite nelle mani del popolo come entità unitaria; tutte le altre industrie e attività commerciali saranno controllate per assicurare il benessere del popolo”. Il diritto al lavoro, a un alloggio decente, alla libertà di pensiero e tante altre possibilità di benessere per il popolo nero, erano poi descritte come possibilità di una grande redistribuzione economica nelle nuove condizioni politiche. Ma, a quanto pare, la Carta della libertà è stata profondamente tradita. Dopo 27 anni di ignobile prigionia, l’11 febbraio 1990 Mandela uscì dal carcere e si iniziarono responsabilmente dei negoziati con il Partito nazionale (soprattutto per evitare ciò che era appena successo nel vicino Mozambico dopo la cacciata dei portoghesi), e portare il paese pacificamente verso una nuova condizione. Tutti gli occhi erano naturalmente puntati su Mandela e il suo staff nel confronto politico con i delegati afrikaner di De Klerk, ma pochi – purtroppo - si interessarono della parte economica dei negoziati. Ed è invece qui che si svolse la vera partita, quella che ha condotto il Sud Africa alle condizioni miserevoli sottolineate, ancora una volta da Tutu nel 2003: “Sapete spiegarmi perché una persona nera oggi si sveglia in uno squallido ghetto, quasi dieci anni dopo la libertà? Poi va a lavoro in una città, una città che è ancora in gran parte bianca, in case principesche, e alla fine della giornata, torna a casa nello squallore? Non so perché questa gente non dica semplicemente: al diavolo la pace. Al diavolo Tutu e la Commissione per la verità”. Cosa è successo? È successo che il vero mediatore della trattativa economica non fu Mandela bensì Thabo Mbeki, succeduto a Mandela nella carica di Presidente del Paese nel 1999 (fino al 2008). È successo che Mbeki ha studiato economia in Inghilterra, si è dichiarato più volte (dimostrandolo nei fatti) un thatcheriano di ferro e nei negoziati del 1990 ha condotto le trattative con i poteri forti dell’economia sud africana, rendendo la Banca Centrale indipendente e separata dalla gestione del futuro governo, ovvero disegnando e vincolando per un orizzonte molto ampio le residue possibilità di aumentare il benessere per la popolazione di colore. Così.. giusto per dire..: la Banca fu poi diretta dall’uomo che da anni la dirigeva, Chris Stals; il Ministro delle finanze bianco sotto l’apartheid, Derek Keyes, rimase al suo posto, così come tutta l’alta burocrazia pubblica. Grazie a quei negoziati non fu possibile redistribuire la terra: i negoziatori accettarono delle clausole alla nuova Costituzione che proteggeva ogni forma di proprietà privata. Non fu possibile cerare i nuovi posti di lavoro promessi: centinaia di fabbriche chiusero perché, dopo l’iscrizione dell’Anc al Gatt (ora Organizzazione mondiale del commercio), i finanziamenti alle fabbriche di automobili e a quelle tessili divennero illegali. Gli aiuti farmaci gratuiti per combattere il dilagare dell’Aids nelle township furono negati perché, senza alcun dibattito pubblico, l’Anc strinse un patto con il Wto per la difesa dei diritti di proprietà intellettuale. Le riserve finanziarie promesse per aumentare il volume dell’edilizia popolare e portare l’elettricità nelle milioni di case al buio furono dirottate per pagare i debiti ereditati dai governi bianche dell’apartheid. Il controllo sulle speculazioni finanziarie sul rand (la moneta locale) furono impediti dall’accordo con il Fondo Monetario Internazionale - che concedeva 850 milioni di dollari - stabilito pochi giorni prima le elezioni che portarono Mandela alla Presidenza (l’accordo stabiliva anche l’impossibilità di aumentare il reddito minimo per i lavoratori dipendenti). Tutti i bianchi funzionari pubblici mantennero il loro posto di lavoro (e chi voleva andarsene percepiva pensioni altissime). Le aziende dei bianchi che avevano guadagnato enormemente durante il “regno bianco” sfruttando la forza di lavoro nera non pagarono un rand di risarcimenti. Il 40% dei pagamenti annuali relativi al debito per molto tempo hanno sovvenzionato l’enorme Fondo pensione del paese e, ovviamente, la grande maggioranza dei beneficiari furono ex impiegati dell’apartheid. Nel 1996 Mbeki presento un “piano di rinascita economica” di taglio prettamente neoliberista: più privatizzazioni, tagli alle spese del governo, più flessibilità nell’uso della forza lavoro, minori controlli sui flussi di denaro, etc..”. I risultati? I buoni propositi della Freedom Charter? Dal 1994 a oggi il numero di persone che vive con meno di un dollaro al giorno è raddoppiato (oltre 4 milioni); tra il 1991 e il 2002 il tasso di disoccupazione tra i nero è più che raddoppiato (dal 23 al 48%) e solo recentemente si è stabilizzato al 27%; l’indice di Gini (che misura la diseguaglianza: 0 = nulla, massima disparità =1) è passato dallo 0,59 del 1993 allo 0,63 del 2009; degli oltre 37 milioni di cittadini neri del Sud Africa solo cinquemila guadagnano più di 60.000 dollari l’anno (il numero dei bianchi in quella fascia è venti volte più alto); il governo dell’Anc ha costruito 1,8 milioni di case, ma nel frattempo oltre due milioni di persone sono rimaste senza tetto; solo nel 2006 più di un sudafricano su quattro viveva in baracche situate nelle township, quasi tutte senza acqua ed energia elettrica; nel 2005 oltre il 40% delle nuove linee telefoniche non erano più in servizio; solo il 4% delle aziende quotate in Borsa sono possedute o controllate da neri; il 70% delle terre sudafricane è ancora monopolio dei bianchi (che sono poco meno del 10% della popolazione). Infine, triste ornamento sulla triste torta: dal 1990, l’anno della scarcerazione di Mandela, ad oggi, l’aspettativa di vita dei sudafricani neri è calata di tredici anni. Insomma, a leggere i resoconti dei protagonisti di quei trattati è evidente l’errore della dirigenza dell’Anc: il combattere aspramente (vincendola) la battaglia politica ma, nel contempo, combattere con meno vigore e intelligenza la battaglia economica. Di fatto l’Anc ha ceduto la sovranità economica del Paese in quei negoziati o, come ben scrive Rassol Snyman, un attivista anti-apartheid: “Non ci hanno mai liberati. Hanno solo tolto la catena che avevamo al collo e ce l’hanno messa alle caviglie”. A volte le lontane lezioni in lontane terre possono servire come monito anche per le faccende economiche domestiche; e ha ragione Amartya Sen: la libertà è, soprattutto, libertà di scegliere. Esiste una storiellina di logica, del matematico Hotelling, chiamata anche paradosso dei due gelatai. Questa mira a spiegare quanto, nel campo dell’economia, sia proficuo per produttori che si fanno concorrenza, creare prodotti straordinariamente simili tra loro. Applicabilissima anche al campo della politica, peraltro. Immaginiamo due gelatai che vendono il loro prodotto in una spiaggia di 1 km e che si spartiscono equamente il litorale dividendolo in due parti uguali per avere sfere d’azione identiche. Ogni gelataio avrà a disposizione 500 mt. E sistemerà il proprio banco frigo al centro di quello spazio in modo tale che ogni bagnante non debba percorrere più di 250 mt per andare a prendersi il gelato. Ma supponiamo che uno dei due voglia fare il furbetto e, per sgraffignare clienti al concorrente, si avvicini alla linea divisoria. Facciamo finta che l’altro gelataio se ne accorga e si accosti anch’egli verso il centro della spiaggia per non farsi fregare. Va da sé che i bagnanti sistemati alle estremità del lido ora dovranno percorrere ben più di 250 mt per avere il loro gelato. Ipotizziamo che ogni gelataio, sempre motivato dall’avidità, continui il suo progressivo spostamento e alla fine entrambi si ritrovino l’uno accanto all’altro nel bel mezzo della spiaggia, coi clienti che devono attraversare quasi tutto l’arenile per andare a refrigerarsi un po’. Naturalmente un gelataio rappresenta i partiti di destra e l’altro quelli di sinistra. Ora io so di non esser nessuno e, in quanto tale, rappresento l’elettore medio. Io mi sarei un po’ rotta le palle di percorrere un sacco di strada per dover comprare un gelato. C’è il concreto rischio che, scoraggiata dalla distanza, non mi alzi nemmeno più dall’asciugamano e rinunci al sorbetto. E come me tanti altri. Lasciandovi lì, vicini come due coglioni, a fare un’indigestione di tutti i vostri coni invenduti. Ordunque, voi di sinistra tornate qua, a sinistra! Voi di destra andate di là, a destra appunto! E cercate di rispolverare il bipolarismo, non il disturbo bipolare. Ché di quest’ultimo ce ne avete mostrato fin troppo, ultimamente. Quell’oscuro oggetto della trattativa Io, a questa cosa di Michela Murgia contro il resto del mondo mica ci credo. Provo a spiegarmi. C’è sicuramente un sottobosco politico con pensieri cattivi, tipo favola del lupo e cappuccetto rosso dove tutti, travestiti da nonna, cercano di ammaliare chi, per la prima volta, se la tenta in politica. Perché così funziona. Ai tempi del PCI, per esempio, quando lavoravo in una radio privata si presentarono i dirigenti cittadini in pompa magna a preparare la “reclame” politica per le elezioni. Proposi come pezzo di sottofondo “Lady Writer” dei Dire Straits. Risposero piccati che la loro storia, la loro dignità, i loro programmi potevano sopportare solo l’internazionale. Ecco perché siamo qui a parlare. Per colpa di questi signori, dirigenti, intelligenti, furbi e preparati. Tanto preparati da riuscire quasi sempre a perdere. Anche perché non sanno contare e non sanno capire. L’Italia, in fondo è un grande zoo abitato da democristiani. Pensare di buttare a sinistra (quale sinistra, poi? Quella dell’Internazionale??) la balena spiaggiata è davvero impossibile. Quindi, i signori (chiamiamoli lupacchiotti che fanno più tenerezza) si sono presentati davvero all’uscio di Michela convinti che, in fondo, siamo tutti nella stessa barca, una mano lava l’altra, questo è tatticismo e c’è sempre tempo per i programmi e per i valori e hanno trovato la nostra Michela (e non pensiamo a Cappuccetto Rosso che è molto ma molto più intelligente e scaltra) con le parole giuste e forti per ricacciare i tattici, i cultori della melina, i professionisti del nulla verso i loro appiattiti lidi. L’Italia è un paese dove regna la trattativa perenne. Oddio, adesso non posso credere che tutto il PD sia costruito in questo modo, ci mancherebbe. Parlo però delle menti pensanti, dei decisori, di chi ha la possibilità di dire ancora “ho un pacchetto di voti da spostare”. Perché così, soprattutto nel sud, si ragiona e trovare qualcuno (Michela, fa gola, ammettiamolo, raffigura il nuovo, il pulito, rappresenta qualcuno e qualcosa di interessante) con il quale trattare sottobanco è un modo come un altro per dire che così si fa politica. Sinceramente queste cose non le ho mai capite. Avevo quattro in matematica e mi sono fermato alle tabelline. Ho sempre guardato con molta diffidenza (e tristezza) i bravi argomentatori, quelli disponibili al dialogo, aperti alle trattative, pronti a parlarne. Questi signori si sono seduti in qualsiasi tavolo. Da quello sindacale (ricordo Spissu piccolo segretario provinciale della cgil) a quello comunale, regionale e poi nazionale. In fondo, tutti ragionano in questo modo e quando si trovano qualcuno davanti che prova a dire no allora tutto si esaurisce con “non fidatevi, è un’ingenuo, non sa fare politica”. Il problema è che la politica “non si fa” ma si vive quotidianamente. Spiegarlo a questi signori che ancora oggi debbono presentarsi davanti ad un giudice per giustificare gli scontrini delle pizze, dei pranzi, delle penne, acquistate con i soldi di tutti (e quindi della polis, della città-stato) è davvero arduo. La differenza sostanziale è tutta qui cari lupacchiotti: esiste un modo diverso di vedere le cose. E la politica non è quella cosa che pensate voi, non è quel mondo astrale in cui continuate a vivere. La politica siamo noi, Michela Murgia compresa (alla quale, in ogni caso, suggerisco di farli i nomi, così ci facciamo due risate). Non credo a Michela Murgia contro il resto del mondo perché il resto del mondo non ha la capacità di comprendere. Sono fermi all’internazionale mentre sul piatto girano i Dire straits (so che è tutto cambiato, ci sono gli mp3, i-tunes, io lo so, sono loro che non lo sanno…. Che diamine….) L’incresciosa vicenda che sta tenendo col fiato sospeso la Sardegna (oddio… sospeso…) e che ha visto protagonisti Michela Murgia e la dirigenza del Partito Democratico, merita alcune riflessioni. Abbiamo poche certezze. La Murgia sostiene di essere stata contatta da alcuni dirigenti PD e di avere ricevuto una proposta di “collaborazione”: accettare un rosa di dieci nomi Democrats nelle sue liste, in cambio dei voti che questi porterebbero facendo salire il quorum di “Sardegna Possibile”. D’altra parte le trattative sotto il tavolo ma anche quelle sopra il tavolo e, meglio che mai, sopra più tavoli, sono una cosa che il PD conosce bene perché le facevano, per imperiosa necessità ontologica, sia la DC che il PCI che il PSI; e poiché i dirigenti attuali del PD sono stati per lo più anche dirigenti della DC, del PCI o del PSI, non vedo cosa avrebbe potuto convincerli, in questi anni, a cambiare metodo. Né credo che sostituire Berlinguer con D’Alema, Craxi con Nencini e Andreotti con Letta abbia cambiato qualcosa. Michela però si è inquietata. E senza pensarci troppo ha reso pubblica la cosa. Dall’altra si è reagito non tanto dicendo “è falso” o “queste cose non si fanno” o “e se si fanno noi non le facciamo”. Più che altro la reazione è stata di sfida: “se è vero, la Murgia faccia i nomi”. Fossi al posto della Murgia io quei nomi li farei, andando fino in fondo. Perché le cose bisognerebbe sempre portarle fino in fondo, come quando si inizia ad estrarre un dente. Fermo restando che non si è trattato di qualcosa di illegale ma al massimo di politicamente rozzo, che problema c’è a sapere che Pinco Pallino insieme a Sempronio e a Tal dei Tali, sono andati da Michela a trattare? Voglio dire, è politica, è tattica, è comunicazione, non sono tangenti. Vorrei vedere la dirigenza del PD denunciare un competitor per una confessione simile. Il problema semmai è che, per tacita intesa, certe cose si fanno ma non si dicono. Esiste un doppio linguaggio in politica: quello che si usa in pubblico e quello che si usa a porte chiuse. I due linguaggi sono diversi per lessico, per estensione e per chiarezza. I partiti da cui proviene il PD (e quindi anche il PD) li hanno sempre usati entrambi e sempre dosandoli con cura. Ogni dirigente sa esattamente quando è il momento di usare uno o l’altro codice e sa che, per funzionare, i due codici non devono sovrapporsi, pena pericolosi cortocircuiti o imbarazzanti figure di merda. Un esempio di queste ultime è quella del giovane dirigente che a una riunione tra capibastone per parlare di candidature, di cariche, di campagna elettorale, si mette a parlare di programmi o peggio ancora di valori. A quel punto i più esperti si guardano, gli sorridono e riprendono da dove erano stati interrotti. Un esempio di corto circuito, che potrebbe essere anche più grave di come è stato finora, è quello avvenuto con le confessioni di Michela Murgia. Sembra una schermaglia da nulla, tanto che mi è bastato tentennare un po’ sulla pubblicazione di questo pezzo che già l’argomento era quasi sparito dalle bacheche. In realtà credo sia sparito per via di una rimozione potente. Questa del doppio linguaggio e della doppia veste in politica è una cosa a cui come italiani siamo avvezzi quanto lo siamo alla doppia morale: la domenica in chiesa vs. il resto della settimana. In entrambe le situazioni si confrontano due contesti complementari ma anche opposti, direi: sacro e profano. In entrambi i casi il passaggio tra i due contesti è affidato al mistero, al segreto e a ministri di culto investiti di un particolare potere che consente loro di gestire i passaggi -propri e altrui- da un contesto all’altro senza conseguenze letali. L’importante è che i due contesti o i loro elementi non si sovrappongano, trovandosi nello stesso luogo e nello stesso momento. Esempi? Ne faccio 4: 1)Il giovane dirigente ingenuo che parla di programmi in una stanza in cui tutti parlano di poltrone. 2) il vecchio dirigente arteriosclerotico che parla di poltrone in una sala in cui tutti fanno finta di parlare di programmi. 3) Il fedele che tromba durante la messa, 4) il tipo che prima di una trombata dice il rosario. Fuor di puttanata mi viene da dire due cose, una a Michela Murgia e l’altra al PD. A Michela chiedo, come sopra, di fare quei nomi e di portare il corto circuito fino alle sue estreme (?) conseguenze. Al PD dico: nonostante continui a sembrarvi naturale la formula del doppio tavolo, del doppio linguaggio ecc, sforzatevi di capire che sono sempre più numerosi quelli che vi hanno votato e avrebbero continuato a votarvi solo per disperazione, perché il resto era peggio, ma che a questi e a molti altri proprio non piace la doppiezza dei vecchi metodi. Non fermatevi alla considerazione che sia da ingenui. Magari è vero, ma non è tutto. Molte altre cose muovono chi detesta certe pratiche. E sono tutte cose che vi svuotano e vi condannano a morte politica. Tuttavia ho come la sensazione che la cosa si fermerà qui. Non sapremo mai nulla né della Rosa, né dei Nomi, come di due cose che alla fine sono una e indissolubile, impossibile da tirar fuori dal recinto rituale della vecchia politica. Fa freddo in questa stanza e le mani mi dolgono. Lascio questo pezzo, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat Rosa pristina Nominibus, Nomina sed non tenemus. Eccheccaz! La distanza in linea retta tra Prato e Firenze è 16.68 km, ma la distanza di guida è 22.3 km; ci vogliono 27 minuti per andare da Firenze a Prato. È questo “respirare la stessa aria”, molto probabilmente, un motivo importante nella scelta di Matteo Renzi: è infatti da Prato che ha preso il via il tour del partecipante alla Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno nel 1994, per presentare “Le idee per cambiare verso al Partito Democratico e all’Italia”, in vista delle primarie dell’8 dicembre. Il candidato segretario del Pd ha fatto il pienone alla Camera di Commercio di Prato, annunciando la sua linea programmatica: l’abolizione del Senato (dovrebbe diventare una Camera delle Autonomie a costo zero), una nuova legge elettorale (capace di dare governabilità piena). Poi Renzi ha parlato del lavoro e della disoccupazione: “Il diritto del lavoro deve passare a 50-60 articoli chiari da 2.168 attuali (…) il centrosinistra ha perso il rapporto con i lavoratori”. Infine, ha voluto parlare della situazione specifica di Prato: “Siamo per l’integrazione, ma le regole valgono per chiunque, che sia nato a Vaiano o Shangai”. Punto. Poi capita che la realtà restituisca la verità profonda alle parole, soprattutto alle parole buttate lì, un po’ a cazzo: l’assoluto vuoto pneumatico, teso solo a raccattare qualche voto in più, solleticando gli animi secondo gli schemi dei solidissimi metodi di marketing. Capita, infatti, che a Prato - in una fabbrica tessile gestita da cinesi - si sviluppi un incendio nella parte dello stabile destinata a dormitorio; capita che sette operai ridotti al rango di merce senza diritti perdano la vita e altre tre persone rimangano ustionate gravemente. Capita che la Storia non insegni niente e che (pur con numeri diversi) a distanza di quasi cento anni si sia potuta ripetere l’infame tragedia della Triangle Shirtwaist Company (New York), una fabbrica tessile che produceva le camicette alla moda di quel tempo, le cosiddette shirtwaist, appunto. Poi capita che Matteo Renzi sia coerente con il suo programma alla voce “lavoro” e, molto probabilmente in ragione di questa coerenza non abbia speso una sola parola sulla tragedia appena compiuta, laddove ha inaugurato la sua prova di forza elettorale alla nuova Ruota della Fortuna. Capita che alla voce “lavoro” si possano leggere delle sciocchezze che neanche un giovane iscritto alla triennale di Scienze Politiche nella prova finale di Diritto del lavoro sarebbe in grado di concepire: “La proposta sul lavoro: I nostri convegni, i nostri discorsi, le nostre mozioni danno spesso grande spazio alla parola “lavoro”. Ci piace discuterne. Ci rassicura sapere che la priorità è il lavoro. Ci emoziona pensare che la Costituzione abbia messo il lavoro al primo posto, in cima agli articoli. Ne parliamo tanto, ma dobbiamo fare di più. Perché il lavoro è considerato un’emergenza solo a parole.” Capita che le uniche proposte che neanche hanno la buccia di ciò che assomiglia a un’idea per chi – da sinistra - conosce e difende il mondo del lavoro, siano quei vaghi riferimenti al “cambiare i centri per l’impiego”, “rivoluzionare il sistema della formazione professionale” e, infine – questa sì una vera idea di sinistra(?) presa in prestito da quell'ex campione del Pd che si chiama Pietro Ichino – “semplificare le regole del gioco: sono troppe duemila norme, con dodici riviste di diritto del lavoro, con un numero di sindacati e sindacalisti che non ha eguali in nessun paese occidentale. La funzione insostituibile del sindacato va difesa dagli eccessi e garantita attraverso la legge sulla rappresentanza e una rigorosa certificazione dei bilanci di ogni organizzazione sindacale, così come la dignità della politica va difesa dagli sprechi di alcuni politici e della casta”. Capita che la ciliegina sulla torta sia “à la Obama”, ci mancherebbe..: “Attenzione ai nuovi settori: Internet ha creato 700.000 posti di lavoro negli ultimi 15 anni, ma sembra ancora un settore riservato agli addetti ai lavori”. E, infine, tra vedere e non vedere, capita che si rimandi al prossimo Primo Maggio la presentazione di “un piano per il lavoro per raccontare che idee abbiamo noi del lavoro”. La certificazione del nulla, appunto, neanche della comprensione di ciò che accade a 22.3 km da Palazzo Picchi. Capita che la zona di Prato sia divisa in due: la vecchia area tessile Made in Italy in crisi e quella tessile cinese, che rappresenta l’area più vivace economicamente e più ampia di economia sommersa e lavoro nero in Italia (e forse in Europa). Il vecchio distretto del tessile italiano è rimasto senza più ossigeno, con una perdita negli ultimi sette anni di 1.400 milioni di euro di fatturato (mille dei quali in esportazioni), ovvero una emorragia secca di 10mila posti di lavoro e 2.000 aziende in meno. L’altro distretto emergente parla hàn yù, ed è organizzato in spazi di produzione ben definiti, come in un puzzle: si produce in via Pistoiese, al Macrolotto, a Tavola, Maliseti, Narnali, Poggio a Caiano: 3.500 aziende di cui 2.400 nel settore delle confezioni e 215 nel tessile (tintorie in capo, stamperie, stirerie, maglierie); 30mila, forse 40mila persone che lavorano a ritmi fuori controllo, giorno e notte, dormendo nei capannoni; due soli gli infortuni sul lavoro denunciati quest’anno, zero iscritti al sindacato, giro d´affari stimato di un miliardo e 800 milioni di euro (di cui si sospetta un miliardo in nero). Insomma, una zona dove gli assenti sono proprio i diritti, ma quelli civili e umani prima che quelli del lavoro. Capita che tutte le indagini della DIA evidenzino la presenza del racket della criminalità cinese a Prato, e che la vitalità dello spazio economico sommerso sia tale perché il mercato di riferimento del pret-à-porter non sia tanto e solo quello italiano, ma tutta l’Europa. Capita che a Prato l’import di tessuti dalla Cina sia cresciuto del tremila per cento negli ultimi 10 anni e che una rilevazione di Bankitalia dimostri come solo nel primo semestre 2007 si siano registrati 600 milioni di euro in transazioni finanziarie da Prato alla Cina. Capita che questo enorme flusso finanziario, utilizzato per costruire una filiera globale e conquistare gli spazi di mercato europei, non passi attraverso il sistema di intermediazione bancario ma attraverso il money transfert: di fatto, un sistema di credito parallelo. Capita che dalla Cina arrivino i tessuti grezzi e che a Prato vengano tinti e rifiniti; e capita che il pronto moda abbia tempi strettissimi, dovendo collocare il prodotto in tre settimane. Capita che per ottenere margini di profitto ampi con prezzi concorrenziali (camicie a tre euro, jeans a 7,50, fuseaux a 2,5, vestiti da donna fra 6 e 7) l’imprenditore scelga di negare molti diritti fondamentali al lavoratore, che ci sia molta economia sommersa, economia irregolare, sfruttamento della manodopera clandestina che vive e lavora in laboratori-dormitorio. Capita che il capannone- dormitorio, dove si è consumata questa strage annunciata e prevedibile, fosse costituito da "loculi" sopraelevati, tutti in fila lungo una parete e costruiti in cartongesso o in semplice cartone per dividere i diversi ambienti. I primi sei morti sono stati trovati lì; un altro poco oltre, con un braccio fuori dalla finestra: cercava di uscire ma il suo corpo ha incontrato le sbarre, come nella strage del 1911, alla Triangle Shirtwaist Company di New York. Capita che Matteo Renzi taccia sulla strage, sulle condizioni di degrado umano in spazi di lavoro raggiungibili dalla sua Firenze in soli 27 minuti, sull’assenza di diritti umani, prima che del lavoro, a Prato e in troppi spazi di questa disgraziata Italia. A me non ha sorpreso questo silenzio, il buio completo in una visione del lavoro che è ancora merce, purtroppo. Non è pregiudizio, il mio. Basta leggere il programma e capire che chi lo ha scritto, quel programma, non ha letto né Marx né Polanyi. Ma per poter vincere, a questo Gioco della Ruota, non ha senso usare idee di sinistra, ha più senso “cambiare verso”, appunto… Leggo di Nizzi che chiede le dimissioni di Giovannelli ed ho un moto vorticoso di pensieri che se mettessi nero su bianco ed affiggessi su questa pubblica bacheca mi varrebbero più di una denuncia per turpiloquio. Però ingoiando quelli più istintivi e genuini, mitigando quelli sinceri ed impulsivi, tacendo quelli più scurrili… mi sorgono un paio di domande e riflessioni. Anzi, più di un paio. Mi viene da pensare che, oltre a non essersi fatto vedere nelle zone alluvionate, lui e la sua amministrazione in qualità di artefici ed esecutori di magiche trasformazioni di terreni agricoli in terreni edificabili, di prodigiose costruzioni in zone ad alto rischio idrogeologico HI4, di edifici più che abusivi condonati con penali pagate in moneta sonante pensano di avere a che fare con dei rimbambiti? Con una massa di decerebrati? Con gente che non conserva memoria del passato? Io credo che se avesse un minimo di pudore dovrebbe tacere! Se avesse un minimo di dignità andrebbe a nascondersi! Se avesse avuto un minimo di coscienza si sarebbe fatto vivo durante il disastro! Ma credo anche che se mio nonno avesse cinque palle sarebbe un flipper! La rapida affluenza di eventi luttuosi concentrati in un lasso di tempo straordinariamente breve e riassumibile nel detto “Le disgrazie non vengono mai sole” o anche “Piove sempre sul bagnato” è un fenomeno assai stravagante. La patologia rara che richiede cure incredibilmente costose non aggredisce quasi sempre il povero disoccupato? L’alluvione non va a colpire più frequentemente una popolazione già martoriata dalla crisi economica? Il treno che deraglia non è forse quello più affollato e che trasporta i pendolari al lavoro? Banalità, stereotipi, cliché, direte in molti. Pensate allora a quante possibilità ci sono, nel corso di un paio di lustri di avere i peggiori governanti possibili e preparatevi ad una prova empirica. Prendete la foto di un tale (con un cognome da mago Silvan che tira fuori dal Cappellaccio conigli decerebrati) che vanta assidue frequentazioni con amichetti immobiliaristi impelagati in associazioni segrete tipo la P3; afferrate la foto di una bella donna, con un cognome che sembra un’imprecazione, (unu barracciu chi ti falede bae in ora mala) che, per avvalorare l’impulso al lavoro locale e dei sardi presente nel suo manifesto politico, affida l’incarico della propria campagna elettorale ad un’agenzia pugliese; agguantate la foto di un tizio, con un cognome semanticamente affine alla luce pulsata di un’estetista, che copia pedissequamente le linee programmatiche di Formigoni senza nemmeno avere l’accortezza di sostituire il nome della Regione. Ritagliatele e incollatele, una per una, sui rulli di una slot-machine e fate girare tirando la leva. Che culo, avete vinto. Per l'ennesima volta ho visto riesumare (stavolta su L'Unione Sarda) la leggenda dell'avviso di garanzia che nel 1994 sarebbe stato recapitato a Berlusconi ad un certo G8 tenuto a Napoli, nel tentativo di accreditare la tesi dell'aggressione della magistratura nei suoi confronti
La storia è, appunto, una leggenda. Però ne parlo perché è un caso esemplare di verità stravolta, plasmata ad uso e consumo dei sofisticatori finché, col tempo, tutte le imprecisioni e le falsità posticce hanno finito con il sovrapporsi ai fatti, cancellandoli. A Napoli, il 22 novembre 1994, non era in programma nessun vertice G8 ma una conferenza internazionale sulla criminalità, cui il presidente del Consiglio Berlusconi sarebbe dovuto intervenire. Non gli venne mai recapitato un avviso di garanzia ma un invito a comparire, in veste di persona informata dei fatti relativi ad un'inchiesta della Procura di Milano su tangenti pagate dalla Fininvest. L'atto venne comunicato a Berlusconi per telefono dai carabinieri, su ordine della Procura che aveva atteso la chiusura delle urne aperte per le consultazioni amministrative svoltesi quel fine settimana. La notizia divenne pubblica perché riportata, il 23 novembre, dal Corriere della Sera, informato da una fonte sempre rimasta anonima. Infine, il reparto del Corriere della Sera che confezionò lo scoop era diretto da un caporedattore poi diventato famoso: Alessandro Sallusti. Tutto questo solo per chiarire che non siamo tutti smemorati e neppure tutti scemi. Una delle caratteristiche fondamentali del periodo pre-elettorale, visibile a 360 gradi, è l'impennata eccezionale delle capacità di utilizzare la propria fantasia di candidato per scaldare cuori e agitare in modo speranzoso (e positivo) le aspettative della vasta platea del potenziale elettorato. Nonostante buona parte del pensiero di John Rawls, la politica non è solo razionalità, ma – soprattutto quella costruita quotidianamente e non studiata con il culo poggiato su comode sedie – speranza e utopia: queste sono la farina e le uova del discorso, più o meno retorico, di tante persone che si affacciano per la prima volta nell’arena della contesa politica o di quelli che in modo tenace continuano a far gravitare le proprie vite in tali spazi. La speranza del cambiamento possibile per le proprie vite e quelle dei propri cari o quelle dei concittadini è un tasto su cui il dito del “politico candidato” continua a premere in modo insistente; e la pressione si fa più forte quanto più profondo, largo e devastante è l’universo dei disagi e delle difficoltà che animano la quotidianità di quei cittadini, potenziali elettori. A volte questa speranza di cambiamento si trasforma in epica narrazione di “stravolgimento” degli equilibri esistenti. Nel recente passato isolano, l’apparire di persone dotate di carisma riconosciuto ha effettivamente animato questa metamorfosi: come una bolla, la speranza si è gonfiata in utopia e ha alimentato la vittoria del primo Soru. Ma, come tutta la letteratura racconta, le bolle si sgonfiano, sempre: il carisma si istituzionalizza, e ciò che era straordinario in passato ri-diventa “normale” nella contingenza. Non è il caso di ripercorrere quell’esperienza (già molto è stato scritto), ma di quegli avvenimenti bisogna mettere in luce la distanza che corre con le attuali narrazioni (e i personaggi che le animano) e il tentativo di avvolgere la speranza nella carta lucente dell’utopia. Non solo il contesto socio-economico è alquanto differente (in peggio), ma la gravità della situazione “da tutti i punti di vista”, dovrebbe suggerire ai competitors una ben più importante onestà intellettuale. A me le utopie sono sempre piaciute, ma in questo momento tragico mi sento di sperare che chi governerà la nostra Isola possa riuscire - almeno - a non farla andare a fondo, per tentare di continuare a galleggiare in una competizione economica globale che, per noi sardi, è di assoluto svantaggio. Purtroppo. Ad esempio, bisognerebbe guardare onestamente i numeri. Certo, può essere deludente e al limite dello sconforto fare questo viaggio, ma è di importanza fondamentale per poter impostare qualche ragionamento che abbia un qualche colore di fattibilità. È urgente trovare il filo (o più di uno) per definire una politica economica che abbia i contenuti e il sapore della integrità interna, orizzonti medio-lunghi e, soprattutto, il profilo della gerarchia di interventi. La nostra è una economia nana, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale. Lo è da sempre e su questo argomento ci sono biblioteche intere di produzione scientifica: non sta a me ricordarlo in questo momento. Ma la crisi economica globale ha ulteriormente schiacciato il nano verso il basso e alimentare, nei modi più diversi, la speranza che il nano diventi di statura media o un gigante è non solo gesto sciocco e miope, ma molto pericoloso. Bisognerebbe, viceversa, essere puntuali e ambire a far sì che nel dramma che si profila per tutte le economie occidentali nei prossimi 5-7 anni, la Sardegna possa “tentare di tenere”, galleggiare, appunto. Sarebbe già un risultato splendido. La nostra ricchezza annua è fatta da poco più di 33.638 milioni di euro, ed è un “bottino” che continua a calare negli ultimi anni, per molti motivi. Uno dei problemi più rilevanti, però, è che la fetta più grande della nostra ricchezza proviene dai servizi (81%), il settore che maggiormente ha tenuto in questa crisi (soprattutto grazie alle donne e ad un ampliamento delle fragilità contrattuali). La nostra è sostanzialmente un'economia che produce servizi: possiamo farci tutte le narrazioni più "felici" del mondo, ma una narrazione onesta fatta sui numeri, quelli che descrivono realmente il mondo economico, ci dice che la nostra è un'economia che fa poco conto su agricoltura e industria: la prima si ferma al 3% del PIL e la seconda al 9,4%; la prima produce 908 milioni di euro di ricchezza ed è in calo rispetto agli anni precedenti; la seconda produce 2828 milioni di euro per ciò che concerne il settore “in senso stretto” e 1722 milioni di euro contando il settore delle costruzioni; entrambe non sono in calo, sono letteralmente crollate negli ultimi anni. Quel poco di industria esistente costruita per lo più da Roma (chimica) e quella endogena hanno visto il PIL diminuire del 26% dal 2007 al 2011; la quota sul totale della ricchezza è passata dal 13% a poco più del 10%; l’occupazione è precipitata, perdendo un quarto degli addetti (da oltre 55mila a 44mila lavoratori). Ha chiuso l'Alcoa, ha chiuso l'Euroallumina, la Queen e tutto il nodo tessile di Macomer, quello cartario, e si potrebbe (dovrebbe) andare oltre in questo tragica narrazione… Sono state crisi animate da fattori differenti, spesso motivi legati a dinamiche internazionali: ad esempio nel tessile, l'ingresso dei cinesi (che possono vantare posizionamento di prodotti a bassissimi prezzi prodotti con costi del lavoro risibili) ha spiazzato moltissime imprese occidentali. La Sardegna, in un contesto di economia globalizzata, fa parte di queste dinamiche, punto. L'Alcoa ha chiuso per ragioni diverse, anche se nella retorica pubblica il discorso si è basato solo sui costi energetici e l'interruzione dei benefici di stato. L'Alcoa è una big Corporation, una multinazionale capace di muoversi su mercati globali e riposizionare abbastanza facilmente le sue strutture produttive dove le condizioni del posto sono a suo vantaggio: sindacati deboli o inesistenti, costi del lavoro risibili, rapporti semplificati (e a proprio vantaggio) con le istituzioni pubbliche, etc, etc.. Questo poteva fare e questo ha fatto, punto. Il capitale straniero ha trovato altri spazi socio-economici di accumulazione più favorevoli. Ora.. la faccenda può anche far storcere il naso a qualche indipendentista: anche per il sottoscritto il capitale (anche quello finanziario) locale è di fondamentale importanza, le possibilità di implementare imprenditoria sarda e aiutarla nelle sue diverse fasi di attività deve essere esplorata in continuità e con grande serietà da parte delle Istituzioni Pubbliche. Ma non è questo il discorso (insider-outsider) che voglio fare; ci sarà tempo. Ciò su cui voglio soffermarmi è un elemento banale: è bene ricordarlo, le imprese locali hanno un piccolo-grande problema che si chiama “mercato di sbocco”, ovvero la possibilità concreta di collocare i propri beni prodotti. La faccenda rilevante è che quando arriva in terra sarda un'impresa straniera, insomma una Corporation che di cui si è potuta valutare la sua solidità e affidabilità, non porta solo i propri capitali, la propria tecnologia, la propria capacità manageriale, etc, etc.. Ma porta in dote, soprattutto, la struttura delle relazioni che è riuscita a conquistare nel tempo e che definisce il perimetro (sempre meno stabile in questa economia globale) dei propri mercati di sbocco. E sono questi perimetri che definiscono, nel tempo, le possibilità di garantire sopravvivenza, consolidamento, espansione delle unità produttive che poggiano il culo in spazi economici periferici, come la Sardegna. Questo non vuole assolutamente essere un invito a calarsi le braghe di fronte a qualsiasi capitale esterno: troppo spesso la lezione del passato è stata quella di fallimenti di mercato dovuti all'azione di imprenditori “esterni” (fintamente travestiti) o caimani (veri) capaci di accaparrarsi capitale pubblico senza nessuna seria idea o prospettiva di investimento in loco. Qui, viceversa, si tratta di selezionare attentamente lo spessore di serietà dei gruppi imprenditoriali che si affacciano nell'isola con qualsiasi pretesa di utilizzo del capitale pubblico, che non è solo denaro, ma anche territorio (come il caso del Qatar sta suggerendo). Ci vuole la presenza di una classe politica capace di definire delle priorità di investimento nel settore industriale, capace - con aiuto esperto dei parte dell’amministrazione regionale e/o di esperti esterni- di fare scouting, dialogare con il capitale straniero nel massimo delle garanzie per i lavoratori sardi e il territorio tutto (soprattutto nel senso della conservazione degli equilibri ambientali). Chi lo può fare? La Sfirs, pezzi dell'Assessorato alla programmazione? Un settore RAS tutto da inventare? Forse si, forse no, non è la declinazione importante in questo scritto. Questo è un punto fondamentale che va analizzato con serietà - a breve - nelle stanze istituzionalmente previste per questa possibilità. Di certo rimane, finora, l'assenza di una politica industriale e di un piano energetico che vanno urgentemente definiti, e definiti per un orizzonte di almeno 15-25 anni; una politica industriale che sia capace di investire risorse, tempo ed energie per metter mano ad ambiti – anche con il contributo di capitale straniero - che siano in grado di alimentare nascita ed espansione di una futura imprenditoria locale (la chimica è un’impresa a ciclo integrato e nega queste possibilità di indotto); che sia in grado di alimentare decisioni importanti sulla destinazione dei fondi della formazione professionale, sulla costruzione di peculiari Corsi di laurea universitari insieme agli organi di Unica e Uniss, capaci entrambi di garantire determinate figure professionali per i settori industriali in cui si è scommesso. Etc. Etc.. Insomma, le "cose da fare" sono molte, tante, forse troppe. Ma, lo ripeto alla noia, bisogna guardare con serietà e soprattutto onestà intellettuale alla posizione della nostra economia nel contesto internazionale - i suoi limiti così come i suoi vantaggi - per limitare i primi e sfruttare al massimo i secondi. Senza banali appelli di certi economisti alla letteratura internazionale, senza narrazioni felici di aspiranti governatori, ma con onesto richiamo alle concrete possibilità della nostra economia che, in una crisi internazionale di portata mostruosa, ci suggeriscono che sarebbe già una fortuna riuscire "a galleggiare" tra competitors di ben altra caratura. Avete sentito da Berlusconi una sola parola sul dramma degli alluvionati di Olbia? Magari mi sarà sfuggita o forse il decaduto avrà tenuto pudicamente per sé il suo dolore, ma non mi risulta nessuna dichiarazione ufficiale.
Strano, per uno che non ha mai mancato di esternare il suo amore per questa terra, ricambiato nel 2007 dal conferimento della cittadinanza onoraria di Olbia. Strano, per uno che una volta, durante uno dei tanti blitz compiuti in città per una delle tante campagne elettorali di questo ventennio, dichiarò che in vecchiaia si sarebbe ritirato in Sardegna per scrivere le memorie della sua vita, precisando che all'opera avrebbe lavorato accomodato al tavolino di un bar del Corso Umberto. Gli piaceva tanto, aggiunse, la luce del cuore di Olbia. Ora basta. Io propongo, da gallurese e cittadino italiano, di revocare la cittadinanza onoraria di Olbia al pregiudicato ed ex senatore Silvio Berlusconi. E chiedo a tutte le forze politiche che basano la loro azione sul rispetto della legalità e sui valori della Costituzione di farsi promotori e portavoce di questa iniziativa, non nuova ma oggi sostenuta da altri e determinanti argomenti. La proposta è rivolta in particolare ai sedicenti partiti di sinistra del territorio, nella speranza che escano dalle ambiguità e dagli imbarazzi spendendo finalmente qualche parola sull'iniziativa. Se vi può essere d'aiuto, sappiate che il Comune di Corleone ha appena revocato la cittadinanza onoraria al calciatore Fabrizio Miccoli per quelle disgraziate frasi, intercettata durante un colloquio telefono, sul giudice Falcone. E se qualcuno obiettasse che a parlare per voi è la vostra cultura stalinista, inguaribilmente incline a sopprimere gli oppositori, fategli presente che pochi mesi fa il Pdl di Ravenna ha chiesto di revocare la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano, accusato di avere gioito delle disgrazie del padrone del centrodestra. Non spiegate il vostro silenzio, per favore, dietro la necessità di debellare la malattia dell'antiberlusconismo militante e neppure azzardatevi a replicare che al Paese interessano ben altre cose e poco importa del profilo penale del suo ex capo del Governo. Dunque, da poco più di tre mesi Olbia ha un cittadino onorario che è pregiudicato per una gigantesca evasione fiscale da oltre trecento milioni di euro. Da un giorno Olbia ha per cittadino onorario un uomo espulso con disonore dal Senato della Repubblica. La condanna e la decadenza da parlamentare potrebbero essere la testa d'ariete per fare breccia nel bunker del Consiglio comunale, finora inespugnabile per chiunque abbia proposto la revoca. Ci provò, qualche mese dopo il conferimento del titolo, un comitato costituito dall'ingegner Giovanni Lopes, ma senza alcun risultato. Già allora, quattro anni prima della condanna, esistevano ottimi motivi per chiedere che si facesse giustizia di un riconoscimento molto discusso. Ripercorriamone allora la storia. La cittadinanza onoraria a Berlusconi è stata assegnata dall'amministrazione comunale di Olbia nel maggio del 2007, pochi giorni prima che Gianni Giovannelli diventasse per la prima volta sindaco. Sequenze di quella giornata sono rimaste impresse nelle scene finali del documentario Videocracy, con Silvio che impugnando la pergamena risaliva il Corso Umberto (quello con la giacca chiara alle sue spalle ero io) tra due ali di folla osannante. In realtà, la delibera della giunta comunale di Olbia che attribuiva la cittadinanza a Berlusconi era datata 2004, firmata da uno sconosciuto ortopedico diventato, dopo aver conosciuto il Cavaliere, consigliere regionale, sindaco e parlamentare: Settimo Nizzi. La cerimonia di conferimento venne posticipata di due anni e mezzo per concludere col botto la campagna per le comunali di quell'anno, stravinte da Giovannelli sul socialista Nardino Degortes. Nizzi era ancora sindaco e i suoi rapporti con il successore ancora eccellenti, prima della clamorosa rottura consumatasi nei mesi successivi. Perché venne conferita la cittadinanza a Berlusconi? Perché, sostenne il sindaco, i vertici internazionali tenuti in quegli anni a Villa Certosa avevano concesso una formidabile ribalta internazionale a Porto Rotondo e al territorio di Olbia: tutti ricordano le visite agostane dell'ex premier spagnolo Aznar e la scampagnata a Porto Cervo di Tony Blair e consorte, accompagnati dal Silvio con bandana annodata dietro la nuca. Insomma, il merito di Berlusconi è stato quello di possedere una villa a Porto Rotondo dove invitava rappresentanti istituzionali in veste informale, proprietà inopinatamente trasformata in residenza di Stato quando si trattò di impedirne l'ingresso ai magistrati che indagavano sugli abusi edilizi che vi erano stati commessi, prima di essere sanati. In veste ufficiale, Berlusconi non è mai stato al Comune di Olbia, neppure quando Fininvest propose la costruzione di Costa Turchese. Era il 1983 e a presentare il progetto furono il fratello Paolo e Fedele Confalonieri, preceduti nella loro visita da un pacco spedito a tutti i consiglieri comunali contenente un costosissimo, per l'epoca, videotelefono. Quando divennero pubbliche le fotografie scattate nella villa da Antonello Zappadu - specie quella del premier ceco Topolanek con attributi al vento - risultò chiaro quali delicatissime urgenze diplomatiche rendessero necessari questi vertici internazionali. La fama internazionale della Sardegna, in quel periodo, potrebbe essere avvicinata alle reputazione di cui godeva Cuba ai tempi del dittatore Fulgencio Batista, quando l'isola caraibica era considerata il casino d'America. Poi, due anni dopo, venne lo scippo del G8, assegnato a La Maddalena dal governo Prodi e dirottato a L'Aquila dall'esecutivo Berlusconi, utilizzando come spregevole pretesto il terremoto che aveva colpito la città. Con esso si tolse a La Maddalena una formidabile carta mediatica per la sua riconversione in chiave turistica, dopo lo smantellamento della base nucleare di Santo Stefano, e al territorio i fondi per il rifacimento della Olbia-Sassari, convogliati in un portafoglio a disposizione della presidenza del Consiglio. Il tutto, mentre 24 carabinieri continuano ogni giorno, ancora oggi, ad essere sottrattii dai loro compiti di sorveglianza del territorio per presidiare Villa Certosa, anche quando è disabitata. Insomma, quali sarebbero questi meriti storici resta un mistero. La scorsa estate, come ormai immancabilmente avviene da molti anni a questa parte, si è levata la voce di una imminente vendita di Villa Certosa al solito misterioso acquirente, notizia come sempre smentita nel giro di poche ore. E L'Unione Sarda ha intervistato un signore che fornisce vini e bevande alla tenuta di Punta Lada. Costui si è fatto latore di nefaste profezie, immaginando un danno colossale per il territorio se l'affare fosse andato in porto e Berlusconi avesse lasciato una volta per tutte il suo ritiro estivo. Ecco, forse gli unici a dispiacersi della revoca della cittadinanza onoraria potrebbero essere il suo bibitaro e i pochi altri che a Villa Certosa continuano a fare affari. Nel frattempo, l'ex premier è ufficialmente diventato un pregiudicato. E chi dice di avere a cuore la legalità, non può tollerare che un pregiudicato per reati conto la pubblica amministrazione sia cittadino onorario per iniziativa di una pubblica amministrazione. C’è qualcosa che mi ha sinceramente irritato nell’addio di Silvio Berlusconi al Senato. Non è stata la pantomina dell’Onorevole Bondi e neppure la “sciantoseria “ dell’Onorevole Mussolini, cose di ordinaria amministrazione. Non sono state le signore bardate a lutto in segno di “spregio” nei confronti del popolo italiano (ricordo che la sentenza, passata in giudicato, è stata pronunciata in nome di tutto il popolo italiano) e neppure la sua stanca litania, peraltro scontata, dove ha promesso di non andare via, di continuare ad occuparsi dell’Italia. Anche queste cose ampiamente prevedibil in linea con il personaggio. Non mi ha destato paura il ghigno feroce di Verdini e dei Capezzone e dei Ghedini o dei Brunetta. No, non è stato quello a produrmi l’irritazione anche se, devo ammetterlo, ne avrei fatto volentieri a meno. Quello che, invece, ha suonato come qualcosa di irrituale, inusuale e, lasciatemelo dire, di cattivo gusto, è stata la fotografia, mostrata nella piazza “urlante” che rappresentava il Cavaliere con dietro il drappo delle Brigate rosse e sotto la scritta “prigioniero politico”, quasi a voler ripercorrere, attraverso quella fotografia, la storia del presidente Aldo Moro, divenuta un’icona fortissima per quelli della mia generazione. Io nei 55 giorni di Moro c’ero. Li ho vissuti terribilmente tutti e ne sento ancora oggi le conseguenze e le paure. Ricordo i giorni e i personaggi. Ricordo gli umori, i depistaggi, gli errori di valutazione, le lotte intestine all’interno della democrazia cristiana, le trattative sottotraccia dei socialisti, l’impossibilità di trattare con i comunisti, quelli più disponibili, quelli più duri, un paese in apnea, un mondo nascosto fatto di servizi segreti e logge massoniche. Di P2. Questo ricordo. Ricordo soprattutto (rileggete il bellissimo libro La tela del Ragno di Sergio Flamigni, Kaos edizioni) che nelle prime ore convulse del sequestro, il 16 marzo 1978, rilasciarono interviste politici, economisti, banchieri, tutti iscritti alla Loggia massonica P2. Quei giorni dove hanno parlato i mistici, quelli che avevano trovato, tramite una seduta spiritica cui aveva partecipato Romano Prodi (ma tu guarda) il covo di via Gradoli, dove pullulavano gli scettici, quelli che non hanno mai creduto alle parole di Aldo Moro in prigione; i filo brigatisti pronti quasi a giustificare questa orribile mattanza. Sono stati giorni bui, densi, neri. Nerissimi per la mia tarda adolescenza. Giorni che mi hanno segnato. Ma ricordo – e ho un ricordo nitido – che Aldo Moro non si dichiarò mai un prigioniero politico. Quando ieri ho visto la foto di Silvio Berlusconi (non più Onorevole) con dietro la scritta “brigate rosse” ho avuto come un fremito e un piccolo motto di rabbia. Aldo Moro non è chiaramente Silvio Berlusconi e le storie non si sono neppure sfiorate (anche se, a pensarci bene, il Cavaliere risultava iscritto alla loggia P2 ma, come dire, lasciamo perdere). La visione politica di Aldo Moro, per quanto non condivisibile (e io, personalmente non la condividevo) era, appunto una “visione politica” perché Aldo Moro era, a suo modo, un visionario, uno che aveva capito l’importanza di aprire alla sinistra, di fare un passo in avanti rispetto al vecchio e ormai sorpassato consociativismo. Insomma, Aldo Moro non è Berlusconi e tantomeno la Magistratura può essere rappresentata dalle brigate rosse. Anzi, questa è pura blasfemia. Le brigate rosse, nella loro fulgida follia politica (e senza alcuna visione) hanno rapito i giudici, li hanno feriti e uccisi. E i giudici, con il solito indomito coraggio li hanno processati e condannati. Vorrei poterlo dire a chi teneva stretto ieri, in piazza, quel cartello raffigurante un Berlusconi con dietro la scritta “brigate rosse”. Vorrei poter ricordare che il processo di Aldo Moro fu quanto di più tirannico si potesse costruire: Nessun avvocato, nessuna prova. Il tribunale del popolo (un popolo molto ancestrale, a dire il vero e composto solo da pochi brigatisti) decise per la pena di morte, pena che non esiste per nostra grande fortuna all’interno del codice penale italiano. Vorrei poter ricordare che il processo di Silvio Berlusconi è stato tra i più democratici e garantisti che sono stati effettuati in questo paese: avvocati, testimoni, elementi probatori analizzati in tre gradi di giudizio. Questo vorrei ricordare a chi avvicina la figura martirizzata di Aldo Moro a quella di Silvio Berlusconi. Ognuno ha la sua storia e i suoi processi. Silvio Berlusconi e i suoi “fans” potevano lasciare la scena con dignità. Non sono riusciti a fare neppure questo e hanno imbrattato la storia di un paese segnato da tragedie vere e da altre abbastanza ridicole. Potevano dire, semplicemente, “lo spettacolo è finito”. Probabilmente si sarebbero beccati anche l’applauso. Ma da gente che confonde il dramma di Moro con una sentenza di condanna per frode fiscale non si può pretendere che comprenda l’importanza dei gesti. Ho sostenuto esami di diritto, seguito lezioni di giuristi come Umberto Allegretti, Salvatore Satta, Stefano Rodotà che esortavano alla lettura di Bobbio, Beccaria, Hobbes, Rousseau, Montesquieu. Fra le cose apprese e rimaste nella mente, c’è un’astrazione da cui non riesco a sfuggire: “folli quei popoli che infieriscono sui corpi dei condannati alla forca”. C’è stato insegnato che non è cosa assennata per un paese affidare la selezione della classe politica alle caste occulte e alle élite, perché queste s’incuneano, come torrenti carsici limacciosi, nei centri linfatici del potere, senza aver ricevuto mandato democratico, godendo d’immunità piena e senza che alcuno mostri la vera faccia. Parlo di quel potere che appare impersonale, quello che sghignazza e si tappa la bocca, che dalla tormenta esce sempre indenne, pronto a riprendersi più di quanto avesse per qualche istante abbandonato. E’ il potere che affida ad altre armate, spesso ignare e senza estro, il compito di divulgare la notizia che i vessilli hanno ripreso a garrire sui bastioni della “legalità”. Temo sia altrettanto poco saggio affidarsi ai “processi catartici” di un corpo d’uomo ciondolante, ectoplasma del male, ritenendo in tal modo di esorcizzare le ossessioni che ci divorano. Ho il dubbio che il golem di Berlusconi renda a molti italiani le notti più insonni. La sinistra viene da taluni tacciata di conservatorismo; temo, invece, sia afflitta da perniciosa fissa e finanche da pulsioni reazionarie. C’è qualcosa che mi ha sinceramente irritato nell’addio di Silvio Berlusconi al Senato. Non è stata la pantomina dell’Onorevole Bondi e neppure la “sciantoseria “ dell’Onorevole Mussolini, cose di ordinaria amministrazione. Non sono state le signore bardate a lutto in segno di “spregio” nei confronti del popolo italiano (ricordo che la sentenza, passata in giudicato, è stata pronunciata in nome di tutto il popolo italiano) e neppure la sua stanca litania, peraltro scontata, dove ha promesso di non andare via, di continuare ad occuparsi dell’Italia. Anche queste cose ampiamente prevedibil in linea con il personaggio. Non mi ha destato paura il ghigno feroce di Verdini e dei Capezzone e dei Ghedini o dei Brunetta. No, non è stato quello a produrmi l’irritazione anche se, devo ammetterlo, ne avrei fatto volentieri a meno. Quello che, invece, ha suonato come qualcosa di irrituale, inusuale e, lasciatemelo dire, di cattivo gusto, è stata la fotografia, mostrata nella piazza “urlante” che rappresentava il Cavaliere con dietro il drappo delle Brigate rosse e sotto la scritta “prigioniero politico”, quasi a voler ripercorrere, attraverso quella fotografia, la storia del presidente Aldo Moro, divenuta un’icona fortissima per quelli della mia generazione. Io nei 55 giorni di Moro c’ero. Li ho vissuti terribilmente tutti e ne sento ancora oggi le conseguenze e le paure. Ricordo i giorni e i personaggi. Ricordo gli umori, i depistaggi, gli errori di valutazione, le lotte intestine all’interno della democrazia cristiana, le trattative sottotraccia dei socialisti, l’impossibilità di trattare con i comunisti, quelli più disponibili, quelli più duri, un paese in apnea, un mondo nascosto fatto di servizi segreti e logge massoniche. Di P2. Questo ricordo. Ricordo soprattutto (rileggete il bellissimo libro La tela del Ragno di Sergio Flamigni, Kaos edizioni) che nelle prime ore convulse del sequestro, il 16 marzo 1978, rilasciarono interviste politici, economisti, banchieri, tutti iscritti alla Loggia massonica P2. Quei giorni dove hanno parlato i mistici, quelli che avevano trovato, tramite una seduta spiritica cui aveva partecipato Romano Prodi (ma tu guarda) il covo di via Gradoli, dove pullulavano gli scettici, quelli che non hanno mai creduto alle parole di Aldo Moro in prigione; i filo brigatisti pronti quasi a giustificare questa orribile mattanza. Sono stati giorni bui, densi, neri. Nerissimi per la mia tarda adolescenza. Giorni che mi hanno segnato. Ma ricordo – e ho un ricordo nitido – che Aldo Moro non si dichiarò mai un prigioniero politico. Quando ieri ho visto la foto di Silvio Berlusconi (non più Onorevole) con dietro la scritta “brigate rosse” ho avuto come un fremito e un piccolo motto di rabbia. Aldo Moro non è chiaramente Silvio Berlusconi e le storie non si sono neppure sfiorate (anche se, a pensarci bene, il Cavaliere risultava iscritto alla loggia P2 ma, come dire, lasciamo perdere). La visione politica di Aldo Moro, per quanto non condivisibile (e io, personalmente non la condividevo) era, appunto una “visione politica” perché Aldo Moro era, a suo modo, un visionario, uno che aveva capito l’importanza di aprire alla sinistra, di fare un passo in avanti rispetto al vecchio e ormai sorpassato consociativismo. Insomma, Aldo Moro non è Berlusconi e tantomeno la Magistratura può essere rappresentata dalle brigate rosse. Anzi, questa è pura blasfemia. Le brigate rosse, nella loro fulgida follia politica (e senza alcuna visione) hanno rapito i giudici, li hanno feriti e uccisi. E i giudici, con il solito indomito coraggio li hanno processati e condannati. Vorrei poterlo dire a chi teneva stretto ieri, in piazza, quel cartello raffigurante un Berlusconi con dietro la scritta “brigate rosse”. Vorrei poter ricordare che il processo di Aldo Moro fu quanto di più tirannico si potesse costruire: Nessun avvocato, nessuna prova. Il tribunale del popolo (un popolo molto ancestrale, a dire il vero e composto solo da pochi brigatisti) decise per la pena di morte, pena che non esiste per nostra grande fortuna all’interno del codice penale italiano. Vorrei poter ricordare che il processo di Silvio Berlusconi è stato tra i più democratici e garantisti che sono stati effettuati in questo paese: avvocati, testimoni, elementi probatori analizzati in tre gradi di giudizio. Questo vorrei ricordare a chi avvicina la figura martirizzata di Aldo Moro a quella di Silvio Berlusconi. Ognuno ha la sua storia e i suoi processi. Silvio Berlusconi e i suoi “fans” potevano lasciare la scena con dignità. Non sono riusciti a fare neppure questo e hanno imbrattato la storia di un paese segnato da tragedie vere e da altre abbastanza ridicole. Potevano dire, semplicemente, “lo spettacolo è finito”. Probabilmente si sarebbero beccati anche l’applauso. Ma da gente che confonde il dramma di Moro con una sentenza di condanna per frode fiscale non si può pretendere che comprenda l’importanza dei gesti. Cinque anni fa, la villa di Arzachena dove sono morti i quattro componenti della famiglia Passoni era stata travolta da un'altra piena del fiume. Allora andò bene, ma gli inquilini del tempo (anch'essi brasiliani) avevano raccontato del pericolo scampato.
Un assessore comunale, l'avvocato Rino Cudoni, formulò una richiesta all'ufficio tecnico per domandare quale legittimità e quali garanzie di sicurezza vi fossero nella sempre più frequente trasformazione in locali residenziali di scantinati destinati a tutt'altro uso. Nel caso specifico, quella cantina era stata concepita per essere un locale per la lavorazione delle carni. E, in definitiva, quella ricerca di chiarimenti significa che qualche preoccupazione esisteva. Però sull'approccio culturale ai disastri noto che certa informazione segue fedelmente l'esempio della politica. Si parla di soccorsi e contributi pubblici post emergenza, si parla poco o nulla di quel che l'uomo può fare per evitare o limitare i danni provocati da questi eventi atmosferici. E ora vengo al punto. Oggi il direttore de L'Unione Sarda sostiene che Renato Soru voglia "speculare sulla tragedia, cercando con astio e aggressività una rinnovata visibilità". Lo scrive commentando la gazzarra televisiva scatenata ieri su Rai Uno dal confronto tra Soru e Cappellacci. Per il direttore questi dibattiti televisivi sono un serio problema e non fanno bene alla Sardegna. Probabilmente si riferisce ai confronti basati sul conflitto tra due opposte visioni in tema di pianificazione urbanistica, un confronto che sta pericolosamente finendo per restituire attenzione al Piano paesaggistico regionale varato nel 2006 e per porre pesanti interrogativi sulla sua recente revisione. Il Ppr in vigore è certamente perfettibile nei aspetti tecnici - oggi Francesco Pigliaru, su La Nuova Sardegna, ne individua il punto debole nel suo impianto conservatore - ma resta l'emblema di un atteggiamento più rigoroso e responsabile nel rapporto tra ambiente e cemento. Ed è esattamente per questo motivo che Soru torna ad apparire con una certa frequenza in televisione. Ora facciamo un passo indietro. Quel Piano paesaggistico è stato, nei suoi quattro anni e mezzo di mandato a capo della Regione, la principale ragione dell'asperrima guerra tra Soru e L'Unione Sarda. Siccome si tende a dimenticare facilmente anche il nostro recente passato, sarà bene ricordare la giornaliera demolizione dell'opera di quella giunta compiuta da quotidiano e televisione di Sergio Zuncheddu, attraverso una linea editoriale ferocemente ostile a quel governatore. Non ci sarebbe nulla di male nell'atteggiamento di un organo di stampa che attacca a testa bassa la politica perseguita da un'istituzione. Dovrebbe, anzi, essere la normalità, purché si portino argomenti e fatti dimostrabili. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che l'editore Sergio Zuncheddu è anche un costruttore con interessi palesemente in conflitto con il giro di vite al cemento imposto dal Piano paesaggistico di Soru. Zuncheddu è il padrone delle Città Mercato, Zuncheddu è colui che ha costruito sulle coste di Olbia il gigantesco villaggio Olbiamare con porto turistico incorporato, Zuncheddu è l'ideatore del fallito tentativo di edificare un nuovo complesso residenziale sullo stagno di Porto Giunco, a Villasimius. Zuncheddu è anche il proprietario delle torri di Santa Gilla, a Cagliari, dove oggi hanno sede le redazioni del suo gruppo e che nel 2004 avrebbero dovuto essere acquistate dalla Regione, prima che Soru bloccasse l'operazione. È insomma evidente la totale incompatibilità di prospettive tra il padrone de L'Unione Sarda e l'indirizzo politico impresso da Soru alla sua giunta. E questa, purtroppo, resta la principale debolezza dell'informazione de l'Unione Sarda, quando affronta questi temi. Ora, di Soru si può pensare tutto il male possibile e pure a ragione, visto il suo carattere dispotico e la sua innegabile tendenza all'accentramento. Lo si può contestare per l'inaccettabile percentuale di assenze in Consiglio regionale, segnale orribile di disinteresse verso l'attività del parlamento sardo. Però non basta accusarlo di speculare per fini politici sulla tragedia intervenendo in uno show televisivo. Bisogna contestare i suoi argomenti nel merito, se si vuole apparire credibili. Specula perché dice sciocchezze per averne, forse, un ritorno politico? Soru non ha partecipato alle primarie del Pd ed è fuori dalla corsa alla Regione, come tutti sanno, cosicché al momento non compete in nessuna corsa elettorale. Si potrebbe essere tentati di credere che il vero problema non sia tanto l'asserito, deprecabile speculare sulla tragedia, quanto il ritorno di popolarità dell'ex presidente della Regione e delle idee da lui proposte in tema di urbanistica. Soru, nello stesso giorno, ha rilasciato un'intervista a Il Fatto Quotidiano e a Skytg24 dove ha sostenuto non apparirgli normale che una famiglia potesse vivere nello scantinato di una villa costruita sulle sponde di un fiume. Ha speculato sulla tragedia per avere espresso questo suo convincimento? O forse gli speculatori sono altri? Le parole hanno un senso. Di questo ne era profondamente consapevole un intellettuale lucidissimo , forse il più grande del novecento: Pier Paolo Pasolini. In un articolo contenuto su “scritti corsari” , nel 1974 (uno dei miei libri sul comodino) Pasolini si sofferma su due parole, apparentemente vicine e, come dire, ottimistiche e positive: Sviluppo e progresso. Si chiede, in premessa, se le due parole siano da considerare dei sinonimi o se siano due fenomeni diversi che si integrano necessariamente fra di loro o, ancora, se indicano due fenomeni “opposti” che, solo apparentemente, coincidono e si integrano. Da queste premesse Pasolini ci accompagna in un viaggio molto interessante che seppure dobbiamo filtrare con gli occhi dei giorni nostri (sono passati quasi quarant’anni) ci porterà a comprendere alcune prese di posizione e polemiche che hanno alimentato la politica di questi giorni, soprattutto la politica sarda, alla luce della recente alluvione e conseguente disastro dovuto, essenzialmente alle scelte scellerate degli uomini (uomini, ahimè, comunque sardi). La parola “sviluppo” - secondo Pasolini - ha una rete di riferimenti che riguardano un contesto di “destra”. Pasolini sostiene, infatti, che a volere lo “sviluppo” è colui che ha ragioni di un immediato interesse economico e quindi ha interesse a produrre beni “superflui” da immettere sul mercato e rivenderli e chi acquista questi beni è un “consumatore d’accordo nel volere lo sviluppo perché per essi significa promozione sociale e liberazione”. Il progresso, invece, lo vogliono - sempre secondo Pasolini - “coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare” e lo vuole quindi, chi lavora e dunque è sfruttato.” Il progresso è una “nozione ideale là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico.” Ricordo queste cose perché sono importante anche se, lo capisco, rischiano di essere complesse nei passaggi e nei ragionamenti, ma necessarie per comprendere quello che oggi è accaduto e che nasce dalle parole che divengono scelte politiche. Perché di questo si tratta: si può sostenere lo sviluppo a tutti i costi o, come si dice oggi, con una correzione ideologica quasi naturalistica “sostenibile”, oppure si può scommettere tutto sul “progresso” anche se (e lo ricorda sempre Pasolini) a quanto pare non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo. Subito qualcuno potrebbe obbiettare che questa differenziazione oltre ad essere ideologica e di parte è superata dagli eventi. Ne è convinto anche Pasolini nell’articolo del 1974, cancellando le false ideologie e schieramenti e mettendoci davanti ad un’atroce realtà: la destra sostiene lo sviluppo e lo mantiene ogni qual volta è al potere. Oggi si direbbe che fa cose di destra, lecite per carità, ma di destra. Il problema è però un altro: la sinistra che vuole il ”progresso” per governare accetta “lo sviluppo” e, soprattutto accetta questo tipo di sviluppo stigmatizzato da Pasolini come industrializzazione totale. Certo, le cose sono cambiate, i muri sono crollati e parlare di tecnologia borghese oggi fa senz’altro sorridere ed è sicuramente un modo di vedere le cose probabilmente superato. Ma non è superata l’analisi lucida dell’articolo dell’intellettuale scritto - lo ricordo - nel 1974. Da anni, in qualche modo, soprattutto nelle realtà locali abbiamo assistito a governi di destra o di sinistra (meglio: di centro destra e centro sinistra) ed ognuno di essi ha parlato di sviluppo del territorio. Magari qualcuno di sinistra si è soffermato sul progresso e sull’essere progressista e non conservatore. Di fatto però, quello di sinistra (o di centro sinistra) quando ha potuto governare si è comportato proprio nello stesso modo di Lenin che, dopo una campagna all’insegna del progresso, una volta ottenuta la vittoria nella rivoluzione, ha cominciato a parlare di grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Insomma, ho letto e riletto le parole scritte da Pier Paolo Pasolini e mi è sembrato giusto parlare da queste premesse per poter concludere un semplice ragionamento perpetrato da tutti in questi anni nel nostro paese, nella nostra regione, nei nostri comuni: si è parlato di sviluppo e in nome di questa parola si è costruito dove non si doveva e poteva costruire, ci sono stati i condoni per permettere lo sviluppo del paese, abbiamo privatizzato (e continuiamo a farlo) per ottenere lo sviluppo, continuiamo a discutere di sottosviluppo e contrapponiamo lo sviluppo equo, sostenibile (a mio parere, sviluppo sostenibile è un ossimoro). Nessuno, insomma, parla più di progresso, del concetto di progresso, di quel voler progredire partendo dalle cose costruite in precedenza. Noi, confondiamo le parole e anziché provare a comprenderle e soffermarci, ci riempiamo la bocca di concetti poco conosciuti e deleteri: in nome dello sviluppo abbiamo costruito nei fiumi, abbiamo allargato le città abbandonando i centri storici, abbiamo costruito sulle spiagge, sui fiumi, abbiamo elevato autostrade deturpando il paesaggio, tutto per rincorrere uno sviluppo che oggi si scopre insostenibile. Abbandonando quel progresso fatto di piccoli passi, di attenzione alle cose. Si progredisce se si conosce, e si mantiene se si è progrediti in maniera dolce e non selvaggia. Il progresso è dedicato al futuro con gli occhi del passato, lo sviluppo è la velocità senza radici. Dovremmo cominciare a soffermarci sulle parole e sui concetti. Dovremmo cominciare a chiedere a chi ci governa cosa intende fare di noi, del futuro dei nostri figli: vuole lo sviluppo o vuole il progresso? E in base a questo dovremmo cominciare a scegliere. Dovremmo ritornare alla politica, a quella seria. Non è più il tempo degli slogan o delle parole macinate e rigettate in un palco. Non è più il tempo dei sorrisi e degli imbonitori. Le parole hanno un peso e determinano le scelte e il futuro e decidono il colore del nostro orizzonte. Non dimentichiamolo. "I Sardi hanno la forza e le capacità per rialzarsi, troviamo anche il coraggio di interrogarci e correggere gli evidenti errori nelle scelte di pianificazione urbanistica e di saccheggio del territorio. Per rispetto delle tante vite perse in questi giorni drammatici, da domani ripensiamo un modello di sviluppo che non lasci macerie e disastri ambientali in eredità alle generazioni future" (Silvio Lai, Segretario regionale PD, indagato nell’inchiesta bis sui fondi ai gruppi del Consiglio regionale della Sardegna ) Sara' un caso. Non lo so, ancora non riesco a cogliere pienamente le implicazioni di questa vicinanza. Magari e' solo un caso. Nel mio dizionario di italiano il termine "pretesa" e' posizionato a leggera distanza dal termine "prete". Magari e' solo un caso. Pretesa significa "ciò che si pretende, esigenza; di chi chiede cosa eccessiva". Ancora oggi non smetto di ringraziare mio padre per aver evitato di rispondere direttamente ai miei infantili "cosa vuol dire?", rimandandomi ad ogni occasione alla lettura del dizionario. E' sempre istruttivo, anche quando ci si sente sicuri del proprio sapere, ritornarci, scandagliare le parole ed esplorare le sue possibili declinazioni magari ancorando i concetti a soggetti diversi. Un po' il gioco di Calvino.. Cosa accade se il soggetto di una pretesa così intesa diventa la classe politica regionale che, direttamente o indirettamente (ma è la stessa cosa..), ci governa in questo frangente? Accade ciò che e' ben espresso nella lingua inglese con il temine tragi-comedy: "a tragedy with a comedy element", una tragedia con elementi comici, laddove - a mio parere - la tragedia e' l'esito e gli elementi comici i passaggi delle azioni che ivi conducono i protagonisti e, purtroppo, gli spettatori-cittadini. Con quale pretesa questi "governanti" pensano di essere ancora legittimati a ricoprire i loro ruoli, ad essere riconosciuti e creduti nelle loro parole (il concetto di azione mi sembra inappropriato e troppo impegnativo in tal caso) laddove rimandano a possibili soluzioni della tragedia che si sta consumando questi giorni nella vita di migliaia di cittadini, così come nella nostra economia, nella vita dei lavoratori, così come in quella di moltissimi imprenditori? Com'è possibile pretendere di essere creduti nelle parole spese (molte) e azioni intraprese (poche) nella presa in carico delle sedimentate problematiche di un territorio disperato come quello isolano quando non si è in grado di giustificare pubblicamente - non giudiziariamente - l'uso di danari pubblici dedicati ad attività specifiche? Quando si è segretari regionali di un partirò che ha firmato la proposta di legge per una gestione "più dinamica" del territorio (Proposta di Legge n.542/2013 "Norme urgenti in materia di usi civici, di pianificazione urbanistica, di beni paesaggistici ") ?Proprio ciò che serve all'Isola, senza dubbio: la cessazione di una fetta incredibile di usi civici, forte tutela dell'integrità ecologica del territorio, e il possibile welcome alla speculazione edilizia. |
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July 2014
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